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TEATRO: LETTERATURA: I MAESTRI: Il teatro di Tozzi15 Dicembre 2018
di Raul Radice Sono occorsi cinquant’anni dal giorno della sua morte, mezzo secolo di sollecitudine e di risentiti affetti, per veder raccolta in volume l’opera teatrale di Federigo Tozzi: sedici commedie, talune soltanto abbozzate, in massima parte inedite. Il volume, terzo delle opere tozziane (Il teatro, Vallecchi, pp. 714, L. 8000) è ordinato da Glauco Tozzi, figlio dello scrittore, che di ogni commedia fornisce, insieme al testo, una descrizione e un notiziario scrupolosamente documentati; ed è preceduto da un breve ma denso saggio- premessa di Giancarlo Vigorelli, il quale di quel teatro sembra non senza logica voler suggerire un metodo di lettura che al drammaturgo non anteponga il narratore. Al contrario, considerato che fra L’eredità, con la quale si apre la raccolta, e lo schema finale delle incompiute Avventure di Capino corre l’arco di un decennio (1909-1919), Vigorelli invita il lettore a non sottrarsi alla evidenza di un parallelismo ispirativo e compositivo tra i testi narrativi del Tozzi e i suoi testi drammaturgici, « cosi che al di là di una distinzione di generi, d’ora in avanti quest’opera teatrale, positivamente o negativamente, concorrerà con un suo peso inevitabile a determinare un esame ed un giudizio più compiuto sull’uomo e sullo scrittore ». La burrascosa vicenda umana e la burrascosa formazione spirituale del senese Tozzi sono così ricomposte entro un disegno il quale ripropone con aspro rilievo il tempo in cui lo scrittore operò, e polemicamente illustra i caratteri degli uomini con i quali egli ebbe maggiore dimestichezza o dei quali lo attrassero affinità formali (vale la pena di sottolineare in proposito le punte arroventate di cui è fatto oggetto Domenico Giuliotti), ma quanto più la collocazione appare convincente tanto più si avvertono uno stridore e un malessere alla cui determinazione concorrono motivi non tutti di identica natura, talvolta antitetici. Un primo motivo di stridore riguarda la frattura tipicamente italiana fra teatro e letteratura, frattura ricorrente osservando la quale, di mezzo secolo in mezzo secolo, nulla sembra cambiato; al punto di far sembrare tuttora stupefacente il caso Pirandello, cui si può contrapporre in senso contrario il caso non meno stupefacente di Italo Svevo. Proprio al tempo della morte di Tozzi, un critico contro il quale oggi sembra esercitarsi l’arma del silenzio e che dell’opera del Tozzi fu assertore appassionato, Giuseppe Antonio Borgese (al quale la pubblicazione di Tre croci suggerì fra l’altro pagine angosciate e solenni, e che non a caso si fece poi presentatore del l’Incalco), di quella frattura si adoperò a individuare le cause in uno scritto raccolto in Tempo da edificare. * A Borgese, in sostanza, lo scrittore italiano appariva come il custode di un tempio dal quale i commediografi, per non esserne scacciati, alla lunga preferirono restare fuori. Borgese ricordava l’arroganza del Carducci nei confronti di Giuseppe Giacosa e lasciava intendere quanto avesse contribuito ad approfondire tal solco il frequente richiamo ai canoni di una tecnica considerata fine a se stessa, laddove essa è invece scoperta e ricreazione di ogni drammaturgo vero. Che cosa importava di quei canoni a un Ibsen o a uno Strindberg, a Cecov o a Shaw? Di quella condizione si trova qualche traccia anche nelle notizie raccolte da Glauco Tozzi. «Intendiamoci — scrive Antonio Beltramelli a Federigo cui ha chiesto tre atti unici — io non parlo all’artista che rispetto ed ammiro profondamente, parlo al commediografo e mi riferisco ai mezzi che deve adoperare ». Tuttavia questi ed altri accenni non bastano a pienamente individuare una frattura che può sì essere limitata al rapporto letteratura-teatro, ma che di fatto riguarda il problema altrimenti vasto della circolazione della cultura. Il narratore Giovanni Verga, e qui si esclude di proposito il drammaturgo, resta esemplare anche sotto questo aspetto. * O vogliamo piuttosto asserire che scrittori come Verga, come Tozzi e come Svevo, collocati nel proprio tempo appaiono anticipatori che della anticipazione assumono il privilegio e insieme il rischio? Non giova ripetere che solitamente la loro sorte è di arrivare o troppo presto o troppo tardi, ma è indubbio che il loro esordio mai si verifica al momento giusto. In questo senso, già lo si è visto recentemente con la riapparizione di qualche commedia di Svevo, può essere affacciato più di un dubbio sulla possibile resa « attuale » di un testo variamente giudicato quale è L’incalco, nonostante l’urto fra generazioni in esso dibattuto. E non perché quell’urto, che è fenomeno ricorrente di ogni epoca, differisca sostanzialmente dal fenomeno della contestazione odierna, ma perché la polemica sulla società degli « anni venti », scritta allora, non può essere risuscitata cinquant’anni dopo senza la inevitabile aggiunta più o meno manifesta di una nuova polemica che annullerebbe la prima. Del teatro di Tozzi, che per due terzi ha andamenti naturalistici e naturalistico non è, oggi interesserebbe forse una Interpretazione prevalentemente filologica, magari scandita secondo i modi dell’oratorio musicale. Il discorso, comunque, non finirebbe li, né riuscirebbe ad attenuare il disagio accennato all’inizio. A proposito del quale, da un lato si osserva che, bene o male, Tozzi, una certa accoglienza sui palcoscenici del suo tempo la trovò (ne fanno fede le notizie riguardanti la compagnia fiorentina dei Niccoli, Alda Borelli, Calisto Bertramo, Maria Letizia Celli) anche se di essa nelle cronache di allora sono rimaste soltanto labili tracce; e dall’altro resta ancora da stabilire l’effettivo grado di intensità di una vocazione teatrale che procedette, è vero, di pari passo con la vocazione letteraria, ma che della seconda non ebbe né la perentorietà né la risolutezza. « Il vero lavoro da fare è di incorporare ormai il teatro di Tozzi ai romanzi, alle novelle, constatando che ne ribadisce spesso i temi ma quasi mai li anticipa, riconfermando così la primogenitura della sua vocazione narrativa » dice ancora Vigorelli. E non sarebbe nemmeno giusto sottacere la differenza esistente fra le commedie di vena boccaccesca, nelle quali Tozzi avrà magari ritrovato l’indole nativa ma che meno gli appartengono, e le altre, più assillantemente legate a problemi morali e di costume i quali lasciano capire dove lo scrittore volesse arrivare. L’aspetto più positivo della raccolta è questo: partito, secondo la consuetudine corrente, da un teatro di situazioni o eventi variamente coloriti, Tozzi aspirava a un teatro di idee.
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