STORIA: I MAESTRI: Cent’anni da Porta Pia. All’alba di quel 20 settembre20 Settembre 2011 di Indro Montanelli Gli storici di parte cattolica l’hanno chiamata « il dramma di Pio IX ». Ma è un errore, o almeno un’inesattezza. Sebbene la vittima fosse proprio lui, per Pio IX Porta Pia fu soltanto una grossa arrabbiatura, che del resto si era già sfogata una diecina di giorni prima, quan do il Conte Ponza di San Martino gli aveva recapitato la lettera di Vittorio Emanue le II che « con affetto di figlio e con fede di cattolico », supplicava di non opporre resistenza alle truppe italiane in marcia su Roma. Leggendo queste parole, il Papa si fece rosso, poi paonazzo d’ira. E alla fine sbottò: « Siete tutti un sacco di vipere, sepolcri imbiancati, mancatori di pa rola! »: un frasario che non era certo all’altezza di un evento come quello. Non dico un Gregorio VII, ma perfino un Pio XII avrebbe trovato qualcosa di meglio. Un dramma fu piuttosto per il re, che sino a pochi giorni prima aveva smaniato di risa lire a cavallo alla testa dei suoi reggimenti per condurli non a Roma, ma in Francia, al soccorso del suo vecchio amico Napoleone III in guer ra coi prussiani. Invano Vi sconti Venosta e Quintino Sella avevano cercato di dis suaderlo: il Paese non avrebbe accettato di versare il suo sangue per l’unica Potenza: che ancora si opponeva alla annessione di Roma all’Italia, che ci aveva imposto di rinunziarvi, che teneva nell’Urbe una propria guarnigione. Vittorio Emanuele non intendeva ragioni. Più che al sogno di Roma capitale, egli si sentiva legato ai ricordi di Magenta e di Solferino, an che perché il suo grande mo mento era stato quello. Ai due ministri aveva risposto secco (e in francese) : « Non mettetemi i bastoni fra le ruo te, in questa faccenda », e all’insaputa dei propri diplo matici aveva mandato a Pa rigi un suo uomo di fiducia per negoziare una Triplice avanti lettera franco-italo-austriaca contro la Prussia. A levargli dal capo quell’idea politicamente sbagliata, ma che faceva onore al suo senso dell’Onore, furono le fulmi nee vittorie di von Moltke, che non gli dettero il tempo di realizzarla. Ma in cuor suo – e non soltanto in cuor suo perché lo disse apertamente – invidiava Garibaldi accor so a dare man forte ai vinti nella guerriglia partigiana. Se avesse potuto, vi si sarebbe arruolato anche lui. A diffe renza del suo omonimo ni pote e successore, le marce su Roma non gli piacevano punto. «Parlate chiaro! » Un dramma fu per il mi nistro della Guerra, Govone, generale zelante, ma an che devoto cattolico: un dramma così grosso che, do po aver firmato il « via » alle operazioni, il cervello gli die de di volta e dovettero inter narlo in manicomio. Un dram ma fu per Raffaele Cadorna, comandante del corpo di spe dizione, che a Roma avrebbe preferito andarci da pellegri no, e fino all’ultimo sperò di varcare Porta Pia senza ricorrere al cannone. Un dram ma fu per lo stesso Ponza, il messaggero della famosa lettera, capo spirituale della cosiddetta « Permanente », la ultima roccaforte dell’oltran zismo piemontese, che la ca pitale voleva riportarla a To rino. E un dramma fu per la coscienza cattolica di tanti altri italiani, cioè di tutti quelli per i quali il cattoli cesimo era un fatto di co scienza. Di questo dramma, il dibattito parlamentare non fornì che un’eco sfalsata e piutto sto immiserita. Di solenne c’era soltanto l’ambiente: il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, dove Firenze, da quando, nel ’65 era diven uta capitale, aveva alloggiato i deputati. La sessione si aprì il 16 agosto, ma la discussione co minciò il 19, quando ormai le truppe prussiane dilagavano in Francia, obbligando il re a rinfoderare i suoi bellicosi propositi e lasciando lo Stato pontificio senza protettori. La sala era gremita di pubblico. E i piemontesi, i quali avevano sempre creduto che i fiorentini gli avessero « rubato » la capitale e smaniassero di conservarla, scoprirono con stupore, mescolato a un cer to sdegno, ch’essi invece non vedevano l’ora di spedirla a Roma. Bettino Ricasoli l’ave va chiamata « una disgrazia », « una tazza di veleno », il sin daco Ubaldino Peruzzi le imputava il pauroso passivo del bilancio comunale, e il po polo non si riconosceva più il quella sua città ingigantita, ma anche involgarita. In fondo, nonostante i loro umori giacobini, l’unica cosa da cui ai fiorentini dispiaceva separarsi era il re. Sia pure a modo loro, cioè con qualche corbellatura, gli si erano affezionati. Lo chiamavano fa miliarmente « il Barba », gli perdonavano la debolezza di tingersela, e gli facevano volentieri da palo quando, prima di andare a cena dalla « bela Rusin », si fermava in via del Campuccio dall’anco ra più bella e soprattutto più giovane Emma Ivon, che oltre tutto lo riempiva di corna: Pover’òmo â— dicevano â—, è proprio uno come noi ». I protagonisti del dibattito fecero quel che potevano per adeguarsi allo «storico momento », ma non ne avevano le dimensioni. Salvo Quintino Sella â— che il re chiamava « il mercante di panni » â—, il governo non annoverava che mezze figure. Pantaleoni definiva il primo ministro Lanza « una delle più mise rabili mediocrità oneste che l’Italia possegga ». Del ministro degli esteri Visconti Venosta tutto si poteva dire, salvo che traboccasse di personalità e d’immaginazione. Degli altri â— Gadda, Raeli, Castagnola â—, la Storia ha cancellato perfino i nomi. Bisogna riconoscere che qualche palpito di residua passione risorgimentale vibrò soltanto nei discorsi di alcuni oppositori della Sinistra radicale. A Visconti Venosta, che poneva il problema di Roma in termini piuttosto pedestri e con un’ambiguità che rive lava tutta la sua indecisione, Pasquale Stanislao Mancini gridò: «Parlate chiaro! (fin d’allora nel nostro Parla- mento c’era bisogno di questi richiami). Parlate chiaro! Volete andare a Roma: sì o ? E se sì. quando, e con che mezzi? ». Di rincalzo a lui intervenne Crispi: «Avete paura della rivoluzione? C’è un solo modo per prevenirla: eliminare la reazione, che a Roma ha il suo centro. I nostri nemici sono là… ». Più aspro che altro, il dibattito si concluse con l’impegno del go verno a « risolvere la questione romana secondo le aspirazioni nazionali » che, non impegnando a nulla potrebbe essere preso a modello dai governi attuali, se ne avessero bisogno. La delusione fu grande. La reazione della stampa, violenta. A provoca re lo sdegno della pubblica opinione non era tanto l’irre solutezza della classe dirigen te, quanto il fatto ch’essa fa cesse di un evento grandioso come l’annessione di Roma un semplice problema di op portunità diplomatiche. A Bo logna i repubblicani scesero per strada, a Ravenna am mazzarono il comandante del la piazza, generale Escoffier, a Pavia anche la guarnigione fece combutta con gl’insorti. Per spingere il governo a un atteggiamento più fermo, ci volle la defezione di Sella. Questi, sebbene facesse parte della maggioranza di Destra, si presentò a un esagitato ra duno della Sinistra e dichiarò che, se Lanza avesse conti nuato a traccheggiare, egli si sarebbe dimesso dal Ministe ro mettendolo in crisi. Il cla moroso gesto funzionò da elet trochoc perché anche a quei tempi le crisi facevano ai no stri Ministeri più paura delle guerre. Tuttavia le indecisio ni continuarono fino al 3 set tembre, quando giunse la no tizia che Napoleone era stato definitivamente sbaragliato a Sédan e preso prigioniero dai prussiani. Era con lui, perso nalmente con lui, che l’Italia s’era impegnata a rispettare il potere temporale del Papa. Una volta caduto, la strada di Roma era libera. L’estremo passo Eppure, in Consiglio dei Mi nistri, solo Sella, Castagnola e Raeli si pronunciarono per l’azione immediata. Visconti Venosta raccomandò ancora una volta di evitare « inutili rischi ». In cosa questi rischi consistessero non lo disse, ma lui ne vedeva sempre dapper tutto. Quanto agli altri, pro pendevano per una tipica so luzione all’italiana: occupare lo Stato Pontificio, ma non Roma. Napoleone, va bene, era caduto prigioniero, ma po teva evadere o essere rimesso in libertà, non si sa mai, me glio aspettare. E infatti si aspettò fin quan do non giunse l’annunzio che a Parigi avevano proclamato la Repubblica e che si tratta va di una Repubblica laica, anzi anticlericale. Allora final mente anche gl’indecisi si de cisero, ma non senza avan zare un’ultima richiesta, sta volta giusta e sensata: che si compisse un estremo tentati vo per indurre il Papa a ce dere senza resistenza, in mo do da evitare spargimenti di sangue. Così si era arrivati alla famosa lettera che, ispi rata da Visconti Venosta, re datta dal giornalista Celesti no Bianchi della « Nazione » e firmata dal Re, il Conte Ponza di San Martino conse gnò il giorno 10 a Pio IX e ricevette l’accoglienza che ab biamo detto. A conclusione del tempestoso colloquio, il Papa aveva aggiunto: « Non sono profeta né figlio di pro feta, ma vi assicuro che in Roma non entrerete ». Forse più che l’Italia e Vit torio Emanuele, il Papa con quelle parole aveva voluto mettere alla prova la propria infallibilità, da poco procla mata. Il Concilio Ecumenico Va ticano I, ch’egli aveva indetto per farsela riconoscere, s’era infatti chiuso solo pochi me si prima. Ma, sebbene avesse raggiunto lo scopo assegna togli, il Papa non poteva es sere soddisfatto del suo anda mento. L’idea di convocarlo gli era venuta nel ’63, ma nel la stessa Curia aveva incon trato delle resistenze che ave vano finito per snaturarla. Il progetto del Papa era di far riconoscere come dogma il potere temporale in modo che chiunque lo avesse violato sarebbe caduto in eresia. Ma i gesuiti si erano opposti. Per quanto al potere temporale ci tenessero non meno di lui, essi avevano abbastanza buon senso per capire che non era più il tempo di lanciare simili sfide. Cosa avrebbe fatto il Papa se, nonostante il dogma, l’Italia avesse occupato Ro ma? L’avrebbe scomunicata. E se l’Italia si fosse infischia ta anche della scomunica? Meglio ripiegare su una for mula più sfumata che con sentisse qualche scappatoia. E così si era giunti a quella dell’infallibilità, senza preci sare se essa fosse applica bile al Papa, anche come so vrano temporale. Non si capisce come certi storici insistano ad attribuire a Pio IX una notevole intel ligenza politica. Proprio nel secolo in cui l’unica religione veramente sentita era quella dello Stato nazionale, egli aveva rispolverato il linguag gio di Bonifacio VIII ema nando il sillabo, cioè « la decadenza di tutte le possan ze laiche della terra »: di una terra in cui le « possanze » che largamente la domina vano erano non soltanto lai che, ma protestanti. Dopodi ché egli le invitò a partecipa re al sinedrio mandandovi i loro più autorevoli rappresentanti e rimase indignato del fatto che ad aderire â— a parte Elisabetta d’Austria, la quale ci venne unicamente per go dersi il colpo d’occhio â— fu rono soltanto alcuni sovrani spodestati che non rappresen tavano più alcuna « possan za ». Il Concilio si aprì l’8 di cembre del ’69, e come colpo d’occhio Elisabetta non do vette sentirsene delusa. Le porpore dei Cardinali al gran completo, le mitrie dei settecento Vescovi accorsi da tut te le parti del mondo, le tri bune gremite di diplomatici e di nobili romani in alta uni forme costituivano uno spet tacolo degno della basilica di San Pietro in cui si svolgeva. Dapprincipio tutto filò secon do il copione. Ma quando si venne al nocciolo, cioè alla questione per cui quell’assise era stata indetta, non solo mancò quell’unanimità sulla quale il Papa aveva contato, ma la polemica si accese fino al tafferuglio: tanto che a un certo punto, a quanto dice De Cesare, i gendarmi vole vano forzare