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TEATRO: LETTERATURA: I MAESTRI: Il teatro di Tozzi

15 Dicembre 2018

di Raul Radice
(dal “Corriere della Sera”, 27 agosto 1970)

Sono occorsi cinquant’anni dal giorno della sua morte, mezzo secolo di solleci­tudine e di risentiti affetti, per veder raccolta in volume l’opera teatrale di Federigo Tozzi: sedici commedie, ta­lune soltanto abbozzate, in massima parte inedite. Il vo­lume, terzo delle opere tozziane (Il teatro, Vallecchi, pp. 714, L. 8000) è ordinato da Glauco Tozzi, figlio dello scrittore, che di ogni com­media fornisce, insieme al te­sto, una descrizione e un no­tiziario scrupolosamente do­cumentati; ed è preceduto da un breve ma denso saggio- premessa di Giancarlo Vigorelli, il quale di quel teatro sembra non senza logica vo­ler suggerire un metodo di lettura che al drammaturgo non anteponga il narratore. Al contrario, considerato che fra L’eredità, con la quale si apre la raccolta, e lo sche­ma finale delle incompiute Avventure di Capino corre l’arco di un decennio (1909-1919), Vigorelli invita il let­tore a non sottrarsi alla evi­denza di un parallelismo ispirativo e compositivo tra i te­sti narrativi del Tozzi e i suoi testi drammaturgici, « cosi che al di là di una distinzione di generi, d’ora in avanti quest’opera teatrale, positivamente o negativamen­te, concorrerà con un suo peso inevitabile a determi­nare un esame ed un giudi­zio più compiuto sull’uomo e sullo scrittore ».

La burrascosa vicenda uma­na e la burrascosa formazio­ne spirituale del senese Toz­zi sono così ricomposte en­tro un disegno il quale ripro­pone con aspro rilievo il tem­po in cui lo scrittore operò, e polemicamente illustra i caratteri degli uomini con i quali egli ebbe maggiore di­mestichezza o dei quali lo attrassero affinità formali (vale la pena di sottolineare in proposito le punte arro­ventate di cui è fatto ogget­to Domenico Giuliotti), ma quanto più la collocazione ap­pare convincente tanto più si avvertono uno stridore e un malessere alla cui deter­minazione concorrono motivi non tutti di identica natura, talvolta antitetici.

Un primo motivo di stri­dore riguarda la frattura ti­picamente italiana fra tea­tro e letteratura, frattura ri­corrente osservando la quale, di mezzo secolo in mezzo secolo, nulla sembra cambiato; al punto di far sembrare tut­tora stupefacente il caso Pirandello, cui si può contrap­porre in senso contrario il caso non meno stupefacente di Italo Svevo. Proprio al tempo della morte di Tozzi, un critico contro il quale og­gi sembra esercitarsi l’arma del silenzio e che dell’opera del Tozzi fu assertore appassionato, Giuseppe Antonio Borgese (al quale la pubbli­cazione di Tre croci suggerì fra l’altro pagine angosciate e solenni, e che non a caso si fece poi presentatore del l’Incalco), di quella frattura si adoperò a individuare le cause in uno scritto raccolto in Tempo da edificare.

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A Borgese, in sostanza, lo scrittore italiano appariva come il custode di un tem­pio dal quale i commedio­grafi, per non esserne scac­ciati, alla lunga preferirono restare fuori. Borgese ricor­dava l’arroganza del Carduc­ci nei confronti di Giuseppe Giacosa e lasciava intendere quanto avesse contribuito ad approfondire tal solco il fre­quente richiamo ai canoni di una tecnica considerata fine a se stessa, laddove essa è invece scoperta e ricreazione di ogni drammaturgo vero. Che cosa importava di quei canoni a un Ibsen o a uno Strindberg, a Cecov o a Shaw?

Di quella condizione si tro­va qualche traccia anche nel­le notizie raccolte da Glauco Tozzi. «Intendiamoci — scrive Antonio Beltramelli a Fede­rigo cui ha chiesto tre atti unici — io non parlo all’artista che rispetto ed ammiro profondamente, parlo al commediografo e mi riferisco ai mezzi che deve adoperare ». Tuttavia questi ed altri accenni non bastano a piena­mente individuare una frat­tura che può sì essere limi­tata al rapporto letteratura-teatro, ma che di fatto ri­guarda il problema altrimen­ti vasto della circolazione della cultura. Il narratore Giovanni Verga, e qui si esclude di proposito il dram­maturgo, resta esemplare an­che sotto questo aspetto.

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O vogliamo piuttosto asse­rire che scrittori come Ver­ga, come Tozzi e come Svevo, collocati nel proprio tempo appaiono anticipatori che della anticipazione assumo­no il privilegio e insieme il rischio? Non giova ripetere che solitamente la loro sorte è di arrivare o troppo presto o troppo tardi, ma è indub­bio che il loro esordio mai si verifica al momento giu­sto. In questo senso, già lo si è visto recentemente con la riapparizione di qualche commedia di Svevo, può es­sere affacciato più di un dub­bio sulla possibile resa « at­tuale » di un testo variamen­te giudicato quale è L’incalco, nonostante l’urto fra ge­nerazioni in esso dibattuto. E non perché quell’urto, che è fenomeno ricorrente di ogni epoca, differisca sostanzial­mente dal fenomeno della contestazione odierna, ma perché la polemica sulla so­cietà degli « anni venti », scritta allora, non può esse­re risuscitata cinquant’anni dopo senza la inevitabile ag­giunta più o meno manife­sta di una nuova polemica che annullerebbe la prima. Del teatro di Tozzi, che per due terzi ha andamenti na­turalistici e naturalistico non è, oggi interesserebbe forse una Interpretazione prevalentemente filologica, maga­ri scandita secondo i modi dell’oratorio musicale.

Il discorso, comunque, non finirebbe li, né riuscirebbe ad attenuare il disagio accennato all’inizio. A proposito del quale, da un lato si osserva che, bene o male, Tozzi, una certa accoglienza sui palco­scenici del suo tempo la tro­vò (ne fanno fede le notizie riguardanti la compagnia fio­rentina dei Niccoli, Alda Borelli, Calisto Bertramo, Ma­ria Letizia Celli) anche se di essa nelle cronache di allora sono rimaste soltanto labili tracce; e dall’altro resta an­cora da stabilire l’effettivo grado di intensità di una vocazione teatrale che procedet­te, è vero, di pari passo con la vocazione letteraria, ma che della seconda non ebbe né la perentorietà né la riso­lutezza. « Il vero lavoro da fare è di incorporare ormai il teatro di Tozzi ai romanzi, alle novelle, constatando che ne ribadisce spesso i temi ma quasi mai li anticipa, ricon­fermando così la primogenitura della sua vocazione nar­rativa » dice ancora Vigorelli.

E non sarebbe nemmeno giusto sottacere la differenza esistente fra le commedie di vena boccaccesca, nelle quali Tozzi avrà magari ritrovato l’indole nativa ma che meno gli appartengono, e le altre, più assillantemente legate a problemi morali e di costume i quali lasciano capire dove lo scrittore volesse arrivare. L’aspetto più positivo della raccolta è questo: partito, se­condo la consuetudine corren­te, da un teatro di situazioni o eventi variamente coloriti, Tozzi aspirava a un teatro di idee.

 


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