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PITTURA: I MAESTRI: Bramantino e Bramante pittore: L’ermetico lombardo

16 Dicembre 2008

di Gian Alberto Dell’Acqua
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1978]  

Virtù dei soprannomi di artisti: quello dolce ­mente diminutivo di Bramantino vale da solo, can ­cellando le confusioni dei vecchi scrittori, a illumi ­nare quel rapporto di discepolato, in parte ancor misterioso, che dovette stringere il giovane lombar ­do Bartolomeo Suardi a Donato Bramante da Urbino. È un dato iniziale che occorre far salvo, anche se le indagini dei moderni studiosi si sono tutte applicate a chiarire sempre più nella sua auto ­noma consistenza la persona artistica del Bramanti ­no, distinguendola in termini netti da quella del ­l’urbinate.
Un primo schematico abbozzo di definizione po ­trebbe formularsi, in proposito, ravvisando in Bra ­mante e nel Suardi due eminenti esempi, rispetti ­vamente, di architetto-pittore e di pittore-architetto. Del primo, infatti, non restano che pochi affreschi legati al suo soggiorno in Lombardia, a Bergamo e Milano, e implicanti tutti problemi di rappresenta ­zione di spazi in rapporto agli ambienti interni o alle pareti esterne da decorare; in aggiunta gli viene tra ­dizionalmente attribuito un unico dipinto su tavola, il Cristo alla colonna già nell’abbazia di Chiaravalle. Nel successivo periodo romano l’attività pittorica di Bramante, per quanto sappiamo, cessa del tutto o meglio si scioglie e consuma nelle grandi imprese edificatorie, per qualche aspetto di spettacolosa spa-zialità analoghe agli affreschi lombardi dove è chia ­ro l’interesse per una particolare interpretazione in senso illusionistico dei canoni della prospettiva. Dal canto suo il Bramantino appare come soggiogato da una latente vocazione architettonica che lo spinge a evocare nella maggior parte dei suoi non numerosi dipinti singolarissimi edifici, quando non intere cit ­tà ideali. In sostanza egli si presenta come un pittore quanto mai sottile che non si stanca di sognare di ar ­chitettura e che in un solo caso – la cappella Trivulzio antistante la basilica milanese dei santi Nazaro e Gelso – giunge a dare a quel profondo impulso uno sbocco concreto. Due esiti dunque, quelli del mar ­chigiano e del lombardo, che si direbbero simme ­tricamente opposti, dipendendo non già da un con ­corso più o meno favorevole di pratiche circostanze ma piuttosto da altrettanto ben distinte inclinazio ­ni. Si aggiunga a ciò la diversa estrazione culturale: prima di accostarsi a Bramante (ignoriamo come e quando, ma certo qualche anno prima del 1490, al ­lorché il suo soprannome comincia ad apparire nei documenti) il Suardi si era prevalentemente orienta ­to sul trevigliese Bernardino Butinone, cioè su una cultura foppesca nutrita di apporti padovani e ferra ­resi, non senza affinità in questo senso, con il fare aspro e scheggiato dei fratelli scultori Cristoforo e Antonio Mantegazza. Bramante, invece, più anziano di circa vent’anni, si era formato in stretto contatto con l’ambiente artistico promosso da Federico da Montefeltro nella gran reggia urbinate; e come pit ­tore muoveva non tanto da Piero della Francesca quanto dal forlivese Melozzo che si era servito per effetti spettacolarmente illusivi della severa discipli ­na prospettica del maestro del Borgo: di qui le con ­nessioni più volte istituite dalla critica, a ragione o a torto, fra lo stesso Melozzo e il Mantegna. In effetti, accettando l’ipotesi di un esordio melozzesco, divie ­ne più comprensibile il giudizio di fra Sabba