PITTURA: Dal quadro al racconto: Il baro con l’asso di fiori (1a parte)
23 Dicembre 2007
racconto di Lucetta Frisa
[Gli ultimi libri di poesie pubblicati da Lucetta Frisa sono: “L’altra”, Manni, 2001 e “Se fossimo immortali”, Joker, 2006]
1
Dei miei denari di stanotte non so cos’è rimasto. Non li conto mai. Li faccio ballare nella manica – quella senza buchi – e mi prende la voglia irresistibile di lanciarli in aria, per acchiapparli al volo molte volte, sempre più veloce, mentre dalla bocca mi escono fiotti di parole senza senso.
Ecco applausi e risate – li aspettavo – e dopo qualcuno del pubblico resta a fissarmi per un po’a bocca aperta.
Da queste quattro assi marcite, tirate su in un baleno tutte le mattine di mercato – pochi chiodi, qualche martellata e via -, faccio quello che mi pare.
Sono stati degli attori e saltimbanchi di passaggio a invitarmi nei loro spettacoli (qualcuno di loro si è ammalato o morto, non ricordo, e la mia stravaganza gli era già nota, dicono) e a volte mi capita di seguirli anche per i paesi rivieraschi, quando viene la bella stagione e non ho altro da fare. E in questi spettacoli, una parte per me si trova sempre: guastafeste di matrimoni male o bene assortiti, servo furbo o scemo che combina e scombina trame di destini.
Incuriosito, il pubblico fa cerchio: commosso o sghignazzante alle battute che sa quasi a memoria, rumoreggia e applaude alle vecchie come alle nuove pantomime. Ma bisogna sempre incantarlo, scuoterlo, travolgerlo: è un bambino a cui si mostra un meraviglioso gioco senza mai svelargli i trucchi : perché il mistero lo abbiamo in mano noi, da questa parte dello specchio e lui deve restarci imprigionato, ma senza mai entrarci. Chi si divertirebbe, altrimenti? È una regola per tutti – sottintesa tra chi recita e chi osserva.
Stamattina splende un sole da fine primavera e un vento impetuoso e salato si ingorga nelle gole di noi guitti, si porta via finti sospiri, finti amori, finti imbrogli. Contro il suo sabotaggio non c’è che l’enfasi: guance che si gonfiano come rane, occhi che roteano come bilie, voci da orchi in calore, gesti enfatici il cui senso sfugge sia a chi li compie sia a chi li sta a guardare. I capitomboli dei saltimbanchi, gli scherzi dei mimi muti, le buffe passeggiate dei cani e delle scimmie ammaestrate, in giorni di vento come questi, riscuotono i maggiori apprezzamenti. I nostri costumi di scena, miseri stracci colorati, drappeggiati addosso con la presuntuosa ricchezza della fantasia, sbattono da tutte le parti e si sfilacciano, si strappano in modo irreparabile. Tutto vola e svolazza sotto la furia delle raffiche: scialli, tappeti, tuniche, mèzzari, lenzuola, appesi in mostra sulle nostre corde e su quelle dei banchi dei bazar, e c’è chi ride solo di questo e se ne infischia delle nostre guitterie.
La tramontana si porta via anche le mie poche monete, chissà dove. Sarei matto a frugare tra quelle gambe di ladri, mendicanti, fantesche, girovaghi, monelli e onest’uomini, con le loro risa sgangherate, al di là delle stuoie e dei banchi. Con qualche soldo in meno e qualche strappo in più, resto sempre un uomo libero.
Ieri sera ha attraccato al molo un enorme vascello, quasi una nave ammiraglia. All’alba, dal mio angolo di vedetta, l’ho visto scaricare ogni ben di Dio. I mercati si sono accampati nel vicolo riservato ai viaggiatori delle Indie: è già affollatissimo, affari d’oro. Ma i marinai della nave, sfaccendati e ubriachi chissà da quando, caracollano tra la folla attaccando discorso e lite con tutti; s’azzuffano per una mosca che vola, per una gonna furtiva in cui fingono d’inciamparsi e si inciampano invece nel protettore della gonna : padre, marito, fratello o amante. “I miei rispetti, madamigella” e qualcuno finisce a terra a rotolarsi insieme agli orci, con cocci e contenuto. So che loro sono qui solo per far confusione e dimenticarsi. E io sono qui, pronto a servirli.
