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TEATRO: I MAESTRI: Le faccende italiane del teatro25 Agosto 2013
di Elio Pagliarani Allora, registrato e scontato il liberal trionfo di mercato delle farse dialettali milanesi, che sembrano aderire perfettamente alle esigenze di quella borghesia (nĂ© il cartellone del Piccolo apÂpare in grado di offrire concrete alternative), è pacifico anche l’eclettismo qualunquista dello StaÂbile di Roma, il quale del resto ha il merito di essere fantomatico, di esistere cioè piĂą che altro per quel tanto che serve alla sopravvivenza della propria burocrazia, l’Ente per i Soccorsi ai TerÂremotati di Casamicciola essendo esempio romaÂno tra i meno aberranti. Fin qui tutto bene, un po’ meno constatare che Luca Ronconi ha una gran fretta di bruciarsi l’apertura di credito acquistata coi Lunatici: e certo il Candelaio come l’ha dato lui mi sembra una grossa occasione sciupata, sbagliato dalla prima all’ultima scena. Che occasione! A cominciare dalla Dedica ai letterati: « Voi che tettate di muse da mamma, / E che natate su lor grassa broda. / converrĂ forse a me gramo / Monstrar scuoperto alla SiÂgnora mia / Il zero e menchia, com’il padre Adamo… »; dall’Antiprologo: « Messer sì, ben conÂsiderato, bene appuntato, bene ordinato. Forse che non ho profetato che questa comedia non si sarrebbe fatta questa sera? Quella bagassa che è ordinata per rappresentar Vittorio e Carubina, ave non so che mal di madre. Colui che ha da rapresentar Bonifacio, è imbriaco che non vede ciel nĂ© terra da mezzodì in qua… L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il piĂą, lo vedrete fastidito, restio e bizzarro… Tanto che io, con servir simile canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me bisognasse vomire, non potrei vomir alÂtro ch’il spirto: si me fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che l’anima, com’un appiccato. In conclusione, io voglio andar a farmi frate: e chi vuol far il prologo, sel faccia »; dal Propologo: «L’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nuÂme, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, traÂmontana stella, ed un bel sol ch’a l’alma mai tramonta: ed a l’incontro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera, versaglio sol di tutti miei pensieri, e bei son gli amor miei non quei d’altrui. Vedrete in una di queste femine sguardi celesti, suspiri infocati, acquosi pensaÂmenti, terrestri desiri e aerei fottimenti: co riÂverenza de le caste orecchie — è una che sei prende con pezza bianca e netta di bucata… »; dal Bidello: « Prima ch’i’ parie, bisogna ch’i’ m’iscuse. Io credo che, si non tutti, la maggior parte al meno mi dirranno: Cancaro vi mangio il naso! dove mai vedeste comedia uscir col biÂdello? Ed io vi rispondo: Il mal’an che Dio vi dia! prima che fussero comedie, dove mai furoÂno viste comedie? e dove mai fuste visti, prima che voi fuste? » Va bene, ho esagerato in citazioni; e mi è giĂ capitato di osservare, a proposito dei significati della commedia di Giordano Bruno, come ne traÂpeli profondo totale disprezzo e fastidio della soÂcietĂ a lui contemporanea: come egli fosse pieÂnamente consapevole che il linguaggio può essere, e storicamente lo fu ed è, manipolato e usato coÂme strumento di sopraffazione — Bruno appoÂsta esagita il plurilinguismo piĂą scatenato e c’è il proprietario fondiario portatore del linguaggio petrarchesco, e ci sono gli esemplari delle cosche specialistiche, i portatori del linguaggio « scienÂtifico»; e c’è speranza come voglia di beffa, diÂsperata speranza come beffa, che il popolaccio, i lazzaroni tronchino la spirale della sopraffaÂzione o almeno la usino una volta a loro vantagÂgio; e c’è brama, ambizione viscerale, di possesÂso, di donna, di oro, di potere: soprattutto c’c brama di pazzia, pazzia come conquista sociale: ultima citazione, e dal finale: perchĂ© madonna Angela, « pastora di tutte le belle figlie di NaÂpoli », consigliò a Carubina di sposar messer Bonifacio? « Non importa che sii candelaio, non ti curar che dii tre morsi ad un faggiuolo, non ti fa nulla che non piace troppo, non ti curar che sii troppo attempato, Prendilo prendilo, perchĂ© è pazzo ». Che mi pare discorso sensato, alÂmeno Carubina non morirĂ di noia. E pazzia come conquista sociale significa programmato eppur sanguigno e inesausto anticonformismo: e inÂsomma rompere le scatole ai potenti, sino alla fine costi quel che costi, che fu programma dal Bruno fin troppo realizzato. Nello spettacolo di Ronconi ci sono stracci e