PITTURA: I MAESTRI: Correggio: Grazia laica: dono dell’uomo a Dio26 Giugno 2010 di Alberto Bevilacqua Di Antonio Allegri detto il Correggio si può af Âfermare innanzi tutto che la sua pittura di Visione’, a differenza di quella religiosa del Tintoretto o di quel Âla laica del Veronese, antepone la sensibilità al pen Âsiero, la felicità biologica alla felicità dell’interpretazione e della conoscenza; ora, questa idea apparen Âtemente elementare cessa di esserlo allorché ci ren Âdiamo conto che la fortissima linfa biologica, anziché fare dell’artista un portatore di tendenze interne, astratte dal suo ambiente, acquista senza quasi biso Âgno di mediazioni intellettuali il valore di tendenza storica: tale da porre l’artista in rapporto critico con il suo ambiente. Inseguendo fantasie legate al corso della propria vita emotiva, cioè, il Correggio riesce a renderle con figure e ‘visioni’ che, in virtù di una pura e miracolosa forza interna (quasi una predestinazio Âne), lasciano decifrare in sé una massiccia concezione dei più urgenti problemi dell’uomo, dalla religione al Âla povertà . Dall’irrazionalità , dunque, del suo bisogno creativo, l’artista passa con un procedimento sensibile alla razionalità , divenendone cosciente nell’atto stesso in cui la vede delinearsi nell’opera compiuta. Si spie Âga così, tra l’altro, l’implicita corrosione che nelle figu Ârazioni correggesche si produce verso ciò che la Chie Âsa imperante e la teologia imponevano fosse dipinto, benché il Correggio continuamente affondasse in mez Âzo alle tonache, tra benedettini e benedettine, e attin Âgesse alle commendatizie dei suoi protettori canonici con la lesta e meccanica devozione con cui si infilano le dita della mano nelle acquasantiere. Ciò è stato superficialmente interpretato, fino ad oggi, nei limiti di un’allegoria risolta in un ricco repertorio d’immagi Âni, o astratta o ermetica; e si è parlato di architettura vegetale di spunto mantegnesco e leonardesco, di gioia degli occhi e dell’intelletto, di ornamento della società eletta. Il che è esattissimo. Ma per capire il Correggio, senza fraintenderne la vera rivolta, è necessario percorrere più a fondo quel ‘labirinto’ che forma il limbo della sua arte, precisando alcuni punti: il Correggio antepone il ‘mistero’ del Âla vita al ‘problema’; mentre il problema va risolto e quando è risolto scompare, sia pure in geniale bellezza (la pittura risolutiva di Michelangelo), il mistero va sperimentato, rispettato, e anche la pittura lo propo Âne logicamente senza risolverlo, perché è in sé irresolvibile. Il mistero indica all’uomo una serie di figure e di simboli che sono in grado di ricondurlo a idee, ar Âchetipi, condizioni primigenie, dicendo all’uomo stesso: scegli la tua parte di verità . E nel Correggio, per esempio, noi possiamo scegliere la ‘grazia’; ma, atten Âzione: essa apparentemente è quella della teologia. cioè il dono soprannaturale e gratuito di Dio all’uomo per condurlo all’eterna salvezza; però, a ben guarda Âre, attraverso il pennello del pittore si trasforma nel contrario, cioè in una grazia laica, che investe gli or Âgani sensoriali più che lo spirito, e diventa diremmo ‘il dono dell’uomo, naturale e pagato col sangue a Dio’. Intendendo un sangue appassionato e non lut Âtuoso. Oltre a ciò, nel Correggio non c’è figura, terrena o divina, che lo spettatore non senta di poter possedere concretamente, attraverso un’affinità irresistibile e im Âmediata, più forte del possesso sensoriale. E basta, a questo fine, un sorriso inequivocabilmente elaborato attraverso un dolore umano di generazioni, deposto con il suo valore di sutura felice di mille piaghe sulle labbra di una figura celeste; oppure uno sguardo resi vigorosamente schietto da un qualcosa che si intuisce essere stato un amore di carne, e