Questo sole misto al vento sulla pelle e sugli occhi – che tengo sempre a fessura anche quando il sole non c’è – mi trasmette un’inquietudine inspiegabile, che voglio annegare nel vino. Salto giù dalla pedana con una piroetta, lasciando dietro di me ingenui stupori e ammirati rimpianti e corro alla taverna qui, davanti al porto. L’ebbrezza del vino si mescola all’abbagliante spuma marina che elettrizza i nervi, ipnotizza lo sguardo e ci fa sentire più vivi che mai.
Mentre sono in piacevole compagnia del mio fedele amico Bacco, una raffica più forte delle altre trascina e confonde ogni cosa: sete aristocratiche, cipolle plebee, boccali di peltro e frittelle sfrigolanti, pizzi pregiati per dame clandestine (di cui giungono, in incognito, le loro serve spocchiose) erbette varie, frutta, lattughe freschissime: strappa i damaschi stesi ad asciugare sulle altane come i panni rattoppati nei vicoli, solleva le sottane alle carnose mercantesse, pronte ad assaporare il mio fugace pizzicotto, mentre i gatti, che annusano nel vento il pesce, miagolando impazziti, corrono qui a schiere.
Bevo tranquillo il mio vino al riparo dei portici, è aspro, ma buono.
In quella confusione, una bambina si avventura nella piazza, tra raffiche e spintoni. In mano regge un piccolo orcio di vetro dove sguazza un pesce rosso. Avrà otto, nove anni. Ma perché è sola? Il visetto è tondo come l’orcio e con quella boccuccia, che si morsica nello sforzo di non fare traboccare l’acqua, assomiglia al suo pesce. A quell’età, io, i pesci dovevo acchiapparli con le mani lungo le sponde di Salerno, assieme a mio padre. Più ne acchiappavo e meno si moriva di fame. I pesci li odiavo, scappavano sempre. Mi viene voglia di rubarglielo, quel ninnolo. Mi tuffo nella mischia e….via! vaso e pesce sono ora nelle mie mani e la bambina è lì, a bocca aperta, strilla disperata senza capire. Una breve giravolta e una tiratina di riccioli “Madamigella, – dico – ho acciuffato il ladro e mi son fatto restituire il mal tolto”. La bambina è frastornata, gli occhi più tondi di quelli del pesce e le guance rosse, è ancora incerta su cosa replicare che io, con un balzo, già me ne torno in taverna. Voglio ancora del vino. Ma ecco, il berretto mi vola via, maledetto vento: questa volta non posso lasciar perdere. Mostrerei a tutti i primi capelli grigi e avere un’età non mi è mai piaciuto.
Il mio berretto dov’è finito? Un ragazzo lo sta raccogliendo. Ha l’aria impacciata ma è vestito con ricercatezza: corsetto di velluto verde scuro, camicia di seta, gambali di fine capretto, spadino. Forse un forestiero o uno di quei giovani di famiglia benestante che vengono al mercato per la prima volta a caccia di emozioni. Ha strani occhi incolori, guance rosate, naso minuto, una barba quasi inesistente: tiene stretta a sé la mantellina e ora si guarda in giro, col mio berretto in mano, in cerca del proprietario. Le mie “Signore della Notte” sarebbero felici se glielo presentassi…
– Eccomi – gli grido alzando il braccio – e grazie per la vostra premurosa cortesia, signore.
Il ragazzo mi guarda trasognato. Indubbiamente, regge sotto il braccio una borsa gonfia di monete.
