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TEATRO: I MAESTRI: Plauto e Pirandello. La carne e l’oro3 Marzo 2015
di Giorgio Zampa Chi sa perchĂ© proprio Asinaria, non è la commedia piĂą riuscita di Plauto, tra quante ne conosciamo, al punto che, da parte di autoritĂ sicure, le è stata contestata la paternitĂ del poeta umbro. Ma anche considerando tale questione accessoria: perchĂ© Plauto, oggi, e soprattutto come? Esiste un filo, che ci collega con gli aristocrati e la plebe romana del III secolo ante, con gli aficionados della palliata, conÂtenti della comicitĂ esteriore, dell’inÂtrigo grossolano, del conflitto mai seÂdato tra imbroglioni e imbrogliati? Che la risposta sia negativa, è ovvio; a meno che, come rilevò Pier Paolo PaÂsolini in una breve premessa alla sua traduzione del Miles Gloriosus, non si voglia vedere una linea di continuitĂ con il tipo piĂą popolare di avanspettacolo, ormai in via di estinzione. Il riferimento va considerato; forse non è arbitrario individuare in alcuni schemi fissi della scenetta centrale, impostati, in genere, su un intrigo tra servo e padrone a danno di un altro padrone, su scambi e somiglianze di persona, su giochi di parole, soprattutÂto su un fondo erotico dai caratteri immutabili, il residuo corrotto, e tuttaÂvia riconoscibile, di elementi giĂ arcaiÂci al tempo di Plauto, da lui assunti e adattati a esemplari greci apprezzati da una minoranza colta, incomprensiÂbili al popolano. Truppa, mano d’opera, lavoratori domestici, quando non abbiano subito irrimediabilmente l’involuzione radio- televisiva e mantengano un rapporto con il fondo etnico, almeno con alcuni suoi nuclei, partecipano in pieno, sul piano emotivo e su quello intellettuaÂle, alla rivista da tre soldi. I meccaniÂsmi scattano al punto giusto, gli effetti voluti sono immancabili, il successo è tanto piĂą sicuro, quanto piĂą il clichĂ© è conosciuto, la ripetizione rassicurante. Tuttavia, anche se comicitĂ rusticana, battute e lazzi da taverna, giochi di parole tra schiavi bricconi, grossolaÂnitĂ di appetiti, costituiscono elementi di fondo dell’arte plautina: essa è, per natura, aristocratica, il suo linguaggio è originale, sorvegliatissimo, consapeÂvolezza, volontĂ costruttiva sono semÂpre presenti. Conversioni in chiave « Carcano » o « Puccini » significherebÂbero riduzioni arbitrarie, un impoveriÂmento ingiustificato almeno quanto alÂtre interpretazioni moderne di grado superiore, con tagli, giunte, sostituzioÂni, cambiamenti di nomi (come si fece in Germania nel Settecento); con queÂsto, si capisce, non voglio dire che si debba cascare nell’edizione per scolaÂresche. La pace di Besson è un modelÂlo per la varietĂ di soluzioni che offre in chiave di stile, per la coerenza con cui è sviluppata l’esigenza realistica, per la cura di rendere il testo accettaÂbile a noi contemporanei non evitando ma affrontando in pieno, approfondenÂdo la sua analisi filologica. Alle « Arti », un teatro simpatico, dopotutto, che sembra straordinariaÂmente frequentato solo perchĂ© ha l’inÂgresso in comune con il Piper, mentre non è nella manica dei milanesi; il piĂą delle volte semideserto, forse perchĂ© il suo programma punta troppo sul culÂturale: Marco Mariani presenta la Commedia degli Asini, con Nino Besozzi nei panni del lascivo Demeneto, Aldo Pierantoni come Mercator, GiuÂlio Platone nella pelle dello schiavo Libano, Isabella Riva nelle rughe di Artemone; secondo la tradizione plauÂtina, il dominus gregis Mariani, nella parte dello schiavo Leonida, recita anÂche prologo ed epilogo. Il copione seÂgue da vicino il testo originale; le diÂgressioni sono modeste, qualche gag tra i due servi, tipo Shakespeare-in-collegio, l’esibizione, intorno a una statica, monumentale Filenia, di bruÂnette con l’ansia della marchetta, il mercante clamidato che fa la checca per rendere piĂą accettabile il raggiro da parte dei servi furbastri, disposti a esibirsi quanto occorre per alluzzare il vecchio. Il tono della recitazione, invece di essere ridanciano, allegrotto, bonario, come sarebbe convenuto ai costumi da figurine Liebig, a scene della stessa impronta, è acceso, irritato, i due serÂvi fanno i cattivi come Franchi e Ingrassia, Clerete, la ruffiana mammĂ di Filenia, è aspra come un ex con la boutique che va male, tutti sono di umore nero, meno, forse, il povero DeÂmeneto, perso dietro la sua bambolona. Il rapporto sesso-denaro, determiÂnante in ogni societĂ che disponga apÂpena di un ordinamento (cui trasgreÂdire), di una morale (da offendere), di un’economia (da vitalizzare attraverso circuiti particolari), è oggetto di variaÂzioni innumerevoli nel teatro di ogni tempo. Nell’Asinaria è centrale; arricÂchito dalla relazione padre-figlio che fonde fame d’oro e di carne e determiÂna una sorta di incesto accettato, da parte del figlio, con una consapevolezÂza che qualche gemito non rende meÂno abbietta. Forse sarebbero state queste linee da fare emergere, inveÂce di insistere sull’intrigo elementare o su particolari accessori; ma