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TEATRO: I MAESTRI: Ruzante. Signore o contadino?19 Marzo 2015
di Giorgio Zampa Era una sera, dell’inverno ’56-’57, all’Olimpia davano la Moscheta nelÂl’edizione presentata al Festival di Venezia in autunno con Cesco BasegÂgio,
Letterato di solida educazione
Ricordavo questo l’altra sera nel Lirico gremito, in attesa che il siÂpario di ferro si sollevasse sulla sceÂna preparata da De Bosio per i DiaÂloghi di Ruzante; in un decennio la situazione era molto cambiata. Dopo la Moscheta il regista aveva presenÂtato, con la Compagnia dello « StabiÂle » di Torino, l’Anconitana e, nel ’65, per la prima volta, i Dialoghi; l’opeÂrazione Ruzante, una delle piĂą imporÂtanti compiute dal nostro teatro nel dopoguerra, entra ora in una fase forÂse decisiva. Se le cose andranno come ci si auÂgura, Ruzante conoscerĂ la fortuna che per secoli gli fu negata. Diffuse, apprezzate, celebrate nei luoghi di origine fino al tardo Cinquecento, le sue commedie conobbero un’eclisse da cui cominciarono a farle uscire, per singolare che sia, i francesi tra la fine dello scorso e i primi decenni del noÂstro secolo. Le premesse per un ricoÂnoscimento nazionale oggi non manÂcherebbero; va però ricordato che il destino di un’opera teatrale non è quello di un’opera letteraria. Esso non si alimenta solo del favore di una cerchia di intellettuali, ha bisogno di un pubblico eterogeneo, che le conÂsenta di dilatarsi, di maturare, sarei quasi per dire di corrompersi. Se in questi anni sono stati accolti con favoÂre testi letterari regionali, rivelatori di situazioni sociali particolari, di moÂdi nuovi di considerare tali situazioÂni, il teatro ha beneficiato di questa apertura solo di riflesso. L’elemento dialettale, al contrario di quanto si potrebbe pensare a tutta prima, reÂca sulla scena caratteri non popolari ma aristocratici, quasi sempre alÂlontana piĂą che non inviti: nonostanÂte radio, televisione, caserma, svilupÂpo industriale, le divisioni regionali persistono fortissime. Una rappresentazione in pavano del ’500 va incontro a difficoltĂ costituite in buona parte da pregiudizi, perchĂ© non è vero che offra ostacoli insorÂmontabili; ma di tali difficoltĂ bisoÂgna prendere atto, senza illudersi che possano essere eliminate da una camÂpagna condotta in sede culturale, da un’operazione di professori. E’ questo, soprattutto, il pericolo insito nel faÂvore che sta incontrando Ruzante: non si vorrebbe sapere scambiato l’inÂteresse di specialisti, peraltro altaÂmente benemeriti, con il favore delÂla platea, fondato su una intelligenza elementare, istintiva, causa e conseÂguenza del successo. Goldoni è quello che è anche perchĂ© oggetto di interpreÂtazioni infami, di equivoci paurosi, di arbìtri di ogni genere. E’ questa speÂcie di degenerazione, in definitiva, a costituire la humus che alimenta la fama dell’autore del Ventaglio. Così considerata, l’attuale messa in scena dei Dialoghi mi sembra segni un liÂmite estremo di tensione: ancora un istante, e lo scrupolo filologico finiÂrebbe per agire negativamente, per raffreddare, per dare l’impressione che il fatto teatrale, rispetto a quello letterario, sia accessorio. Dall’immagine di un popolano che scrive farse e sproloqui in dialetto, perchĂ© incapace di esprimersi in linÂgua, al ritratto, tratteggiato dal Mortier in avanti, di un letterato di soliÂda educazione, vissuto in un ambiente raffinato come quello di Alvise CorÂnare, in una Padova che sulla sua grande tradizione umanistica innestaÂva fermenti nuovi e vari, tra UrbiÂno, Ferrara, Venezia, la Germania proÂtestante: il passo compiuto dagli stuÂdi recenti sul Ruzante, dal Lovarini al Zorzo è decisivo, il progresso irreÂversibile. Allo stato attuale della coÂnoscenza dei testi (di molte opere non s’è trovato fino a oggi traccia), si è ormai d’accordo sullo sviluppo dell’opera, dalla Pastoral alla VaccĂ ria, collocando al centro di