Ho la netta percezione che siano passate le nove, perché l’ombra del Palazzo del Comune comincia ad allungarsi sul banco dello speziale. A quell’ora sempre ho un appuntamento all’incrocio tra il Vicolo dell’Anatra e quello della Buona Ventura. Lì, lo starnazzare dei volatili trasportati giù all’alba da qualche campagnolo dell’entroterra, fa da controcanto alle voci sommesse ma prepotenti delle zingare che leggono le mani agli allocchi per poche monete, prevedendo sempre fortune smisurate e immani tragedie.
Un po’ più in là, trattengo i miei traffici con certi amici: è il gioco della morra e devo affrettarmi perché dopo un po’c’è il solito furbo che comincia a capire e vuole chiamare gli sbirri. Perciò schizzo dall’altra parte della piazza, a carponi sotto i banchi del mercato, dietro l’ombra di qualche corpacciuto pescivendolo che fa finta di niente, fin là dove ha inizio la salita delle Rondini (così chiamata perché, ripida com’è, resta luogo privilegiato degli uccelli per nascondersi e nidificare) e una volta lassù, unirmi a un altro gruppo clandestino che mi attende per il gioco delle tre tavolette.
– Di nulla. – mi risponde la vocina incerta del ragazzo – Anzi, approfitto di questo incontro fortuito e fortunato per chiedervi un favore, signore. – prosegue, arrossendo – Sapreste indicarmi il Vicolo della Buona Ventura?
-Vogliate seguirmi, vi prego. Ci sto andando anch’io.
E quello dietro, come un cane dietro al padrone.
Eccoci arrivati sul luogo dei delitti, e mentre la Carmen e la Zobeide lo circondano sinuosamente, una da un lato e una dall’altro, con le loro vesti fruscianti che san di selvatico, io strizzo l’occhio ai compagni indicando col mento il “pollo” e il resto viene da sé. Il signorino, tutto rapito dalle favole di quelle due diavolesse, si fa subito sedurre dal gioco della morra che impara in un batter d’occhio. Si diverte e si rincuora. Alla fine gli facciamo perdere solo qualche soldo: è il solito trucco perché ci torni presto tra le grinfie e dopo, spennarlo. A un tratto annuncio alla bella compagnia di avere un altro impegno e mi congedo in fretta.
– Amico! – grida lui, rincorrendomi – So di essere invadente, perdonatemi ma…permettete che vi segua?
Io non chiedo di meglio. E così insieme a perdifiato su quella salita dove in cima ci aspetta un tavolo con quattro seggioline e intorno vociferanti e sudati, i marinai della nave approdata ieri. A quell’ora del giorno ci favorisce molto il controluce oltre alla complicità di un pennuto petulante, appollaiato sul balcone di una mezzana che, dietro compenso, gli ha insegnato a dire, tra un fischio e l’altro “Bravo che vinci” e “Scemo che perdi” e fa un chiasso da impazzire. Di solito, i clienti, assordati dal merlo, mezzo accecati dal sole e con gli occhi torturati dalla sabbia come oggi che il tempo è ventoso, ci danno grosse soddisfazioni.
Tra i marinai, c’è un piccolo mozzo col piede fasciato: se l’è mezzo rotto scivolando giù da una sartìa mentre era di guardia. Notti intere, a guardare il mare nero e vuoto, per sopravvivere.
A quella stessa età – dodici, tredici anni – io ero paggio al servizio di una duchessa pisana. Convocava gli amici col pretesto della conversazione salace, per poi obbligarli, con maniere suadenti, a interminabili partite a carte. Dovevo starle accanto in piedi, per tutta la notte fino allo spuntare dell’alba, pronto ad obbedire ai suoi capricci e a quelle dei suoi ospiti, e in tutto quel tempo non potevo fare a meno di fissare ipnotizzato il tavolo da gioco, il bianco sfavillante delle carte e i colori ammalianti delle loro figure. Ho imparato tutti i giochi, spiato migliaia di mosse e combinazioni, gli impercettibili segnali d’intesa tra i giocatori e appreso l’atteggiamento impassibile di chi vede il gioco infiammarsi e le proprie fortune, in un lampo, andare in cenere.