inserito così nel volto trionfante di un Cristo. E basta ancora meno: una go Âta illuminata di quel tanto che spinge la mano del Âl’uomo ad accarezzarla, o un seno che è così forte e fiero di sé sotto il drappeggio, perché gli si attribuisce quasi la consapevolezza di quella nudità segreta e amorosa di cui abitualmente gode. Chiediamoci ancora: fino a che punto si spia » l’autonomia morale del Correggio nei confronti di un Dio che gli servì, nelle opere, come alibi, come pretesto di forza spirituale da immettere in un gioco emi Ânentemente pagano? Fino a che punto si può parlare di un sia pur paradossale ateismo? E, saltando ad al Âtro, fino a che punto un’atavica vergogna della po Âvertà , il pudore e la coscienza di questa povertà , han Âno influito sul suo concetto del ‘bello’ così concreto, così aperto al possesso; sulla sua fantasia dolorosa, tormentata che cerca di farsi passare per ciò che non è. dal momento che la ‘visione’ correggesca acquista alto valore poetico e umano per quella tensione, evi Âdente, di ‘purificarsi’ dalla nostalgia, dal dolore, dal Âl’inquietudine, dal furore? Gli interrogativi non sono estranei tra di loro, perché ne risulta come la libertà spirituale del Correggio, che ci piace ricordare men Âtre corre a comprar terre nella ‘sua’ terra, abbia ben ramificate radici. Ci soffermeremo tra poco su queste radici, con la grande influenza esercitata dall’ambiente sull’artista, anticipando fin d’ora che tra il dipingere del maestro e il suo predisporre in sé la pittura doveva correre, in un certo qual senso, lo stesso rapporto psicologico che correva tra il suo servirsi del linguaggio popolaresco, entro i perimetri domestici, e l’uso della lingua di convenzione e di convenienza al cospetto dei canonici: ricco di sensuali furbizie e di succhi, impietoso e argu Âtamente blasfemo il primo, e aperta la seconda al raf Âfinato gusto artistico, al senso fortissimo della dignità dell’uomo, al vagheggiamento idillico che troveranno splendore e corrosione in un secolo, il Cinquecento, che raccoglie in plenitudine i frutti della vigilia uma Ânistica. Tutte queste premesse, in varia misura, si ri Âscontrano nella famosa Camera delle benedettine nel Monastero di San Paolo a Parma, finita di decorare nel 1519; e non soltanto nella concezione ed esecuzio Âne della ‘stufetta’ pagana, ma anche nella storia delle iniziative (controverse) che la consentirono. La regola delle benedettine avanzata dalla Congregazione di Santa Giustina di Padova, nel 1419, aveva acquistato maggior rigore nella riforma ‘cassinese’ nel 1504. In poche parole, negli anni in cui il Correggio la concepì e la condusse a termine, la paganeggiante stufetta ri Âsultava non solo messa in sospetto, ma proibita dalla regola dell’ordine. Da chi, dunque, vennero gli incen Âtivi e gli avvalli all’impresa del Correggio, orientata da un’arte romana che oscilla tra Raffaello e il Mi Âchelangelo della Sistina? Qualunque possa essere la risposta a questa do Âmanda, le cose non cambiano. Resta la natura sottil Âmente beffarda, naturalmente critica dell’artista verso le istituzioni, quella stessa che, legata all’istinto e all’estro, si decifra nella luce tragica e dolcissima insie Âme che il linguaggio ordinato e fantastico non riuscirà mai a spegnere in nessuna delle tele. Gli occhi del Correggio sono troppo abituati a fissare la realtà , e a servir da mezzo per cavarne il buon senso; perciò non credono negli assoluti del paradiso o dell’inferno, bensì nel calvario intermedio â— tra bellezza e pena â— del purgatorio. Siamo di fronte alla concezione dell’esistenza suffragata dall’equilibrio di un uomo che, pur dando per scontato che vengono da Dio, toc Âca le cose con il piacere di sentirne padrona la pelle delle mani. Ecco dunque che il discorso ‘dietro’ la tela