la porta. Mal grado i gridi di sileat, sileat! scanditi in coro dagli infallibilisti, soprattutto ita liani e spagnoli, gli opposi tori francesi e olandesi del dogma pronunciarono requi sitorie violente, e i tedeschi, guidati da Strossmeyer â— un Alfrink avanti lettera â— mi nacciarono addirittura uno scisma. Alla fine il dogma passò con 500 placet e due soli non placet. Ma duecento Ve scovi non vollero prender parte alla votazione. Il 18 luglio, mentre veniva giù un furioso temporale, il Papa les se (aveva una bellissima vo ce) la bolla Pastor aeternus che lo proclamava in fallibile. A mezzo del mono logo, un fulmine si abbatté a pochi passi dalla basilica, seminandovi il terrore. I ro mani lo presero per un segno di dispetto da parte del Pa dreterno per questo attentato del suo Vicario alle sue pre rogative. E sulla statua di Pasquino, che da secoli fun geva da simbolo dell’opposi zione costituzionale al regime pontificio, affissero questo epi gramma: « Quando Eva mor se e morder fece il pomo â— Gesù, per salvar l’uom, si fece uomo â—. Ma il Vicario di Cristo, il Nono Pio â— per render schiavo l’uom, si vuol far Dio ». Tre giorni prima era scop piato qualcosa di ancora più grosso del fulmine: era scop piata la guerra franco-prussia na, e anche i più sprovveduti capivano che una marcia su Parigi comportava fatalmente una marcia su Roma. No, era meglio limitare l’infalli bilità del Papa al campo spi rituale. Una certa animazione se guitò a regnare a Roma anche dopo la chiusura del Concilio. Molti di coloro che vi erano accorsi, ecclesiastici e laici, vollero prolungarvi il soggior no, e per intrattenerli furono indette pubbliche cerimonie e feste private. Ma, via via che le notizie della guerra si face vano più drammatiche, le par tenze si moltiplicavano, e la città acquistava l’aria plum bea che le è solita nell’immi nenza dei temporali. «Non entreranno » Soltanto il Papa sembrava non avvertirla. Sebbene scon tento del modo in cui gliela avevano attribuita, l’infallibi lità lo rendeva felice: « Ne è così persuaso â— scriveva Gregorovius â— che se la sente addosso ». Il Concilio, secon do lui, aveva « liberato da tut ti i mali la Chiesa e la società civile, risolto tutte le difficol tà, rimosso tutti i pericoli, ri parato a tutte le miserie, cal mato tutti i patimenti ». Le piazzeforti francesi cadevano come birilli sotto le spallate di von Moltke, e lui studiava i progetti del monumento commemorativo del Concilio da erigere sul Gianicolo. Nem meno dopo la lettera portata gli da Ponza volle annullare le cerimonie in precedenza programmate, anzi la stessa sera andò in piazza di Termi ni a inaugurare con gran so lennità l’acquedotto dell’Ac qua Marcia. E l’indomani, quando gli annunziarono che le truppe italiane avevano var cato il confine, ripeté: « Non entreranno, non entreran no… », salì in ginocchio la Scala Santa e andò a adorare il Bambin Gesù nell’Ara Coeli. Tanta spensieratezza era compensata dal freddo reali smo del segretario di Stato, Cardinale Antonelli. Figlio di contadini ciociari, era un ve ro prelato romano: scettico, di scarsa cultura, ma di naso fino. Pur nella sua mediocrità intellettuale, si rendeva con to che Roma apparteneva al l’Italia e che la fine dello Stato Pontificio si poteva ri tardarla, ma non evitarla. La unica cosa che si poteva evi tare era il sangue, e solo a questo ebbe il buon senso di badare. Mentre il Papa se guitava a gironzolare per Ro ma facendosi applaudire dai « centocalvi », come si chia mava la claque, prezzolata dalla polizia fra gli avanzi di galera, egli discuteva col ge nerale Kanzler comandante dell’esercito. L’esercito papalino era una armata Brancaleone. L’unico reparto degno di questo nome era la Legione di Antibes, composta di volontari fran cesi reclutati in famiglie di severa tradizione cattolica, per gran parte nobili. Il resto era un’accozzaglia delle più svariate