Ma ora gli amici si accorgono del mio elegante e trafelato giovanotto, e dopo un magistrale giro di sguardi, decidono di trascurare quei marinai non troppo imbottiti di danaro, per rivolgere la loro attenzione solo a lui. Che gioca e vince continuamente e non sta più nella pelle dalla gioia. In uno slancio ci regala uno scudo d’argento ciascuno e, in preda a una incontrollabile emozione, mi dice:
-Mille volte grazie, signore. In vita mia, giuro di non essermi mai divertito tanto.
– Messere – ribatto io, cogliendo la palla al balzo – se amate questo genere di svago dove avete dimostrato particolare abilità, saprei io dove condurvi.
– Adesso? – chiede lui, già trepidante.
– Abbiate un po’ di pazienza. Potrebbe essere stasera, se non avete altri impegni. Vedete laggiù quel palazzo rosa, con fregi chiari e due altane a levante, piene di fiori? Vi abitano due dame, maestre in grazia e ingegno. Sanno intrattenere meglio di chiunque altra donna, gente del vostro rango e della vostra sensibilità.
– Quando potrei avere il piacere di incontrarle? – mi chiede lui, in affanno.
– L’appuntamento… potrebbe convenirsi per le dieci. Ci sarete?
Intanto il vento comincia a calare. Attori e saltimbanchi se ne sono andati. I mercanti, lentamente, raccolgono le loro merci, le ripongono in grandi cassapanche o in ceste di giunco sottile. Indugiano gli erbaioli, i pizzicagnoli, i venditori di frisceu e dolci vari, per le fantesche dell’ultimo minuto coi loro bambini perennemente in lacrime e affamati. Qualcuno mi ha chiamato per controllare i conti (è uno dei miei tanti mestieri) e presto mi immergerò negli enigmi dei numeri.
A un tratto, mani leggere mi coprono gli occhi, un respiro, un piccolo morso sul collo. È Caterina, la più allegra e giocosa delle mie ragazze che non a caso ama il vento come me e lo aspetta per correre sulla spiaggia incontro alle onde, a ridere e abbracciarmi. E dopo, andarcene alla taverna mano nella mano guardandoci ancora ridendo, ridendo ancora quando saremo davanti ai nostri boccali di vino, senza dirci una partola.
Il mio giovanotto mi sta osservando con ammirazione, riconoscenza, quasi affetto. Ma sempre un po’ perplesso come non fosse del tutto sicuro di quello che fa e dove si trova. E mi bisbiglia, facendosi coraggio per una decisione così insolita per lui:
-Verrò alle dieci, allora. Ci incontreremo davanti al portone del palazzo rosa – e, di nascosto, mi sfiora addirittura la mano. La mano a me? Uno come lui sfiora la mano a uno come me? Mi fa rabbia e tenerezza.
Caterina mi trascina via quasi danzando perché – dice – ha preparato la minestra al basilico che mi aspetta a casa, ancora calda. I suoi occhi ardono di una luce nera.
So che mi attendono insieme due delizie: la sua minestra densa e saporita e il suo corpo bianco e fresco. Non me lo faccio ripetere: sparisco dalla scena, lasciando in mezzo alla polvere di un mercato in disarmo, un bel giovanotto col copricapo in mano, un po’ sudaticcio e l’aria stralunata.
2
Nell’aria della notte fiuto l’alga marina. Forse domani la tramontana si muterà in scirocco spingendo i gabbiani ansiosi sulle spiagge, il cielo si abbasserà e così il respiro, rivelando gli odori del mare e della terra. E del corpo il peso. Mi sento stanco, non capisco perché. Oggi Caterina mi ha detto di amarmi e io non ho risposto. Per la prima volta l’ho vista piangere.