da Castiglione (1549) secondo cui Bramante “fu pittore valente come discepolo del Mantegna e gran pro ­spettivo come creato di Pietro del Borgo”. Possiamo comunque tener per certo che Donato – a quanto pare inviato direttamente in Lombardia dal Montefeltro in servizio del futuro duca di Milano, Ludovi ­co il Moro – dovette esercitare sul giovane Suardi un fascino non inferiore a quello che nel medesimo giro di anni richiamava attorno a Leonardo un Boltraffio e un Marco d’Oggiono. Nel marchigiano Bra ­mantino non poteva non ammirare doti a lui con ­geniali come quella complessità e finezza di cultura di cui recano i segni, dopo i Filosofi dipinti all’esterno del palazzo del Podestà a Bergamo, le opere mi ­lanesi di Bramante: dall’Interno di un tempio inciso nel 1481 da Bernardo Prevedari – sorta di fantasia architettonica colma di allusioni ricolleganti ai tempi sforzeschi l’antica storia della Milano paleo ­cristiana – al ciclo degli Uomini d’arme ora a Bre ­ra. Sempre per il tramite bramantesco il Suardi poté anche attingere un sentimento dell’antichità classica più maturo e meno ingenuamente confuso dell’archeologismo di moda in Lombardia a partire dal Filarete; soprattutto ebbe modo di accogliere una diretta testimonianza delle grandi idee architettoni ­che e prospettiche circolanti nel centro urbinate ad opera dell’Alberti, del Laurana, di Piero, rinnova ­te però da Bramante con un’instancabile volontà di sperimentazione che, scossa ormai la fiducia nel va ­lore razionale e universale della prospettiva brunelleschiana, tendeva a trasformare quest’ultima in ar ­tificio e “strumento di comunicazione visivo-teatrale” (Emiliani Dalai), al di là delle stesse prove del Mantegna a Padova e nella “camera pietà” della reggia mantovana. Al maestro, il Suardi poté in un primo tempo fornire una collaborazione verosimil ­mente non limitata all’affresco dell’Argo in Castello Sforzesco, databile avanti il ’93. Dovette poi giun ­gere il momento del distacco, prima ancora che Bra ­mante, a più riprese assentatosi nell’ultimo decen ­nio del secolo, lasciasse definitivamente la capitale sforzesca, e infatti il ciclo degli Uomini d’arme che i più recenti studi tendono a porre verso la fine del soggiorno lombardo, non recano tracce di interven ­ti bramantineschi. Diviso ormai da Bramante, lonta ­no dai vecchi maestri locali a cui aveva guardato in giovinezza e ancor più dai giovani seguaci di Leo ­nardo, il Suardi è stato spesso visto come apparta ­to in una sorta di ermetico riserbo; gli stessi aspetti “metafisici” e “neoegizi” più volte rilevati nelle sue pere sembravano confermare in lui un’attitudine a porsi apparentemente fuori del suo tempo. In realtà neppure la pittura di Leonardo sfuggiva all’attenzio ­ne critica del Suardi, che presto si liberò da ogni chiusura provinciale come dalle convenzioni arcaiz ­zanti (caratteristico, al riguardo, il suo disinteresse per l’istituzione tecnica del polittico, cara al Quat ­trocento lombardo), guardando piuttosto alle espe ­rienze più vive in corso nell’Italia centrale, a Firenze e a Roma. Egli fu così pronto a far proprie le istanze, e insieme l’incipiente insoddisfazione e l’autocritica, dell’aureo classicismo protocinquecentesco, fornen ­done una versione di rara acutezza e intelligenza, in parallelo ai primi manieristi toscani. Non meno at ­tuale e per nulla regressivo appare poi, per la mo ­dernità degli esiti, il ricorso alla fonte pierfrancescana esperito al di là dello stesso Bramante e atte ­stato da non poche opere fra cui le composizioni per gli arazzi trivulziani dei Mesi.