nazionalità: c’erano perfino i turchi. I romani li distinguevano, secondo le uni formi, in « zampitti », « caccialepri », « sigari scelti », « squadriglieri »: circa 15.000 uomini in tutto, di cui nean che un von Moltke sarebbe riuscito a fare uno strumento di guerra, e Kanzler non era di certo un von Moltke. Com pito gentiluomo, ligio al « re golamento » come lo era al catechismo, egli aveva tuttavia un concetto tedesco dell’onore militare e avrebbe preferito una sconfitta a una resa. Ma Antonelli non era di questa opinione. Gli ordinò di ritirare le truppe dentro le mura e di limitarsi a un semplice simulacro di resi stenza. Il corpo di spedizione ita liano, forte di 50 mila uomini, aveva attraversato il confine il giorno stesso â— 10 settembre â— in cui Ponza di S. Martino aveva recapitato in Vaticano la lettera del Re. Ma, per dare tempo al Papa di sbollire i suoi furori e di rassegnarsi, aveva scelto la via più lunga, quella per Orte e Civita Castellana. Il gene rale che lo comandava, Raf faele Cadorna, era un cattolico di stretta osservanza, com battuto fra la soddisfazione per l’alto incarico e lo sgo mento per l’offesa alla Chiesa. Sebbene milanese, o forse ap punto per questo, ostentava il più rigoroso zelo sabaudo e il più grande disprezzo per i garibaldini, ma aveva dovuto accettarne due come generali di divisione, Bixio e Cosenz, impostigli dal comando per esigenze di politica interna. Aveva dovuto accettare anche i giornalisti che odiava e che faceva tenere sotto stretta sor veglianza perché non rivelas sero il suo « piano ». Credeva di averne elaborato uno di alta strategia predisponendo un attacco di diversione alla Porta di San Pancrazio per poi sferrare quello vero su Porta Pia. Più tardi egli scris se addirittura un libro su que sta sua impresa, che potrebbe anche sembrare epica, se non vi fosse allegata la tabella delle perdite: 32 morti e 143 feriti da parte italiana, 20 morti e 49 feriti da parte papalina. Dovunque fossero passate nella loro lenta marcia di avvicinamento, le colonne era no state trionfalmente accolte dagli ex-sudditi del Papa. Nei loro resoconti i giornalisti, fra i quali c’era anche De Amicis, avranno anche calcato le tinte. Ma che le tinte fossero festose non c’è dubbio. Gli unici proiettili che misero a repentaglio l’incolumità dei nostri soldati furono i maz zi di fiori e i cesti di frutta che gli scagliavano addosso da tutte le parti, e gli unici cre pitii che si udirono furono quelli dei mortaretti. Il 17 il corpo di spedizione, che fin lì aveva dovuto affrontare sol tanto problemi di rifornimen to e a quanto pare li aveva risolti assai male, era in vista di Roma e fece sosta per dare al Papa il tempo d’issare ban diera bianca. La bandiera non fu issata. E all’alba del 20, esattamente alle cinque e un quarto, l’at tacco cominciò secondo i pia ni predisposti: prima quello finto delle divisioni Angiolet ti e Ferrero sulle Porte San Pancrazio e Portese, poi quel lo vero di Mazè e Cosenz sulle Porte Pia e Salaria. Alle nove i cannoni avevano già aper to la famosa « breccia », lar ga una trentina di metri. I primi a varcarla furono i ber saglieri, che vi persero un co mandante di battaglione, il maggiore Pagliari. Ma in quel momento i plenipotenziari di Kanzler erano già al Quar tiere Generale di Cadorna per trattare la resa. Sull’accoglienza dei romani alle truppe italiane, le testi monianze sono contraddittorie, ma ciò non esclude che ognu na di esse rappresenti una fac cia della verità, la quale di facce ne ha molte. Secondo una «Strenna » pontificia pub blicata tre anni dopo, i soli ad esultare sarebbero stati i « li berali » e gli ebrei, i quali ulti mi avrebbero approfittato del trambusto per mettere a sacco la città. Un sacco di cui nessuno è mai riuscito a scoprire tracce e addurre prove. Secondo altre versioni di parte laica, il tripudio sarebbe stato generale e travolgente. Tutto