Venere è alta sul palazzo rosa, proprio sulla torretta: sono già le dieci. Se è vero che il cielo è specchio della terra, noi bruciamo in una doppia fiamma, su uno stesso teatro, ma con diverso ritmo. Lentissimo quello delle stelle, breve e convulso il nostro. Cielo e terra : spettatori l’uno dell’altra. C’è un senso a questo? Il silenzio notturno è un cranio verminoso. Le immagini del giorno, un brulichio di vermi. La notte mi fa filosofo, e filosofeggiando su questo e su quello, finisco per annegare la mia filosofia nel vuoto e nel vino.
Dei passi, finalmente. È il ragazzo che arriva di corsa e spero che tutta questa faccenda non vada per le lunghe. Ma ormai “le signore” ci attendono e la commedia deve cominciare. Lui è di poche parole e neanch’io ho tanta voglia di conversazione. Ci addentriamo nel labirinto dei vicoli, nel puzzo di piscio dei gatti, nel trionfo di tutte le puzze e gli odori del mondo.
Busso i tre colpi convenuti e dopo poco, il portone si socchiude. C’è tanto buio che non riconosco chi ha aperto. Uno spettro? Traversiamo due cortili cimiteriali. Lo spettro, una specie di fagotto senza volto, ci precede sugli scaloni appena rischiarati da fioche candele che rivelano, tremando, volti cadaverici : dipinti di antichi avi, forse acquistati a buon prezzo in qualche bottega. E infine, la tenda viola si solleva, il fagotto senza volto sparisce e appare Elisabetta. Giovane, labbra carnose e pelle di seta, regge un piccolo candeliere che le illumina il volto: è bella, lei lo sa. Ci introdurrà nella sala del rito, dopo un androne saturo di muffe e ancora scale e corridoi stretti, sempre più stretti. Di lontano, una luce filtra insieme al suono dolciastro di un liuto. È la grande Signora che si prepara per la cerimonia: mentre Elisabetta comincia a cantare : una delle loro malìe che conosco bene.
Se poteste, signor, con l’occhio interno
trar i segreti del mio core…
– Gli altri ospiti? – chiede d’un tratto il ragazzo, guardandosi in giro come se si scuotesse dal sonno.
– Non c’è nessun altro, signore. La Signora ha deciso che, un nobile come voi, meriti di aver dedicata l’intera serata. Faremo del nostro meglio perché sia di vostro gradimento – fa la giovane con voce musicale, sfiorando il “mio” ragazzo con le sue braccia nude. Poi delicatamente gli prende la mano come si raccoglie un gioiello.
– Che mano delicata – sussurra – e mi hanno riferito che è molto abile al gioco.
– Non ho dimestichezza con le carte – risponde il ragazzo, quasi trasalendo.
– Imparerete presto, vedrete, con un eccellente maestro com’è lui – mi indica con un cenno del mento, e ammiccando con grazia irresistibile le sfugge un risolino.
Intanto siamo arrivati.
La Signora è là, avvolta nei suoi immensi scialli, gli occhi scattanti e torvi, l’acconciatura all’orientale di damasco rosso dove al centro brillano due grossi diamanti. Sono falsi, lei non lo sa e io sì : glieli ho venduti io. La sala è semibuia ma agli angoli i candelieri gettano sapientemente lunghe ombre, confondono i contorni, accendono la fantasia. Così non si notano le toppe dei divani polverosi, i cuscini di seta lisa, i ricami sdruciti, le pareti macchiate dai disegni dell’umidità, i tappeti resi incolori dal tempo. Povero ragazzo, non si accorge di nulla. Guarda le due donne, in estasi. La grande Signora continua a suonare il liuto e a fissarlo con occhi ferini mentre Elisabetta, cantando, gli porge un intruglio color ambra.
Se poteste, signor, con l’occhio interno
penetrar i segreti del mio core… (1)
Gli accarezza i capelli appena ondulati, e poi le rade piume sul mento di un piumaggio ancora incerto. Lui, incredulo e incantato, si lascia fare. Socchiude gli occhi dal piacere.
– Vorrei insegnarvi, se non vi dispiace, un facile gioco di carte, signore – sono io che intervengo, ma sento spegnersi in gola la mia voce falsa- oppure preferite i dadi?