dipinta si fa complesso. Come non riconoscere a que Âsta coscienza intuitiva, acuta fino allo spasimo, un po Âtere chiaroveggente sui futuri destini dell’uomo: non più eccelso (contro la corrente del tempo, categorica nel sostenere il senso fortissimo della dignità e della potenza creatrice umana), non più dannato nei tanti inferni, ma visto con la sua responsabilità di umaniz Âzarsi tra le cose? Liberarsi dai pregiudizi, esorcizzare i fantasmi, ecco ciò che il Correggio dipinge tra le ri Âghe. E anche le manifestazioni del mondo vegetale e animale riconoscono all’uomo la priorità sui fenomeni della natura, ma non ne legittimano il distacco, quello stesso distacco che era comandato nelle regole religio Âse. A suo modo francescano (ama il Cantico, ma non le privazioni), il Correggio considera superflua qua Âlunque lotta sia dentro la carne che verso i cicli: per lui, l’uomo è ancora, e sarà sempre, occupato verso se stesso, a imitare il primo atto della creazione divina, cioè a dar fiato alla propria creta, affinché il soffio perduri e la creta continui ad animarsi del calore del Âla vita. Ce lo conferma anche la biografia, sia con gli av Âvenimenti di una poco nota gioventù, sia con le aspi Ârazioni in parte deluse della maturità . Garzone del Mantegna, dai dieci ai diciassette anni, il Correggio cresce assecondato in quelle tendenze istintive (nel senso della libertà , molto più che immaginativa, ri Âspetto al contemporaneo e all’antico) che il sentimen Âtalismo religioso di un Costa o di un Francia, benché predominanti nell’ambiente emiliano, non riusciranno poi ad assopire. Ciò concorre al formarsi di quella genialità critica, sia pure a livello di temperamento più che di cultura, implicito più che esplicito, psichi Âco più che razionale, sulla quale abbiamo richiamato l’attenzione, non condividendo l’opinione che vorreb Âbe limitare l’artista in un disinteresse dei problemi che formano l’ordine conoscitivo e morale. Stiamo scrivendo, insomma, a favore di una ‘coscienza’ del Correggio, le cui controversie e i cui slanci sono stati del tutto oscurati in bellezza dalla celeste capacità di creare per gli occhi; quasi che il pittore fosse storica Âmente predestinato a dissolvere in sé l’uomo e il suo ambiente. Dibattuta fra tenerezza (quella delle ‘cante’ popo Âlari, epico-liriche) e violenza, tra gaudium vitae e una drammatica avversione al sopruso dei potenti e delle istituzioni, Parma conquista dapprima la solitu Âdine del Correggio, e poi la sua vocazione alla fami Âglia, agli affetti domestici: solo nel 1523, infatti, cioè al termine dei lavori nella cupola di San Giovanni, il maestro trasferisce i familiari nella zona prossima al Âl’abbazia benedettina. Ciò nonostante, pur amichevole e ricca di identità psicologiche, la città rimane sempre una seconda patria, per non dire la terra del piccolo esilio, la piccola capitale di transito in attesa della grande capitale dello spirito (Roma), e ciò è dimo Âstrato dai viaggi ‘d’affari’ che il Correggio compie tor Ânando nelle zone d’origine con le tasche piene di soldi freschi di guadagno. Il Correggio investe in terreni. Sia per sentirsi concretamente legato alle proprie ra Âdici, da cui l’arte lo allontana, sia per sentirsi padro Âne. Egli crede nel “tanti, quantum habeas, sis”, cioè nel detto oraziano secondo il quale l’essere sta nell’a Âvere, applicandolo sui due fronti del rito pittorico e del rito agrario, con la duplice ambizione d’essere ce Âlebrato e ricco. Da buon padano, egli sa che il miglior sistema per difendersi dalle insidie immancabili nelle lusinghe dei potenti, siano questi ecclesiastici o laici (ma gli alti prelati lo deluderanno assai più spesso), è di coprirsi le spalle con un po’ di buona terra, quella che non lascia morire di fame, in ogni caso. Egli impa Âra