LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Tacito e l’Impero #1/10
3 Settembre 2008
di Panfilo Gentile
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 27 febbraio 1969]Â
Tacito prosatore ha superato bene i secoli. Ancora oggi i buongustai della lingua latina apprezzano la musica cadenÂzata e grave delle sue « StoÂrie » e dei suoi « Annali ». Tacito storico invece ha avuÂto sorte meno benigna. La critica moderna, armata di tutto il suo dotto apparato, ha sotÂtoposto i racconti tacitiani ad una verifica minuziosa. Il meno che si è detto è che Tacito era stato un compilatore di storie altrui ed aveva spesso utilizzato le sue fonti senza controlli. I giudici più severi hanno aggiunto che egli era stato, come si dice oggi, uno scrittore impegnato e quindi disposto spesso se non al traÂvisamento dei fatti, perlomeno alla tendenziosità o alla retiÂcenza. Rimprovero questo asÂsai più grave del primo. Uno storico incauto è meno colpevole di uno storico partigiano.
Non sono uno specialista e quindi non sono in grado di pronunciarmi su nessuna delle molte questioni tacitiane in diÂscussione. Se il lettore vuole informarsene non deve andaÂre lontano. Abbiamo Ettore Paratore, che in materia è una autorità di fama europea.
Tuttavia, per quel poco che so di storia romana, non mi sento di associarmi all’opinioÂne più radicale che suona così: teniamoci il Tacito letterato e buttiamo via il Tacito storico. Tutto considerato, credo che, malgrado le sue pecche, TaÂcito resti un grandissimo stoÂrico, perché resta valido, all’ingrosso, il suo giudizio sulÂl’Impero.
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L’editore Einaudi, che proÂprio in questi giorni ha pubÂblicato in un unico volume tutte le opere di Tacito in un’eccellente traduzione di CaÂmillo Giussani, mi ha offerto l’occasione di riesaminare il problema generale del rapporto di Tacito con l’Impero. Ebbene, mi sono riconfermato nell’opinione che la storiografia moderna può accettare nelle sue grandi linee la versione tacitiana.
Come si sa, Tacito fu un giudice severo dell’Impero. Egli ebbe piena coscienza di vivere in un’epoca di decadenza, nonostante la felicità del principato di Traiano. Certamente egli condannò la corruzione dei costumi, la mollezza, il disordine morale, l’eccesso del fasto, la lussuria invereconda della sua epoca. Ma questi erano luoghi comuni della letteratura del tempo, nella quale la vecchia antitesi fra l’austerità repubblicana e la corruzione della progredita civiltà  si era rafforzata col diffondersi della filosofia stoica e delle sue inclinazioni per il viver disadorno e semplice.
Ma Tacito non si fermò a tale moralismo di tipo letterario. Egli era un uomo politico. Aveva percorso una carriera relativamente brillante: fatto senatore da Vespasiano, promosso questore da Tito, conÂsole sotto Nerva e infine proconsoÂle d’Asia. E perciò era in grado di formulare critiche informate delle istituzioÂni e del loro funzionamento. Può darsi, come sostiene il Paratore, che il suo atteggiaÂmento verso il regime abbia subìto dei cambiamenti col tempo, sarebbe diventato ostiÂle verso la fine della sua vita, dopo essere stato più favoreÂvole o meno sfavorevole in principio. E non è sembrato mai molto chiaro come mai egli abbia salvato la pelle sotÂto Domiziano. Il meno che si possa supporre è che egli e il suo amico Plinio se ne sieno stati zitti e se ne sieno andati in villeggiatura. Ma sono codesti particolari biografici che possono ferire il carattere e non toccano l’opera dello stoÂrico.
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I suoi giudizi negativi sul regime concernono tre punti: il potere assoluto conferito all’Imperatore, l’esautorazione contestuale del Senato, l’incertezza nella successione al trono. E chi potrebbe negare che Tacito metteva il dito proprio sulle piaghe che afflissero per secoli l’Impero. L’assolutismo del principato aveva provato tutti i suoi temibili rischi, quando erano saliti al trono mostri come Caligola, Nerone e Domiziano. Il regime metteÂva l’Impero in balìa di veri e propri pazzi criminali. Traiano aveva cercato di restituire al Senato le sue antiche prerogative, e di accettare quindi una limitazione dei propri poteri, ma anche se vi fu un reale tentativo in tale direzioÂne e non si trattò di un semÂplice cerimoniale di cortesia, è certo che il tentativo non dette frutti, perché oramai il difetto stava più nella cortigianeria dei senatori che nella usurpazione del principe. Ai tempi di Traiano il Senato offriva ancora la possibilità di estrarre dal suo seno il perÂsonale adatto all’amministrazione dell’Impero, ma non aveva più la fierezza di sentirsi e di imporsi come un organo partecipe della sovranità . TaÂcito non nasconde il disprezzo per i suoi colleghi. Il despotismo aveva già fiaccato la loro tempra. Troppe volte la famosa legge di lesa maeÂstà , che permetteva al monarÂca di far condannare come saÂcrilego chiunque gli mancava di rispetto, si era abbattuta sui senatori. Troppe volte il dissenso politico era bastato per mandare a morte gli avversari. Oramai, anche nei confronti di un monarca geÂneroso, i senatori pensavano più ad acquistarsene il favore per la propria carriera che a condividerne da uomini liberi il potere.