Ansia e smarrimento attraversano gli occhi del ragazzo.
– State sereno, queste gentili dame non desiderano nulla da voi, solo intrattenersi un po’ con un giovane educato e di talento. È un piacere raro di questi tempi.
Ancora menzogne, ma sono qui per questo.
Elisabetta riprende a cantare:
Quel disir che fu già caldo ed ardente
a bellezza seguir fugace e frale… (2)
La grande Signora con un gesto secco, depone il liuto nelle mani della ragazza e con un altro chiede da bere anche lei.
– Come vi chiamate, cortese signore? Siete giovane e aggraziato e di famiglia altolocata, senza dubbio.
Sono le prime parole che proferisce. Hanno un tono lievemente inquisitorio, roco, scandisce bene le sillabe e gli incute soggezione. Lui stenta a sostenere lo sguardo e a rispondere con disinvoltura. Mi guarda come a invocare soccorso.
Comincio a mescolare il mazzo e gli illustro il gioco nei dettagli e nei trucchi (di quelli noti a tutti, naturalmente) mentre la Signora continua a bere a piccoli sorsi e nel chiaroscuro le pietre che le inanellano le dita mandano guizzi sinistri. Si tocca nervosamente la lunga collana di perle (finte anche quelle) e Elisabetta inizia un discorso qualunque – è un’attrice spiritosa lei, sa rompere l’impaccio e ride. Perché non mi sono mai accorto che assomiglia a Caterina? Ma Caterina non è schiava di nessuno e chiede solo amore, nient’altro.
Poi un’ombra morbida striscia tra le gambe: si acquatta ai piedi della Signora e si immobilizza lasciando correre solo uno sguardo quieto e buio. È il cane che da anni le tiene compagnia, senza più età, ormai, e lei gli passa le mani sul collo meccanicamente.
Faccio fare due “mani” al ragazzo. Impara subito. Perché è così bravo? Ha il gioco nel sangue come me.
– Bene, ora che il nostro giovane amico ha imparato con tanta facilità, perché non provare a giocare tutti insieme?-interviene la Signora, ed è un ordine.
La cerimonia ha inizio. Tra noi non ci guardiamo neppure perché l’accordo è che, nella prima fase del gioco, l’invitato deve vincere. La posta non è alta e questo serve a rassicurarlo mentre la Signora continua ad accarezzare il cane e a mantenere alto il livello della conversazione: pettegolezzi d’alto rango, pittori alla moda che dipingono per grandi famiglie di mercanti e ammiragli, cronache di antiche partite consumate qui tra questi lugubri muri, con dame argute e cavalieri espertissimi, fortunati e no, ma sempre proprietari di ingenti patrimoni.
Intanto viene offerto il secondo intruglio, meno raffinato del primo, si capisce, di un colore indefinito, più denso, che però ottiene il suo effetto.
A che punto del cielo sarà Venere, ora? E il vento di scirocco comincerà a soffiare con il suo fiato greve, sconfiggendo la limpida tramontana?
Mescolo le carte mentre avverto su di me la freccia aguzza dello sguardo della Signora, quella più lieve ma altrettanto acuta di Elisabetta, che ora si è mezzo slacciata il corsetto con la scusa che è caldo e si siede proprio accanto al candeliere: la pelle del seno trabocca, le labbra avvampano, l’acconciatura si allenta, lasciando liberi sul collo e la fronte, dei riccioli dai riflessi rossi.
E la commedia prosegue con assoluta, puntuale perfezione: è troppo facile recitarla per costui che ha appena imparato da me e io fingo di aiutarlo a vincere “contro” le donne alleate. Il giro d’occhiate continua, il ragazzo è concentrato sulle sue carte e non se ne accorge, lo facciamo vincere diverse volte tra complimenti e lusinghe, ma poi il finale deve compiersi nei modi pattuiti: alziamo pian piano la posta, finché la borsa del ragazzo passa nelle lunghe mani della grande Signora che non carezzano più il cane ma il bel capretto vellutato della borsa. Eccola che sorride, mostrando tutti i denti : smorfia, non più mascherata, di un teschio.