La leggenda di un Bramantino chiuso in se stes ­so e assorto in astratte speculazioni non è affatto suf ­fragata, del resto, dai documenti che lo concernono e purtroppo solo in scarsa misura illuminano la sua attività di artista. Neppure la notizia del Lomazzo, che riferisce come il pittore usasse spesso girare per la città nella veste di lavoro e portando “il pennello nell’orecchia” può assumersi come prova di eccen ­tricità in un uomo che i dati di archivio ci mostrano attaccato alla famiglia, tutt’altro che incapace di at ­tendere agli affari e in condizione di agiatezza (tra il 1424 e il ’29 egli godeva di una rendita annua di cir ­ca quattrocento ducati, il doppio delle entrate di un altro pittore di fama quale Marco d’Oggiono). In ef ­fetti il Suardi era proprietario e attento amministra ­tore di immobili: il podere con casa e mulino, o “molendino”, dell’Opio presso Lodi, di una settan ­tina di pertiche, recatogli in dote dalla moglie Elisabetta della Chiesa; un’altra abitazione a Milano, entro la cerchia dei Navigli in parrocchia di San Bartolomeo, passata poi alla figlia Giulia e al genero Gian Giacomo da Monza. Non è così da stupire che nelle carte bramantinesche diligentemente radunate da Wilhelm Suida si faccia spesso questione di fac ­cende pratiche, affitti e livelli da corrispondere o ri ­scattare; stando allo stesso Suida, una ricevuta del 1495 indurrebbe addirittura al sospetto che l’artista prestasse denaro a usura. È in ogni modo certo che nel 1513 egli dovette rivolgersi al duca Massimiliano Sforza per la cassazione di una denuncia penale atti ­ratasi per aver voluto vendere – asserendo secondo l’accusa il falso – una casa non sua. Sarebbe d’altra parte imprudente trarre da una simile vicenda, in cui non è affatto da escludere la buona fede del de ­nunciato, una qualsiasi illazione di ordine morale; così come sembra azzardato interpretare in termi ­ni di scaltro opportunismo la passione politica che portò il Suardi, dopo aver interrotto i rapporti col suo maggior committente – il maresciallo Gian Gia ­como Trivulzio, braccio destro del re di Francia nel ducato – a parteggiare per la restaurazione sforzesca e a subire di conseguenza un temporaneo esilio in vai di Susa. Rientrato a Milano dopo la sconfitta dei francesi nella battaglia di Pavia, l’ultimo duca Francesco II Sforza volle ricompensare la fedeltà del Suardi nominandolo “architectum et pictorem fa-miliarem, officialem et curialem”: singolare privi ­legio che sanciva, cinque anni prima della morte dell’artista sopraggiunta nel 1530, la sua effettiva preminenza nell’ambiente milanese, contrastata sol ­tanto dalla contemporanea copiosa operosità del Luini.
A parte la significativa notizia, ben poco risulta dalle fonti di archivio sulla specifica attività del Bramantino, che sappiamo soltanto essere stato in rap ­porto a Milano con la Fabbrica del Duomo, e poi con gli amministratori del Luogo Pio della Miseri ­cordia e i cistercensi di Chiaravalle, rispettivamente per la commissione di certi affreschi in Sant’Eufe ­mia, non più conservati, e per l’offerta di una “anchoneta” col Cristo morto, anch’essa scomparsa. Nulla è detto di un supposto viaggio dell’artista nel ­l’Italia centrale prima del suo soggiorno a Roma nel 1508, comprovato dal pagamento fattogli nel di ­cembre di quell’anno per dipinti da eseguire negli appartamenti pontifici. Con maggior larghezza sono invece documentati i lavori della cappella Trivulzio e per la tessitura degli arazzi dei Mesi, anche se per questi ultimi non figura mai espressamente il nome del Suardi, cui spettano senza alcun dubbio, per ra ­gioni di stile, i cartoni oggi perduti. Ma tanto le fonti di archivio quanto la più antica letteratura artistica, prodiga a partire dal Vasari di equivoci ed errori, non offrono alcun