vento, e un qualche espressionismo caotico abbaÂstanza grandioso e buffonesco e talvolta grotteÂsco, il che può anche addirsi al Bruno, bisogna riconoscerlo, ma non c’è proprio altro, non un’unÂghia di rabbia o brama di pazzia. Certo, c’è Mario Scaccia, bravissimo a fare e a strafare e a divertirsi a dimostrare che quando lui deve mettersi all’ombra tutto lo spettacolo cala, divenÂta piuttosto meschinello. Ad ogni modo gli restaÂno per quest’anno a Ronconi ancora una mezza dozzina di regie e si potrĂ valutare senza ulteÂriore sospensione di giudizio quanto arrosto c’è dietro il suo fumismo, e la sua schietta ambizione. PerchĂ© a livello « ufficiale » non è che ci sia molto di meglio: un mesto, ben fatto, intimistico e del tutto inutile (nel senso che lascia il tempo che trova, e non trova beltempo) Goldoni: Una delle ultime sere di Carnovale, impeccabile regia di Luigi Squarzina, coi soli peccati teatrali del secondo inserto di autobiografia goldoniana e del Giancarlo Zanetti inadatto alla parte, che è del protagonista. E una scena bellissima, da antoloÂgia: quella del gioco della Meneghella; ma, apÂpunto, da antologia. E un pizzico di autobiograÂfismo squarziniano. In una situazione meno ufficiale e sicuramente piĂą avventurosa, assolutamente notevole, invece, il Tito Andronico diretto da Aldo Trionfo, ovviaÂmente sperperato in stagione estiva (il che vuol dire, bravo chi l’ha fatto, bravo chi l’ha fatto fare, ma poi non si è trovato un solo Stabile che gli abbia offerto riparo invernale, nonostante l’invenzione della coproduzione stabil-teatrale). Qui il regista dispiega una tale quantitĂ d’invenÂzione, che riesce non soltanto a farsi perdonare la maggior parte dei suoi compiacimenti e vizi estetistici, ma buona parte di quelli a renderli necessari, com’è dei piĂą robusto manierismo baÂrocco. E poi c’è Glauco Mauri che è così poco affabile e accattivante, lievemente fastidioso, siÂcuramente grigio, e con questi mezzi si impone, vien fuori alla distanza come un orso di buon senso ormai scocciato, fino al festino antropofago. E dei ragazzi scatenati, bravissimi, come MarÂzio Margine e almeno altri due, di cui ora non ricordo il nome. E Franca Nuti, bella e alta, quando fa la fattucchiera ha una torre in testa e fascia a tracolla. E Goti capelloni e Aaron del Black Power: piĂą di un beneassennato rimase basito, senza fiato. E insomma, se limitiamo per questa volta lo sguardo alle faccende italiane c’è ora ben poco d’altro, Carmelo Bene scherzando troppo con Don Chisciotte, il gruppo ’63 segnando qui marcatamenÂte il passo, dopo alcuni felici esperimenti giĂ di tre o quattro anni fa di teatro da camera, e l’infeliÂce sortita di Arbasino regista. Ma c’è da segnalare un fatto che mi pare per adesso del tutto positivo, e abbastanza inconsueÂto nell’intera storia del nostro teatro, voglio diÂre l’inquietudine degli attori, soprattutto dei piĂą giovani attori, che si manifesta in molti modi: era presente nel nervosismo della prima veneÂziana di Una delle ultime sere di Carnovale, nelÂla risposta attiva della compagnia alla censuÂra veronese per il Tito Andronico e il « viva Braibanti » di Aaron-Graziosi, persino nell’autentico entusiasmo di alcuni degli attori, Adriana InnoÂcenti in testa, del men che modesto spettacolo di Enriquez sul movimento studentesco. Per non diÂre dei convegni, come quello di Cesenatico (dove non c’ero, coincidendo esso con prime veneziane) e, piĂą, dei nuovi gruppi di cooperative di attori che sorgono e stanno sorgendo. Ora non importa che ci sia anche tanta confusione, o che qualÂcuno possa porsi nella sua ingenuitĂ la contestazione-al-Lido-di-Venezia come modello, l’elemento positivo è dato dalla responsabilitĂ personale, inÂdividuale, di cui gli attori si sentono carichi. Non c’è piĂą solo il problema della « parte », come fu per troppo tempo: e questo altro, che ora sentono agire con preminenza, non potrĂ alla lunga non funzionare anche nell’interesse della « parte ». VeÂro è che, per non parlare di piĂą concreti e urÂgenti rimandi, e limitare il discorso all’interno, avendo gli attori acquisito sulla scena piĂą spazio, rispetto alle parole, la loro persona essendo fisiÂcamente piĂą libera e attiva, anche proprio come elemento spettacolare, essi si sentono piĂą persoÂnalmente impegnati, sanno di avere piĂą peso e di essere perciò chiamati a un’altra, piĂą specifica responsabilitĂ . Donde l’inquietudine, donde autenÂtici fermenti di avanguardia a teatro. Letto 2062 volte.

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