Una stanchezza indefinibile si impadronisce di me, intorpidisce le membra e il cervello. Vorrei dormire lontano da qui, su qualche scoglio nel mare o tra le braccia di Caterina, sotto i portici ariosi di questo quartiere del porto.
Sarebbe giunto il momento dei commiati, dopo altre pesanti libagioni e lascive carezze; l’invitato, per bene alleggerito, dovrebbe andarsene per sempre, sparire nelle buie quinte della notte.
Ma io, non so perché, riprendo in mano le carte e dico ad alta voce, rivolgendomi a lui:
– Un’ultima partita, signore? Mi sembra di intuire che anche le gentili dame, nostre ospiti, sono d’accordo a riprendere il gioco…
Scompiglio nelle occhiate. La Signora, furiosa, mi fulmina.
– Essendo l’ora inoltrata, forse per il nostro giovane amico, sarebbe più consigliabile che…
Controlla a fatica un fremito impercettibile che la scuote tutta. Ma non riesce a terminare la frase, perché il mio gesto è inequivocabile e poi la guardo con l’occhio complice e infido a lei familiare. Cade nella mia trappola e si rabbonisce. Anche Elisabetta ricomincia a ridere, si ricompone i riccioli, dice motti di spirito. Non so dove mi porterà questa mia iniziativa. Di sicuro a congedarmi per sempre dalla parte di danaro che mi spetta, un guadagno sicuro su cui faccio conto ormai da molto tempo.
Il ragazzo, pallidissimo, esita, ora diffida di tutto, ma una mia occhiata – intensa, eloquente e ben diversa dalle altre – riesce a fugargli i dubbi e le incombenti lacrime.
Prima avevamo vinto con i denari, le signore e me, barato con l’asso, ma anche senza quello, lui avrebbe perso ugualmente la partita.
Com’è diventato abile ora, sta giocando da maestro e non mi guarda più. La sbronza gli è passata? Ha l’occhio freddo, il gesto misurato, cerco con tutti i trucchi dei miei di favorirlo, ma col trascorrere del tempo mi accorgo della loro insensatezza, come giocattoli improvvisamente invecchiati. Un bel sorriso infine ci unisce, insieme alle carte dello stesso seme – i FIORI – e senza ricorrere al mio insuperabile tocco finale – l’asso nascosto nel polsino – le donne si trovano in mano le carte sbagliate e perdono l’intera borsa più altri scudi ancora.
Una vertigine, e la gola si riempie d’acqua salata, come quando, da bambino, un’onda anòmala mi strappò dalla riva e fui sul punto di annegare.
Cosa farò una volta uscito di qui? Non voglio chiedermelo. So però con chiarezza che non giocherò più a nessun gioco. Ho davanti un sipario appena abbassato, le luci spente, mi sento sospeso nello spazio incolmabile tra scena e platea.
Candele e liuto, visi di donne giovani e decrepite, di ingannati e ingannatori, tavoli da gioco, assi di palcoscenico, angoli di strada, ammiccamenti, applausi e fischi, inseguimenti e fughe, mi vorticano nella mente, voragine dove tutto sprofonda in un attimo imprevisto.
Dove sei, ragazzo? Corri via da qui. Siamo già fuori. Ci sarà l’alba, l’aperto, Caterina, e un silenzio leggero che scioglie tutto con dolcezza. Oppure questa notte continuerà ad allungarsi senza fine e non ne uscirò più? Sono stanco e ho i capelli grigi.
(continua)
Nda.
(1 e 2) sono versi di Gaspara Stampa
Il racconto, di cui questa è la prima parte, mi è stato suggerito dal celebre dipinto Il baro con l’asso di fiori di Georges de la Tour. Chi parla in prima persona è il baro, che nel quadro è seduto a sinistra, di fronte al ragazzo. Nella seconda parte, è il ragazzo che parla, a significare come la stessa esperienza venga specularmente ma diversamente vissuta dai due protagonisti.
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