ragguaglio su ciò che più preme ­rebbe di conoscere del Bramantino: gli umori psico ­logici e le consuetudini di lavoro, le frequentazioni e le amicizie, gli interessi culturali e le inclinazioni re ­ligiose. Si comprende perciò come, proprio per sup ­plire a tale carenza di informazioni, le ultime inda ­gini siano state avviate, a somiglianza di quanto è ac ­caduto per la pittura del Bramante, in una direzio ­ne alquanto diversa da quella pur del tutto legitti ­ma dell’analisi formalistica, avendo piuttosto di mi ­ra una lettura iconologica delle opere e la decifrazio ­ne dei molti messaggi in esse riposti. Si sono così dissipati alcuni dei misteri che contribuivano a ren ­dere non poco enigmatiche la figura e l’opera del ­l’artista. Ad esempio l’esatta interpretazione icono ­grafica come Uomo di dolori del cosiddetto Cristo ri ­sorto Thyssen a Lugano ha condotto a un re ­moto testo della letteratura religiosa del XII seco ­lo, il “Sermo XIX in nativitate B. Mariae” dell’in ­glese Aelredo di Rievaulx, probabilmente noto al Bramantino per la mediazione degli ambienti monastici con cui fu in contatto. Un altro testo di Ael ­redo sulla preistoria della Chiesa ha consentito a Germano Mulazzani di illustrare alcuni dei significa ­ti della grande Crocifissione di Brera, l’opera più costruita, impegnativa e semanticamente densa del pittore, e assieme caratteristico documento della sua inclinazione ad attualizzare la materia iconogra ­fica, riportandola con una rete di sottili simbologie alla realtà della storia civile e religiosa del suo tem ­po. Si può credere che in ciò abbia una volta di più giocato l’esempio del Bramante, il quale nella tavo ­la del Cristo alla colonna aveva alluso, secondo la sug ­gestiva proposta dello stesso studioso, alle presenti sofferenze della Chiesa con probabile riferimento alla recente presa di Otranto da parte dei turchi: epi ­sodio allora avvertito come sintomo di una grave minaccia incombente sulla cristianità. Più general ­mente, si direbbe che il Suardi, nel riprendere se ­condo il suo genio la tematica sacra, abbia voluto tacitamente confrontarsi con Leonardo, maestro anche nel rinnovare alla radice i modelli più consa ­crati dell’iconografia religiosa. La differenza, se mai, sta nel modo dell’operazione, che nei dipinti vinciani, dalla Vergine delle rocce alla Cena, discende da una nuova concezione d’assieme, potentemente unitaria e cosmicamente profonda, mentre nel Bramantino sembra piuttosto attuarsi mediante una somma di messaggi particolari che vanno oltre l’evidenza pri ­maria del motivo rappresentato, risultando di più o meno agevole decifrazione. Se così nella Natività del ­l’Ambrosiana è abbastanza chiaro il proposito di gettare un ponte fra l’evento sacro e l’antichità pagana mediante la presenza in immagine di Augu ­sto e della Sibilla Tiburtina, nell’Adorazione dei Magi di Londra resta da spiegare, in rapporto al tema ve ­ro e non solo apparente del quadro, il significato co ­sì delle figure profetiche accanto alla Vergine come delle strutture architettoniche in parte rovinate (o incompiute) e dei recipienti-sarcofaghi ostentati in primo piano, di incorruttibile materia lapidea e di straordinaria incisività di stile. Altri esempi della non comune sottigliezza iconografica del Suardi, che ignoriamo se si sia esercitata, a concorrenza coi leo ­nardeschi, anche nel campo specifico della ritratti ­stica, possono ravvisarsi nella tavoletta di Brera, a prima vista riconoscibile come una Sacra Famiglia e come tale a lungo creduta, mentre è più verosimil ­mente da considerare una Madonna col devoto; l’affresco con la Vergine e angeli dal Broletto Nuovo, anch’esso a Brera, con l’epigrafe forse polisensa “Soli Deo”; infine la grande e per più versi problematica Madonna e otto Santi già Contini.