così a distinguere il giusto verde di una pianta entra Âta in fecondità , non soltanto con l’occhio del pittore, ma anche con quello del contadino; così come assapora, in loco, quella salubre e agreste religiosità che acqui Âsta ancor più spessore sulla tela, quando la carne vie Âne chiamata dalla luce, come il volo dell’insetto dalla candida polpa della lampada. Diversi sono i viaggi memorabili che registrano il ritorno dell’Allegri a Correggio, con la borsa pronta ad divitias: nel 1530 e nel 1533, per non parlare degli atti notarili del 1513 dai quali possiamo figurarci l’artista pignolo sulle clausole e agguerrito sul soldo. Ha dunque ragione chi sostiene che, nella bottega del Mantegna, si apprende Âva non soltanto la magia del colore, ma anche a esse Âre taccagni ed eroici più per se stessi (a suo modo, il Correggio lo fu nella strategia delle sue ambizioni) che per gli altri. Con la stessa abilità con cui predisponeva i suoi contratti d’acquisto, infatti, il pittore si procurava i salvacondotti per togliersi da guerre e guerricciole che infestavano l’aria. Riuscì persino a procurarsi un certificato che lo trasformava in oblato benedettino: definitivamente immune da ogni preoc Âcupazione di ordine guerresco, trionfasse o meno il commissario governativo apostolico. Questo l’uomo. con la saggezza della formica e le furbizie di chi noi: s’impiccia. Il resto, cioè il partecipare ai tempi, in quel perimetro che non coincide con gli interessi per Âsonali, era un’arguzia anche un po’ pazza coltivata ai limiti dell’egoismo; era lo spirito beffardo che cova sotto la scorza della prudenza contadina. Parma e Correggio, dunque, uno scambio di salu Âte popolare, implicante passione, di sapore di vita vis Âsuta nelle strade, non nelle scuole. L’andarsene da Parma rientrava esclusivamente nell’ambizione artisti Âca, e ne era lo scotto; il Correggio sapeva benissimo che se il suo ingegno fosse “stato a Roma, avrebbe fatto miracoli, e dato delle fatiche a molti che nel suo tempo furon tenuti grandi” (parole del Vasari), per Âciò egli attendeva il suo momento, e cercava di favo Ârirlo, con una costanza che a ben guardare era fiducia di sé: e addirittura pacifica superbia, quella che non gli aveva mai fatto difetto, nemmeno nei primi mo Âmenti, in virtù di quell’eccezionale salute artistica di cui s’è detto. A Roma, il Correggio era già stato nel Âl’anno 1518, e le pagine del Longhi su questo viaggio, compiuto nella maturità della giovinezza, cioè a ven Âtinove anni, riescono medianicamente a distinguere, nella sete di conoscenza dell’artista, l’avidità di ci Âche è affine e il rifiuto del resto: non esistono compro Âmessi o incertezze, tanto meno il dubbio dell’arte: esi Âste soltanto ciò che di ‘correggesco’ il genio umano ha dipinto. E non è un paradosso. Ma una riprova, anzi la prova del nove di come l’artista riuscisse a vedere la storia, e gli uomini, soltanto con il terzo occhio del Âla sua pittura. Il Correggio visita le Stanze e la Sistina, e il Longhi â— creando un itinerario del probabile, e cogliendone la magia – ipotizza anche una visita all’abside del bramantesco forlivese Melozzo, ai Santi Apostoli, e un’altra ancora alla cupoletta perduta che il Mantegna aveva affrescato in Vaticano, nel 1490, entro la cappella di Innocenze VIII. L’avventura romana si completa con queste due annotazioni, sempre longhiane: “Non è arbitrio critico chiamare padroni diretti della Camera di San Paoli. le finte statue e i finti bassorilievi, quasi di cera fu Âmante, nell’aula bramantesca della Scuola d’Atene e le scene antiche nell’alto zoccolo decorativo sottostante al Parnaso”; e più oltre, in un inciso: “‘Correggio c’est ma femme!’, avrebbe potuto esclamare Michelangelo come Picasso di un suo strenuo fiancheggiato Âre”. In poche parole, Roma resta