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TEATRO: I MAESTRI: Henry Becque. Piaceva a Léautaud12 Aprile 2013
di Giorgio Zampa HENRY BECQUE « Era uno degli ultimi anni della sua vita. Un pomeriggio d’estate pasÂsavo per il quar Malaquais, un omniÂbus sbocca da rue Saints-Pères per inÂfilare il ponte. Sulla piattaforma, dalla parte in cui mi trovavo, Henry BecÂque stava in piedi, una mano sulla rinÂghiera, e guardava il paesaggio. Lo riÂvedo come fosse ieri: robusto, il viso appena acceso, baffi a spazzola, occhi vivissimi, un piccolo faux col, cilindro con falde piatte, in bocca l’eterno sigaro. Se è vero che ogni razza ha un suo volto e che una fisionomia franceÂse possiede qualcosa che appartiene solo ad essa, il viso di Becque era per eccellenza un viso francese. Immagino che Beaumarchais, a lui tanto affine, avesse la stessa aria disinvolta, franÂca, coraggiosa, da resistente: quegli ocÂchi penetranti, vividi, spirituali, quelÂla bocca sarcastica, da cui le parole sembravano sempre pronte a uscire. Ogni volta che leggo il nome di BecÂque, lo rivedo come l’ho descritto, e tutto quello che so di lui, dell’uomo e dello scrittore, della sua morte miseraÂbile, mi torna alla mente. Quello era un autore drammatico; tra me e me, quante volte non l’ho contrapposto a tutti i nostri pasticceri letterari, non fosse altro per il metodo di lavoro. CoÂme dubitare della bontĂ di tale metoÂdo, una volta considerate le opere che ha prodotto, così forti, semplici, soÂbrie, vere. » Quando Paul LĂ©autaud scriveva queste righe, nel 1914, Becque era morto da quindici anni. I critici non la pensavano allo stesso modo; ancora oggi in Francia e altrove, in storie moÂnumentali del teatro o della letteratuÂra, come in manuali per concorsi, i professori sono lontani dall’assegnare all’autore dei Corvi il posto che gli compete. Qualcuno può anche afferÂmare che il teatro moderno comincia con la prima dei Corbeaux, il 14 setÂtembre del 1882: ma quando si prova a motivare, fa cascare le braccia. Biascicature sul verismo, sul naturalismo, sulla reazione alla triade del Secondo Impero (Augier, Dumas, Sardou); rifeÂrimenti alla sua posizione di isolato, in una societĂ che cercava, nei suoi antri rossi e oro, celebratori e adulatoÂri; richiami sfocati all’influenza eserciÂtata. La maggior parte, rilevò Croce, « continua a parlare dell’opera di BecÂque a denti stretti, riconoscendole la grafica esattezza delle rappresentaÂzioni (la pièce bien faite), ma neganÂdole fantasia e battendo sull’odio che la ispira, sul pessimismo che tutta la domina ». Persino un uomo dell’istinto e dell’intelletto di Alfred Kerr, nell’aÂnalisi dei Corvi fatta nel 1903, commiÂse errori che solo per indulgenza posÂsono dirsi costernanti. « Je passe pour un homme brutal, amer, affreux », scrisse Becque di sĂ©: quello che nel giro chiamano l’antipaÂtico. Come disse un celebre poeta, una volta, a persona che pure stimava e considerava amica: « Cosa vuoi, riesci antipatico a tutti ». Voleva fargli capiÂre la inopportunitĂ di aspirare a un certo ufficio, dimenticando prove inÂdubbiamente curiose, che l’inviso proÂprio a lui (e solo a lui) aveva dato delÂle sue capacitĂ . Di colpo, riuscì a vaniÂficare dodici anni di attesa, funestati da frustrazioni e umiliazioni: che altro poteva ottenere un antipatico di quelÂla specie. I Souvenirs di Becque bruliÂcano, come si dice, di simili episodi. Singolare è il fatto che il Paese in cui l’autore della Navette ebbe miglioÂri accoglienze di pubblico e di critica fu l’Italia. I Corvi vennero rappresenÂtati al Manzoni di Milano nel dicemÂbre del 1891, Da Capuana, che scrisse su Becque nel 1890, ai critici che seguirono via via prime e riprese, fino al bel saggio del compianto Antonio Giuriolo, comÂposto nel 1940-41 e a quello pubblicato da Croce, sui « Quaderni di Critica », nel 1949, probabilmente destinato a riÂmanere insuperato, Becque ha avuto da noi un’attenzione e un rispetto non inferiori, forse, a quelli del Paese d’oÂrigine; valgono, a conferma, i due voÂlumi di recente apparsi presso l’editoÂre Bulzoni di Roma, a cura di Adriano Magli, che comprendono un’ampia scelta del teatro, degli scritti autobioÂgrafici, delle cronache, delle polemiÂche, dei saggi. In una lunga introduzioÂne, il curatore pone le premesse per l’inquadramento di un’opera che nella sua trasparenza e apparente sempliÂcitĂ può arrivare ai limiti dell’indeciÂfrabile; utilissime le note ai singoli laÂvori e prezioso il florilegio delle prose, oggi irreperibili in originale. (Unica lacuna, ma sensibile, il saggio, fonda- mentale in ogni senso, su Amleto). Non per nulla Croce, richiamandosi soprattutto a questo Amleto, affianca ai nomi di Baudelaire e di Flaubert quello di Becque; tre artisti con un’inÂtelligenza della natura dell’arte che li innalzò alla dignitĂ della « migliore filosofia ». Come nessuno, Croce ha saputo inÂdicare che cosa c’è dietro la durezza, l’impassibilitĂ , il cinismo di un autore che si definiva « uno spettatore, un pittore, un raffiguratore che deve preoccuparsi soltanto di far trascorreÂre uno specchio sopra l’Umanità »; ha colto dietro la trama di frasi quotidiaÂne, banali, sciocche, spietate, volgari, tutte egualmente logore, incapaci di contenere e restituire la complessitĂ della vita, il brulichìo vano, disperato degli istinti e dei sentimenti che non arrivano a individuarsi, e si confondoÂno gli uni negli altri, contaminando la pietĂ con l’abiezione, il bisogno di daÂre o ricevere affetto con l’aviditĂ maÂteriale, la purezza con la menzogna dei sensi. Che importanza ha, se queÂsto è il campo di osservazione dello scrittore, la così detta azione? Becque amava le commedie ben fatte, che doÂvevano possedere, oltre quello dell’aÂzione, i requisiti dei caratteri e dello stile. Si considerava, ed era, un uomo di teatro nel senso pieno dell’espresÂsione : « Sono stato un inventore, mio caro… ho parlato la lingua degli anteÂnati », scriveva al critico Sarcey, imÂplicitamente richiamando Molière.
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