Ovviamente, anche nei casi in cui la scoperta di precise fonti letterarie ha consentito una più plausi ­bile lettura delle immagini del Bramantino, convie ­ne distinguere fra l’apporto personale e inventivo dell’artista e il mero dato di cultura; attinto spesso in quella zona tra sacro e profano, luogo d’incontro di umanisti e di uomini di chiesa, dove allignavano ad esempio le interpretazioni “moralizzate” in senso cristiano di Ovidio. Appunto dalle Metamorfosi ovidiane il Suardi aveva tolto in giovinezza la favola pa ­gana di Filemone e Bauci, narrata nella tavoletta ora nel museo Wallraf-Richartz di Colonia, che signi ­ficativamente prelude al gran ciclo, classico e rusti ­co, dei Mesi.
È questa l’opera che, anche per la sua ampiezza, meglio dimostra la capacità del Bramantino di ri ­durre a lucida coerenza formale e risolvere in unità di racconto ciclico una somma di motivi di disparata provenienza: complicate, ossequiose simbologie astrologiche e araldiche, antiche suggestioni risalenti all’iconografia classica, romanica e gotica dei Mesi; notazioni attuali di vita in campagna, collegabili a un risorgente interesse per l’agricoltura nella socie ­tà aristocratica lombarda e continuamente poste a confronto, nelle infinite invenzioni architettoniche, col sogno umanistico della città ideale. Ne è da e-scludere che in qualche tratto siano state messe a profitto personali esperienze del Suardi, proprieta ­rio terriero alle prese coi fittavoli mugnai e i brac ­cianti del suo “molendino”. Quanto alle soluzio ­ni propriamente figurative, che è lecito ritenere non poco travisate in sede di esecuzione da Benedetto da Milano e dai suoi collaboratori dell’arazzeria vigeva-nese, va rilevata in particolare una sensibile compo ­nente pierfrancescana. Ne fanno fede l’accentuata solidificazione geometrizzante dei corpi e degli og ­getti; la squadrata regolarità delle architetture “ur ­binati”, scalate nello spazio cubico; soprattutto il rapporto di mutua adeguazione fra edifici e figure. Ma per quali vie il Suardi poteva essersi accostato all’opera di Piero? Verosimilmente non gli erano bastati i dipinti, né i discorsi, di Bramante, volto al modo del Mantegna e dei settentrionali, a una con ­cezione della prospettiva come illusionistica molti ­plicazione di spazi assai diversa da quella propria del maestro del Borgo, intesa all’idealizzazione dei volu ­mi dei corpi nell’ambito della “piramide visiva”. E poiché il soggiorno a Roma del 1508 cade in un mo ­mento troppo avanzato rispetto all’elaborazione, certamente assai lunga, della serie dei Mesi, torna a convincere l’ipotesi, da tempo formulata da Rober ­to Longhi, di un precedente viaggio dell’artista (ver ­so il 1500 o poco dopo) nell’Italia centrale. Non è da escludere che, in quell’occasione lo studio del primo classicismo fiorentino, preannunciato dall’euritmia robbiesca e impersonato da fra’ Bartolomeo, si ac ­compagnasse alla visione diretta di dipinti di Piero. In effetti l’alto insegnamento di questi appare ripre ­so dal Bramantino, e non solo nelle composizioni dei Mesi, in una lezione moderna, che accetta il cano ­ne cinquecentesco della simmetria perfettamente bi ­lanciata attorno a un asse centrale con preferenza per ritmi ternari come nella Pietà dell’Ambrosiana, nella lunetta delle Grazie, più tardi nella solenne Madonna delle torri già in San Michele alla Chiusa e nell’affresco con la Vergine e angeli dal Broletto nuovo; e probabilmente fu proprio questo suo a-spetto di moderno classicista che valse al pittore la successiva chiamata in Vaticano.