sommato i resoconti più credibili sono quelli dei giornalisti entrati insieme con le prime truppe nonostante il divieto di Cadorna. Nella loro prosa si avverte chiaramente lo sforzo di colmare alla meglio la sproporzione tra la modestia dell’episodio militare e la grandezza del suo significato. Ma dalle loro cronache, abbastanza concordi, la verità trapela. I romani che, in attesa del grande evento, trascorsero insonni l’ultima notte di Roma papalina preparando le bandiere tricolori furono pochi. Secondo un diario abbastanza imparziale del Palomba, la stragrande maggioranza andò tranquillamente a dormire anche perché il Papa, non potendo ammettere di essersi sbagliato, aveva ingiunto ai suoi funzionari di non appor tare varianti all’ordinaria am ministrazione: tanto che un tribunale aveva appioppato vent’anni di carcere a due gio vanotti accusati di sovversivismo perché sorpresi a leggere il Fanfulla, giornale democratico fiorentino. Le accoglienze Quando si cominciarono a udire i rombi del cannone, i più rimasero in casa, e in fatti le avanguardie entrate in città trovarono strade se mideserte. Il Pesci racconta che i pochi passanti guarda vano i soldati italiani in si lenzio perché non riuscivano a esprimere « il tumulto dei sentimenti che provavano in quell’ora ». Probabilmente, più che il tumulto dei sentimenti, a trattenerli era la paura degli sbirri, che tuttora si aggira vano armati nella città e che poco prima avevano brutal mente disperso un’adunata di «liberali » in piazza di Spagna. Ma tutto cambiò quando i bersaglieri irruppero in massa. Allora l’entusiasmo esplose, ma con esso esplose anche la collera di una popolazione che per il regime papalino non aveva nessun motivo di af fetto. Sui giornali italiani si scrisse che i romani sfogava no «la vergogna » di aver sop portato per tanti secoli « l’in fame tirannia sacerdotale ». Di questo dubitiamo, anche se per una esigua minoranza era vero. Quelli che sfoga vano erano i rancori dell’op pressione poliziesca e della miseria. Su una popolazione di 230.000 abitanti c’erano cin quantamila disoccupati e tren tamila accattoni, quotidiana mente offesi dagli sciali e da gli sfarzi di una Curia e di un’aristocrazia ugualmente sceiccali. La città era sporca e ciabattona. I suoi scandalosi contrasti sociali si leggevano nella stessa architettura: splen didi palazzi barocchi incastra ti in ragnatele di tuguri. Infatti all’entusiasmo per i liberatori si mescolarono su bito scoppi di odio contro i vecchi padroni. In seguito si disse che, più che contro le persone, la rabbia si scatenò contro i simboli del caduto re gime, stemmi e bandiere. Ma il colonnello Pinelli dovette irrompere a cavallo e con la sciabola sguainata su un grup po di dimostranti per strap pargli di mano alcuni « caccialepri » che non avevano fatto in tempo a scappare. E Cadorna ricevette da Antonelli un pressante appello a mandar truppe, per reprimer vi i disordini, anche nella Città Leonina che, secondo le clausole di armistizio, doveva restare sotto la giurisdizione militare del Papa. Poi, come sempre a Roma, la bonarietà riprese il soprav vento sui risentimenti. E quando qualcuno dei venti cinquemila preti che la popo lavano e che non avevano po tuto tutti rifugiarsi in Vati cano, ripresero a circolare nei loro panni, la gente, e special mente le donnette dissero che erano anch’essi « fiji de mam ma ». Ma una cosa è certa: che rimpianti il vecchio regi me non ne aveva lasciati, sal vo che nel patriziato (e non in tutto) e in quella curiosa borghesia di avvocati, notai e appaltatori che formavano il sottogoverno laico della Cu ria, e che ancor oggi si chia ma « generone ». Il plebiscito del 2 ottobre che dette all’annessione di Roma all’Italia più di quarantamila sì e solo quarantasei no, forse non dice va tutta la verità. Ma una verità la diceva. Letto 2029 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||