i classici non vogliono consigli. Il motivo di fondo della commedia plautina, piuttosto, ritorna, in una vaÂriante piĂą ricca, sottile, modulata, in quella che Pirandello intitolò commeÂdia rustica. Fino dalla prima rappresentazione di LiolĂ (1916), la critica fu d’accordo nel giudicare il lavoro uno dei piĂą riusciti dell’autore siciliaÂno (Gramsci, sull’Avanti! del 4 aprile ’17, gli dedicò un articolo insolitamenÂte cordiale); e mise l’accento sulla feliÂce spontaneitĂ con cui tradizioni arcaiÂche, residui di costumi remoti affioraÂvano in una societĂ contemporanea per dare vita, spessore, verisimiglianza a una figura che avrebbe potuto riÂschiare l’astrazione. Anche in LiolĂ il tema della « roba » e del sesso è centrale. Ma Simone Palumbo non è un vegliardo avido di brancicamenti, con moglie quattrinaia che lo strapazza. E’ un massaro facolÂtoso, risposato a una ragazza remissiÂva, orfana, senza un soldo, e vuole una cosa sola: un figlio maschio, per avere il senso della continuitĂ mateÂriale, della sopravvivenza delle cose sue. E’ avaro, tenace, malinconico, diÂspotico; il suo rapporto con il sesso avÂviene e forse è sempre avvenuto attraÂverso il denaro. Le donne, giovani e attempate, che gli stanno intorno, lo teÂmono e irridono piĂą che non compasÂsionino: l’uomo che non sa fare figli desta nel popolo una ilaritĂ maligna tanto piĂą vivace, quanto piĂą quello è ricco. Pur di mutare questa situazione, il Palumbo sarebbe un giorno disposto a ripudiare la giovane moglie e a legarsi con una nipote, sapendo che questa è stata messa incinta di straforo (ma non tanto) da un altro. L’interesse per una sistemazione conveniente, anche se non proprio onorabile, induce Tuzza, e soprattutto zia Croce, sua madre, ad accettare l’imbroglio; ma questo meccanismo ne mette in movimento uno parallelo. Il carattere piĂą ammireÂvole del lavoro credo sia nel contrasto, che è poi complementaritĂ , tra l’avarizia, l’esositĂ , la sterile disperazione (l’ortodossia verso il sistema) di don Simone e la fertilitĂ , la vitalitĂ , la faÂcoltĂ inventiva, l’anarchia di Nico Schillaci, LiolĂ : una delle piĂą felici, riuscite figure di « contestatore » che il teatro moderno ci ha dato. LiolĂ , che ha reso madre Tuzza, cerca di riÂparare, con un’offerta di matrimonio; ma è respinto, perchĂ© non tiene roba, e intralcia per di piĂą l’operazione di irretimento nei confronti del vecchio. Quando sa del ripudio di donna Mita, la rivalsa è fulminea: renderĂ alla spoÂsa il servizio prestato a Tuzza, ristabiÂlendo un giusto equilibrio. Zio SimoÂne, felice di avere una discendenza leÂgale, riconferma Mita nella dignitĂ di moglie, mentre le due intriganti pagaÂno, con l’isolamento e lo scherno del vicinato, il prezzo della loro aviditĂ . Questa l’azione centrale, che è stata e continua a essere avvicinata a quelle della novella classica italiana, di tipo erotico-farsesco; ma il richiamo non mi sembra pertinente. In un racconto di Boccaccio o di Bandello è parte esÂsenziale una societĂ evoluta, che rifletÂte esperienze derivate dalla cronaca in una commedia per definizione chiusa, bloccata. Le premesse di LiolĂ , invece, sembrano opposte: una comunitĂ sotÂtosviluppata, nella quale sono vivi moÂtivi arcaici, costruisce una commedia nel tempo stesso in cui la vive, laÂsciandola aperta a ogni tipo di soluzioÂne, in un gioco mobilissimo di umori e passioni, sotto la costellazione della roba e del sesso. (Dire che progenitriÂce di LiolĂ sia una deitĂ fallica medi- terranea, anteriore ai fauni, ai satiri: una forza vagamente antropomorfa che s’individua solo a tratti, indiffeÂrenziata, può anche essere giusto, ma mi sembra pericoloso per la sostanziaÂle indeterminatezza: Liolà è personagÂgio pieno, concreto, non chiede anamÂnesi). L’impiego del dialetto agrigentiÂno (la commedia fu scritta in dialetto; apparve per la prima volta nel ’17, con « traduzione » italiana a fronte) non solo non la condiziona in senso paesaÂno, ma le conferisce una libertĂ inÂcomparabilmente maggiore della redaÂzione in lingua, che sembra una repliÂca inanimata. Dalla prima rappresentazione di AnÂgelo Musco a quella dei De Filippo, poi della Tofano-De Sica-Rissone, per citare solo alcune delle edizioni piĂą note, il tempo non è passato invano. Turi Ferro, per il Teatro Stabile di Catania, presenta all’Odeon, come reÂgista e protagonista, un LiolĂ per forÂtuna senza cioce, calzoni al ginocchio con fiocchi, berretto a calza. Certo, quanto ad arsenale folkloristico, non si scherza; il passo lungo e strascicato da mandrillo, i colpi d’anca improvviÂsi, i raptus melodici ci sono tutti, le ragazze fanno mossette e mossacce, la Moscardina (Maria Tolu) riesce a sembrare incredibile, tanto imita bene il  teatro dei pupi. Ma lo spettacolo, soÂprattutto per merito di Umberto Spadaro (Don Simone) e in fondo anche di Ave Ninchi (la cugina Croce), sta in piedi; si ride spesso; e il finale col mandolino non dĂ troppa noia. Letto 2240 volte.

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