nel sangue dell’arti Âsta, che si sente predestinato alle sue glorie (e non a sproposito, in quanto le sfiorerà ). Nell’autunno del 1522, i fabbricieri stipulano un contratto con Antonio Allegri per affrescare la cupola, il coro e l’abside maggiore; ma dietro la contrattazione c’è quel cardinal Farnese, grande estimatore dell’artista, che stando ai calcoli avrebbe dovuto consentire la celebrazione mondana dell’ex allievo del Mantegna. I calcoli erano semplici. Il cardinale, prima o poi, sarebbe stato elet Âto papa, e si sarebbe ricordato dei suoi protetti in ar Âte; il che puntualmente avvenne, ma con un ritardo di duecentoventiquattro giorni. Il Correggio muore il 3 marzo del 1534, e duecentoventiquattro giorni dopo Alessandro Farnese sale al soglio pontificio, con il no Âme di Paolo III. Un soffio, un’amara beffa della storia. Tanto più che il ‘posto’ che in pectore avrebbe dovuto essere del Correggio lo occupa Michelangelo, eletto pittore, scultore e architetto del Palazzo Vatica Âno; resta a noi la consolazione di veder smentita, in questo caso, la frase di Picasso applicata dal Longhi. “Mors tua, vita mea”, ed è una conclusione non dif Âforme dallo spirito con cui l’artista “dall’indole tenerissima, dalla grazia retrattile e concava”, ma anche “dal fascino demonico, dalla smaliziata ilarità ” (tutti giudizi dati da storici e critici), prendeva le cose della vita, soprattutto a Parma. Ed era fatale che, a Parma, Antonio Allegri lascias Âse la Cupola del Duomo, che abbiamo sempre consi Âderato il suo testamento per emozioni, cioè il cantico alzato sul misterioso confine dove l’uomo è ancora protagonista della propria carne e già protagonista del proprio sogno: si produca quest’ultimo in gloria celeste o piuttosto in un delirio biologico dei sensi. Al Correggio che dipingeva la guancia della Vergine, appoggiata al corpo del Cristo con un dolore che non può altro che aspirare all’ultraterreno del paradiso, poiché rappresenta un’estrema conclusione terrena, si sostituisce l’altro Correggio, che sa portare la Madda Âlena a sfiorare il Bambino, con una dolente adorazione che aspira, invece, più alla terra che al ciclo, in quan Âto il dolore non è umanamente fine o condanna defi Ânitiva, ma il primo segno del recupero della coscien Âza: apertura ad altri sentimenti che verranno, ad al Âtre umane speranze. Il Correggio abbandonerà l’ope Âra nel novembre del 1530, ma dalla statica corona de Âsii Apostoli all’espansione efebica alla corona suprema degli angeli, lo spazio geniale è ben sufficiente a rispecchiare la sintesi sia della singola vita dell’artista, con il suo mistero biologico e le sue seduzioni orfiche intercomunicanti, sia della vita di un intero secolo, con l’aspirazione del secolo precedente ad un sereno equilibrio di concetti e di forme, di spirito e di mate Âria, che giunge ai presupposti di una civiltà nuova, del tutto umana e mondana. In Pictures from Italy, del 1846, Charles Dickens si lagna dello spettacolo penoso fornito dai capolavori correggeschi della Cattedrale, rileva l’odore degli af Âfreschi imputriditi sulla cupola, e conclude: “I cono Âscitori ne sono entusiasti anche oggi: per me però un labirinto di membra dipinte in scorcio, intricate fra di loro, involute e mescolate confusamente è ciò che nes Âsun chirurgo impazzito potrebbe immaginare nel pa Ârossismo del delirio”. Un’affermazione che, con la sua superficialità , ci è tornata in mente parecchie volte nella nostra adolescenza, mentre constatavamo il contrario, dirigendoci verso il coro e guardando esplo Âdere le figure dagli archi con la potenza â— ordinata nella luce vera e non più supposta – con cui un cieco miracolato afferra, cadendogli la tenebra dagli occhi, il primo spettacolo della vita. Lo scorcio è questo, e questo il fluido del chiaroscuro: dell’occhio umano che non contempla (e non deve contemplare) ma, in uri istante di esplosione dei confini terreni in un’immen Âsità ed eternità celesti, ‘perfora’, sotto una spinta so Âvrumana che non gli sarà mai più concessa, i terreni proibiti (che pure gli spetterebbero di diritto, appar Âtenendo a Dio). Ecco, dunque. È l’uomo in causa, con la sua ottica medianica, e il fenomeno si produce dalla terra, non dal ciclo, da chi aspira, non da chi trionfa. Il che apre, di fronte al Correggio, il sospetto che il suo istinto, capace di attraversare in pura sen Âsibilità i secoli nei due sensi del passato e del futuro, abbia preavvertito la grande avventura dell’incon Âscio: ossia, e ci si perdoni il gioco di parole, il con Âtrappunto umanamente divinatorio al divino. C’è infine un’annotazione, dell’abbè Barthélemy, in Voyage en Italie (1755-57), che ci piace inserire in conclusione: “… quello della Maddalena è il mo Âdello più perfetto. Non so dove i pittori abbiano de Âsunto che questa santa fu così bella. In un tempo in cui si confondeva con la peccatrice, si sarebbe cre Âduto che tutte le donne di vita cattiva fossero belle? No certamente; ma i pittori sono stati ben felici di trovare per i soggetti sacri una donna che riunisce in sé le perfezioni della bellezza”. L’ingenuo interrogarsi, intorno alla celebre figura bionda, investe bene, anche se inconsapevolmente, le corde segrete della femminilità che l’Allegri ha saputo evocare, non già dalle femminee intuizioni, ma dal contrario: diremmo dalla virilità deambulante, e pronta ad accendersi al colpo d’occhio, di chi, in ore di pigra luce, si perde per le strade (o per i borghi di Parma!) aspettando di vedersele passare di fianco, verso misteriose destina Âzioni, o camminare davanti, le ragazze e le donne: reali fin che dura il suono dei loro passi, il loro movi Âmento registrato in luce di pelle e in segretezze di abi Âto, e tormentose quando non ci sono più e i sensi tol Âgono alla retina il materiale visivo del giorno, divo Ârandolo a poco a poco, e lasciando alla fine il vuoto di ciò che non si è avuto. A parte ciò, la donna correggesca coincide con al Âcune condizioni che ce la rendono modernissima: con la libertà , innanzi tutto, per cui non è succuba di nul Âla, nemmeno del pregiudizio religioso; con quel socie Âvole conforto che ne fa una compagna spiritualmente generatrice e non un oggetto di possesso o di disputa morale; con una plenitudine di sangue, quasi da sta Âgione solare o da imminente regola naturale, che la fa irresistibilmente madre, ma dopo essere stata amanti e compagna: tutta predisposta al concepimento in peccato. Nella donna, il Correggio conclude la sua profezia sulle “magnifiche sorti e progressive” della storia, dove spiritualità e natura si fondono, non nei rispetto dei modelli culturali resi classici o da rendere tali, ma nella riaffermazione dell’integrità umana se Âzionata dalle dottrine e dalle approssimazioni intellettualistiche, nel ripristino di una confidenza col mondo resa nevrotica dalle false tensioni. È così che l’umanità , raggiungendo uno stato di purezza, raccoglie in sé tut Âte le sue energie, tutti i poteri di cui sa disporre – dalla saldezza fisiologica alla bellezza all’infinitesima percezione oculare â— per protendersi, al massimo di sé, verso i nuovi destini che le saranno rivelati. Verso le successive conquiste della ragione che, grazie a que Âsta sana coscienza, potranno seguire le leggi scritte, o dipinte, nelle volte cosmiche. E nulla distrae l’occhio del Correggio da una simi Âle visione della verità creata, che è necessario ogni volta mettere a fuoco e purificare dagli inquinamenti provocati dall’uomo servo dei suoi fantasmi, affinché torni a essere verità . Letto 2552 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||