Il ciclo dei Mesi costituisce, tra l’altro, un punto fermo per la discussa cronologia del Bramantino, pacifica o quasi soltanto per le opere giovanili: la Madonna del latte di Boston, pervasa da umori lom ­bardi (anche bergognoneschi) e ferraresi; il Filemone e Bauci; l’Uomo di dolori, la Natività dell’Ambrosiana, inoltre l’Argo nella sala del Tesoro del Castello Sfor ­zesco, che par giusto ritenere frutto di una collabo ­razione con Bramante sebbene autorevoli studiosi preferiscano trasferirlo per intero nel catalogo del Suardi. Anche un altro dipinto capitale, l’Adorazione dei Magi a Londra di così rigorosa simmetria, trova opportuna collocazione in parallelo ai cartoni dei Mesi. Sorgono invece perplessità per quanto concer ­ne lo svolgimento dell’artista nel secondo e nel terzo decennio, dal momento che riesce assai più agevole rilevare affinità tra singoli dipinti che non distribuir ­li tutti, in mancanza di date sicure, secondo un’at ­tendibile seriazione. Non è per esempio difficile ac ­costare alla Madonna delle torri il San Giovanni Evange ­lista della raccolta Borromeo per uno stesso spirito di calma e pur tesa ed eroica fermezza che trapassa, colorandosi appena di patetismo, in opere posterio ­ri quale la Lucrezia e la Pietà un tempo nelle collezioni reali di Romania. I due ultimi dipin ­ti segnano il passaggio a un ulteriore gruppo di ope ­re, includente la cosiddetta Sacra Famiglia di Brera, la Madonna Kress, l’affresco dal Broletto Nuovo e incentrato sulla Fuga in Egitto di Locarno, che si può persuasivamente porre attorno al 1520 per il concorrere di motivazioni stilistiche e di elementi esterni di datazione. Contrassegnano quel gruppo, nel permanere della tornitura formale pro ­pria del maestro, una più grandiosa, espansa monumentalità e al tempo stesso una materia cromatica più tenera e luminosa. Analoghe qualità coloristi-che si avvertono, congiunte a un rinnovato impegno di puntigliosa simmetria compositiva, nella grande Madonna ex Contini, a sua volta in evidente rapporto con le tavole della Pietà e della Pentecoste oggi nella parrocchiale di Mezzana, da considerare fra le prove estreme del Suardi per l’assoluta concentrazione e decantazione formale, la fissità archi ­tettonica, la risoluzione dei temi in una pressoché astratta contemplatività. Ponendo verso il ’25 la pala ex Contini, viene quindi da chiedere se non conven ­ga posporre a essa le due tavole gemelle di Mezzana, anche per colmare in qualche modo il vuoto dell’ul ­timo quinquennio di vita del Bramantino, appena insignito del titolo di pittore di corte. Ma le maggio ­ri difficoltà riguardano le opere tra il ’10 e il ’20, il periodo nel quale cadono i lavori a lungo protratti dell’unico edificio effettivamente progettato dall’ar ­tista, il mausoleo Trivulzio in San Nazaro. Secon ­do le risultanze della più recente lettura iconologica, un’opera chiave quale la Crocifissione di Brera va po ­sta verso il 1511-12; ma pur ammettendo che al qua ­dro spetti una data alquanto anteriore a quella già generalmente assegnatagli attorno al ’20, non appa ­re affatto improponibile, in base a rilievi di carattere stilistico come il dilatarsi e l’ammorbidirsi dei pan ­neggi, una sequenza che situando poco dopo il ’10 la Madonna delle torri e mantenendo la Fuga in Egitto al termine del decennio collochi al centro di questo la medesima Crocifissione. Questioni da specialisti, in fondo oziose? Non sembra, se proprio da esse di ­pende il configurare in un modo o nell’altro, nello sforzo di chiarirne il senso, l’intero percorso del pit ­tore; e se anche per questa via può essere efficace ­mente ricuperata la storicità del “metafisico” Bra ­mantino. Restano ora da sottolineare almeno alcuni tratti attestanti, nella diversità dei momenti, la pre ­senza non equivocabile del maestro. Se la torre della rocca lombarda a specchio delle acque nella Madon ­na di Boston si differenzia da analoghi motivi del Poppa e del Bergognone per l’accostamento, ancora un poco stridente, al perfetto ovale della testa fem ­minile, nel Filemone e Bauci è già di pretta marca bramantinesca l’invenzione, fedele al racconto ovidiano, della capanna rustica che miracolosamente si ri ­veste di marmi come l’albero di foglie, e col suo col ­mo scandisce, in asse col tronco e il nodo della to ­vaglia, la solenne immobilità del gruppo centrale. Con altrettanta novità nell’Uomo di dolori Thyssen gli spunti ferraresi che si avvertono nel paesaggio, ca ­rico di spirituali significazioni, e nella stessa tormen ­tata figura del Redentore vengono trasposti in un’immagine affine in apparenza ma in realtà quan ­to mai diversa, a cominciare dalla fredda, lunare temperie luminosa, dal precedente Cristo alla colon ­na del maestro Bramante. Ancor più indipendente e complessa nella legatura compositiva, la Natività dell’Ambrosiana si arricchisce di preziose cita ­zioni archeologiche nell’arcone di fondo e di calco ­late rispondenze ritmiche fra la Sibilla sulla destra, il quartetto degli angeli suonatori, la Vergine e i mo ­naci spiegati a cerchio attorno al Bambino. La pri ­ma maturità del Suardi si afferma poi in pieno nell’Adorazione dei Magi londinese, che giova por ­re a confronto, per rilevarne il radicale divario, con la tenera, ricca interpretazione foppesca dello stesso tema, nella tavola anch’essa a Londra e all’inarca coeva. Dovunque è un’accentuazione di dura con ­sistenza materica e un’esasperata nettezza di defini ­zione formale, che dall’architettura, dal torrione di roccia, dai vasi mirabili e davvero neoegizi trapassa ­no nelle figure assestate in fermissime pose, come se partecipassero a un esoterico rito. Dall’Epifania è agevole il trapasso alle composizioni dei Mesi; si veda in particolare nel Settembre lo straordinario motivo prospettico del torchio, con le solcature nitidamente scavate nel terreno e il lento girare a cerchio dei contadini. Ma anche negli altri arazzi abbondano le più gustose trovate: la donna recante la maschera per le api nel Febbraio; nel Marzo i villani issati sugli alberi per la potatu ­ra; nell’Aprile le siepi tagliate, con invenzioni di gusto manieristico, in forma umana; nel Luglio la cadenza ritmicamente variata dei correggiati. Una più larga ed essenziale monumentalità, scandita in bilanciatissimo ritmo, è nella Madonna coi santi Mi ­chele e Ambrogio, nota per gli spettacolosi scor ­ci del rospo e dell’ignudo (uno degli aspetti dell’arte del Suardi più apprezzati dagli antichi scrittori, an ­che in rapporto alla sua attività di teorico della pro ­spettiva), e altresì per gli spogli grattacieli inqua ­dranti al centro una sorta di Torre Velasca avanti lettera. Un elemento, questo della torre, che insistentemente e quasi ossessivamente ricorre nelle opere del Bramantino e che potrebbe spiegarsi, me ­glio ancora che con precise motivazioni iconografiche, con qualche ricerca finora non tentata di psico ­logia del profondo.