essa, prodotti in cui l’abilitĂ acquisita dall’attore Beolco si equilibra con una maturitĂ umana, una consapevolezza del moÂmento storico mirabili, Il Parlamento e il Bilora (un terzo dialogo, il Me nego, non arriva alla compattezza e alla tensione degli altri). Come cornice e commento dei due atti, De Bosio ha posto la Prima e la Seconda Orazione, composizioni letÂte a distanza di sette anni una dall’alÂtra nella villa del Barco, nell’asolano, davanti ai cardinali Marco e FranceÂsco Cornaro, nipoti di Alvise. Non c’è dubbio che le orazioni, specie la priÂma, introducono in maniera perfetta nell’ambiente in cui Angelo Beolco viÂveva e operava, in veste di uomo di fiducia di casa Cornaro, addetto all’amÂministrazione della campagna, e di attore, autore e organizzatore di spetÂtacoli. Esse consentono di scorgere l’ambiguitĂ dell’atteggiamento di RuÂzante nei confronti del contado, la sua partecipazione e il suo distacco, espresÂso soprattutto dall’uso del dialetto; ma non direi che sul piano della reÂgìa la realizzazione sia all’altezza delÂle intenzioni. La scena del Lirico, vaÂstissima, si presta poco per spettacoli da camera, soprattutto per la reciÂtazione di lunghi monologhi. A parte le composizioni « contaminate » di Sergio Liberovici, che innestando muÂsica beat a motivi del ’500 mi lasciaÂno perplesso, e le coreografie troppo incerte di Marta Egri, l’insieme riÂchiederebbe una profilatura piĂą accuÂrata, nervosa, sicura, perchĂ© non si pensi a un bal parĂ© modesto, organizÂzato per colorare discorsi di circoÂstanza. Sono rilievi che si impongoÂno, considerata la qualitĂ degli atti al centro della rappresentazione, il loÂro vigore che rende superfluo ogni elemento decorativo.
Soldato coperto di stracci
Glauco Mauri, nella parte di RuÂzante (nel Parlamento) e di Bilora, offre interpretazioni fuori dell’ordinaÂrio, profondamente diverse, sfumate nei particolari piĂą minuti; se a fonÂdamento dei Dialoghi sono elementi comuni, l’arrivo a Venezia, dal conÂtado pavano, di due tangheri famelici di cibo e di sesso per riprendersi le loro donne, attirate dagli agi della viÂta cittadina, lontane una dall’altra soÂno le motivazioni, diversi gli esiti. Ruzante soldato, coperto di stracci e di pidocchi, approdato nelle Vinegie per ritrovare Gnua (Didi Perego), porta con sĂ© non tanto il ricordo e l’orrore della miseria, di un’indigenÂza che sembra eterna, quanto lo spaÂvento fisico della guerra, la paura del « nemico ». e la decisione di salÂvare a ogni costo la pelle. Il suo essere vivo fa tutt’uno con un’abiezione illimitata, che ha il suo rovescio in una jattanza, in un esibizionismo alÂtrettanto sconfinati. La prontezza con cui cede senza difendersi al « bravo » che gli ha tolto la moglie, esponenÂdosi ai suoi colpi, giustifica il racÂconto fatto al compare Menato, pure presente, di essere stato aggredito da cento pèrsone, la versione dell’incanÂtesimo, del tradimento, la visione delÂla moglie e del suo ganzo legati inÂsieme, sconciati. Mauri rende in maÂniera persuasiva lo stato di coscienza crepuscolare del personaggio, i suoi trasalimenti brevissimi a un livello umano, il procedere vacillante nel buio dell’inconscio, sino alla risata deÂmenziale che segue un presunto trionÂfo. Altrettanto aderente allo spirito del testo, alla disposizione criminale, alÂla violenza degli appetiti, alla fragilitĂ o assenza di autocontrollo, è l’inÂterpretazione di Bilora, un umiliato e offeso di campagna, incapace di raÂziocinio e di giudizio, torbido, poltroÂne, ottuso, vivo soltanto nell’attrazioÂne per la sua donna. L’omicidio che commette non è dovuto a senso istintivo di giustizia, ma a un ingorÂdo di odio, a un movimento aniÂmale. Accurata la caratterizzazione che Alessandro Esposito fa del ricco Andronico, mentre Alvise Battain, il Menato di Parlamento, appoggia valiÂdamente il Mauri nelle vesti di Pitaro. Letto 2452 volte.

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