Tacito nelle Historiae ha raccontato i fatti del 69, quanÂdo, scomparso Nerone, il trono fu conteso tra Galba, Ottone e Vitellio, per finire poi nelle mani di Vespasiano, quarto beato dopo tre litiganti. Galba aveva avuto la ratifica del Senato, Ottone aveva avuto dalla sua i pretoriani, Vitellio aveva marciato su Roma con le legioni d’Occidente e Vespasiano con le legioni d’Oriente. Mai in maniera tanto clamorosa s’era vista la debolezza di un sistema, che era privo di un principio di legittimità e che affidava la successione del sovrano all’assassinio, alla corruzione ed alla forza mercenaria delle legioni.
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Tacito non ritenne poi che tali malanni fossero transitori ed episodici. Era convinto che la vecchia classe dirigente era scomparsa, senza possibilità di rinascita. E nessun rimedio era a portata di mano per regolare la successione. Gli avvenimenÂti del 69 non erano stati una eccezione e non poteva escluÂdersene la ripetizione. Si potevano prevedere altre sventuÂre e bisognava preparare gli animi ad affrontarle con rasÂsegnazione. La sua avversione per Adriano può essere spieÂgata con i sospetti cui aveva dato luogo la di lui ascensione al trono. Traiano era morto in Cilicia, mentre era impeÂgnato a reprimere una rivolta. Adriano aveva fatto credere di essere stato adottato da Traiano agonizzante, ma si hanno fondati motivi per duÂbitare dell’esistenza o della vaÂlidità di tale adozione. Per di più Adriano si era precipitato subito a Roma per ottenere dal Senato la ratifica dell’adoÂzione, cosa che il Senato s’era affrettato a concedere. E ciononostante Adriano, per ulteÂriore cautela, aveva fatto arÂrestare e giustiziare per un presunto complotto Avidius Nigrinus e tre altri personagÂgi che erano stati generali di Traiano. Così agli inizi del suo principato Adriano aveva fatÂto riapparire il terrorismo, coÂme era apparso alla fine del principato di Domiziano. E Tacito poteva a ragione scrivere: « Gli antichi hanno proÂvato gli eccessi della libertà e noi, quando lo spionaggio ci impediva di parlare e di ascoltare, abbiamo provato gli eccessi della servitù ».
Nondimeno Tacito non poÂtrebbe essere allineato fra i laudatores temporis acti, fra i critici moralisti, declamatoÂri, che, disgustati del presente, si rifugiano nel rimpianto lacrimoso del passato. Tacito ebbe autentico acume storico. Questa realtà a lui così ingraÂta era la sola che potesse adempiere il compito che il destino aveva assegnato alÂl’Impero. Quando Roma aveÂva allargato il suo perimetro ed era stata spinta più dalle circostanze che dalla sua volontà a estendere la sua autoÂrità in tutti i lati dell’orizzonÂte ed a costituirsi come il cenÂtro direttivo di tutto il mondo mediterraneo, la vecchia clasÂse italica e le vecchie istituÂzioni non potevano non adeguarsi ai nuovi tempi. Roma doveva governare non più diÂrettamente col suo Senato ma coi suoi uomini, che in veste di procuratori, legati, proconÂsoli, dovevano amministrare le province e doveva conferire a costoro pieni poteri civili e militari, essendo il più delle volte impegnati in operazioni militari oltre che in funzioni civili. E non si poteva evitare che le ambizioni di questi citÂtadini non crescessero paralÂlelamente alle forze armate di cui disponevano e che infine tali ambizioni rivali non deÂgenerassero nella guerra civile permanente. Fu necessario cirÂca un secolo di lotte sanguiÂnose, (Mario e Silla, Cesare e Pompeo e Antonio) per conÂvincersi che il monarcato era la sola soluzione possibile sia per spegnere la guerra civile, sia per dare allo Stato un’autoÂrità sufficiente al governo del mondo. Nessuno più di TaciÂto ebbe la comprensione della provvidenzialità dell’Impero, nonostante le sue tare, da Tacito stesso giudicate irreversiÂbili. « La coesione dell’ImpeÂro – egli fa dire a Maternus – esige il potere assoluto: se i grandi fossero liberi, si dilaÂnierebbero a vicenda. Bisogna far regnare Vespasiano per evitare la rissa dei proconsoli e delle loro fazioni». Tacito precorreva Mommsen.
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