Opera veramente riassuntiva delle possibilità di stile e delle intellettualistiche complicazioni dell’ar ­tista, la Crocifissione braidense riprende nella zona superiore le araldiche simmetrie dei Mesi men ­tre moltiplica in basso il tema della figura immobile nella dilatata ampiezza degli ammanti. Tra i molti particolari memorabili, la donna che stringe con le braccia avvolte nella rossa veste il legno della croce; subito accanto, il discepolo di fronte con le mani conserte al petto; sul bordo destro del quadro l’in ­quieto personaggio rivolto verso lo spettatore e identificabile come un toccante autoritratto. Nella Lucrezia – unico quadro che, anche per il ca ­rattere classicamente laico del tema e il prevalere dello scenario architettonico potrebbe con qualche ragione esser detto “metafisico” anzi tempo – l’acutissima sensibilità ritmica del Suardi si manifesta nella rispondenza fra l’ampio gesto dell’eroina col pugnale brandito, la figuretta femminile a braccia spalancate e i rami dell’albero scheletrito nel fondo. Pari raffinatezza, intensificata dal magico effetto di illuminazione di sottinsù, è nel rapporto tra le foglie di loto stilizzate nel basamento del trono e il pan ­neggio della Vergine con i due angeli nell’affresco di Brera. Dopo il momento di distensione narrativa e di particolare attenzione paesistica rappresentato dalla Fuga m Egitto, la pala già Contini e le due tavole gemelle di Mezzana segnano l’approdo finale del maestro. Nella prima il sere ­no equilibrio cinquecentesco è messo in crisi da una segreta irrequietezza spirituale appena dissimulata nella bloccata staticità della Madonna e dei santi e bene avvertibile anche nella Pentecoste, dove anzi ten ­de a coinvolgere maggiormente lo spettatore me ­diante i due apostoli a lui rivolti, pur restando sempre infrenata in un’infallibile calibratura di menv bra umane e di elementi architettonici. Nella Pietà di Mezzana, infine, lo spirito lirico e geometrico del Suardi si esprime, permanendo la stessa rarefatta atmosfera, in esatti e pur arcani ritmi e triangolazio ­ni, come nella similitudine di posa tra il Cristo e il personaggio piegato a squadra in primo piano.
In tutto il percorso del Suardi rarità di stile come quelle sommariamente indicate collimano così, in-scindibilmente, con le rarità iconografiche, definen ­do una forma di “classicismo eccezionale'” unica a quel tempo in Lombardia e in Italia, che solo da ultimo tende ad allinearsi alle prime geniali formu ­lazioni toscane della “maniera”. Da queste il Bra ­mantino non cessa tuttavia di distinguersi per quel suo peculiare tono di alta, assorta contemplazione, connesso a una assidua ricerca di decantazione dei volumi corporei e a un tempo di forme architettoni ­che nude e compatte, di squadrate regolarità, con preferenza per gli andamenti rettilinei anche nelle terminazioni orizzontali. Ne da conferma l’unica ar ­chitettura vera del Bramantino, la cappella Trivulzio, che offre un’interpretazione critica del classici ­smo allora corrente in Lombardia rifiutandone la florida veste decorativa e accentuando fuori del ca ­none cinquecentesco la dimensione della verticalità.
In posizione singolare ma non privo di radici, anzi provvisto di una complessa e aggiornata cultura il Suardi non restò neppure senza seguito, a comin ­ciare da qualche più prossimo seguace come il co ­siddetto Pseudo Bramantino. Non ebbe, è vero, una fortuna consacrata da letterati di gran nome e pari a quella del più popolare pittore del Cinquecento lombardo, Bernardino Luini; ma a lui toccò l’elogio più significativo per un artista, quello resogli nelle opere dallo stesso Luini, da Lorenzo Lotto nel suo esordio bergamasco, dal Romanino, da Gaudenzio Ferrari.


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2 Comments

  1. Commento by mila — 14 Febbraio 2009 @ 16:27

    Molto utile per l’ esame di istituzioni di storia dell’ arte

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 14 Febbraio 2009 @ 20:16

    Mila, nella sezione I Maestri, potrai trovare molte cose utili alla formazione di giovani studenti, e non solo.
    Inoltre, nella sezione Pittura, troverai altri saggi notevoli già pubblicati. Altri seguiranno sia nella sezione I Maestri che nella sezione Pittura.
    Le sezioni le trovi indicate nella home a sinistra, sotto Rubriche.
    Grazie dell’attenzione.

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