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STORIA: I MAESTRI: L’Autunno della Repubblica

9 Aprile 2011

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, sabato 25 ottobre 1969]

Il famoso processo del SIFAR fu disgraziato per molti versi. Lo fu anzitutto per il protagonista, Eugenio Scalfari, che si trovò a duellare con un avversario reso intoccabile dal segreto di Sta ­to. E lo fu ancora di più per la politica italiana dove Scal ­fari dovette imbrancarsi da militante facendosi eleggere deputato e rifugiandosi sotto il mantello dell’immunità par ­lamentare.

Il rimedio non tardò molto a rivelarsi peggiore del male. Scalfari, che aveva creduto di trovare nella politica uno scampo alla prigione, vi tro ­vò un ergastolo. E la politi ­ca, che aveva creduto di tro ­vare in Scalfari un neofita rispettoso, ossequioso e zelan ­te, vi ha trovato invece un agente di disturbo e un ele ­mento di confusione, di cui Dio sa se c’era bisogno. E’ ve ­ro ch’egli milita in una fami ­glia, quella socialista, dove i confusionari non hanno mai fatto scandalo. Ma lui è riu ­scito a farlo perfino lì. Pro ­testa, scalcia, rovescia i tavoli, scompagina tutti i giuochi rimescolandone le carte, e non si sa mai dove sia: quando lo cercano da Nenni, lo tro ­vano da De Martino; quando lo cercano da De Martino, lo trovano da Lombardi; quan ­do lo cercano da Lombardi, lo trovano da Giolitti.

*

Molti si domandano cosa vuole, attribuendogli le più svariate ambizioni e cupidi ­gie: poltrone governative, pre ­sidenze di grandi Enti parastatali, eccetera. Io credo che non voglia nulla, e che tutta la sua inquietudine derivi sol ­tanto da uno stato d’insoddi ­sfazione. Non soltanto verso il partito in cui s’è accasato, ma verso tutto il sistema po ­litico, il cosiddetto establishment di cui, come deputato, anche lui ora è corresponsa ­bile. E una conferma mi pare che la fornisca il libro che proprio in questi giorni ha pubblicato: L’autunno della Repubblica (Etas Kompass Ed. 210 pagg., L. 2.500).

Si tratta della storia politi ­ca del dopoguerra italiano, e particolarmente dell’ultimo decennio. Ma prima di affron ­tarla, ho il dovere di mettere in guardia   il lettore. Fra Scal ­fari e me regna una fraterna inimicizia. La sola cosa, o qua ­si, su cui siamo d’accordo è nel non fingere di esserlo. Lungi dall’attenuare, abbiamo sempre sottolineato i nostri dissensi. Ed è con un sottin ­teso polemico, cioè con la speranza di trovare ciccia da mordere, che mi son messo a sfogliare questo saggio.

Non m’è costato un grande sforzo perché Scalfari è uno dei pochissimi scrittori di cose politiche che scrivono chia ­ro. Sarà forse per farsene per ­donare da una pubblicistica dove la chiarezza è conside ­rata un vizio pressoché infa ­mante, che ogni tanto egli cita passi sociologici come questo preso a prestito dallo Habermas: « Il rapporto fra lo Stato e quanti fruiscono dei suoi servizi non implica più la partecipazione politica, ma solo un generico atteggiamento rivendicativo che attende prestazioni, ma non vuole immischiarsi nelle decisioni » cui confesso che la mia debole mente è impari. Ma di suo non cade mai in questi pacchiani ermetismi. E il panorama ch’egli traccia con penna agile e asciutta balza limpido, vivo e, debbo riconoscerlo, abbastanza convincente perfino per un lettore mal disposto come me.

*

Non mi sogno naturalmen ­te di riassumerlo. Mi limito a segnalarne alcune intuizioni che mi sembrano particolar ­mente azzeccate e penetranti. Questa, per esempio: che la crisi del potere, in Italia, vie ­ne da un rovesciamento delle « cosiddette forze traenti ». Non prendetemi per un Haber ­mas: passo subito alla spie ­ga. Fino alla Liberazione, di ­ce pressappoco Scalfari, an ­zi fino al ’60, lo Stato in Ita ­lia era più avanzato e moder ­no della società. E’ così, né poteva essere diversamente, visto il modo in cui questo Stato si formò. A costruirlo erano state le magre élites che avevano fatto, senza nes ­sun apporto popolare, il Ri ­sorgimento. Per quanto mode ­sto, il loro livello era infini ­tamente più alto di quello delle masse quasi esclusivamente contadine e in gran parte analfabete. Ecco perché i governi che si dettero il cambio da Cavour in poi fu ­rono tutti di stampo « illumi ­nistico » come lo erano state certe monarchie del Settecen ­to che, per realizzare le loro riforme ammodernatrici, do ­vettero imporle alle masse incolte e retrive coi mezzi spicciativi dell’assolutismo.

In Italia, anche dopo l’unità, coloro che l’avevano fatta dovettero mantenere l’iniziativa. Era lo Stato, loro esclusi ­vo feudo, che dall’alto al basso «illuminava » una società tuttora immersa nel grande sonno delle campagne, inarticolata e misoneista. Lasciamo stare se questo compito lo assolse bene o male. Sta di fatto che era lo Stato a trascinare la società, non viceversa. E questo spiega il fenomeno tipicamente italiano del «trasformismo ». Nei paesi in cui la democrazia è penetrata profondamente nelle masse e ne ha provocato la partecipazione alla cosa pubblica, maggioranza e opposizione fanno entrambe parte del «sistema » e vi si scambiano facilmente i ruoli. In Italia, per un secolo, che è poi l’unico secolo della nostra storia nazionale, non è stato così. Il «sistema » era soltanto il piccolo gruppo dominante isolato in mezzo a una società che un po’ se ne teneva, un po’ ne era tenuta ai margini. Via via che da questa società emergeva qual ­che piccola nuova forza, il gruppo dominante la coopta ­va arruolandola nel « siste ­ma » che però non per que ­sto mutava la sua fisionomia di castello senza ponte leva ­toio. Era una pura operazio ­ne di vertice, come oggi si dice. Stato e società restava ­no lontani ed estranei l’uno all’altra.

A questa situazione non pose fine nemmeno la Resi ­stenza, checché ne dicano i suoi agiografi perché anche la Resistenza â— nota Scalfa ­ri, e io sono perfettamente d’accordo con lui â— fu un fatto di minoranze: anche se la quasi totalità della popo ­lazione la secondò, a darle i quadri fu la solita borghesia intellettuale e qualche fran ­gia di proletariato urbano: nulla di comparabile al gran ­de fenomeno collettivo della Jugoslavia, dell’Olanda, della Norvegia.

Quella che veramente ha rimescolato le carte del giuo ­co è stata la rivoluzione indu ­striale del dopoguerra con lo spopolamento delle campagne e le grandi migrazioni inter ­ne. Questa società in movi ­mento scavalcò tutto, scavalcò anche lo Stato strappandogli l’iniziativa e prendendolo a rimorchio invece di lasciarse ­ne rimorchiare come sin allo ­ra aveva fatto. Il giuoco delle « forze traenti » si era rove ­sciato.

*

L’attuale crisi del centro ­sinistra sarebbe, secondo Scal ­fari, una conseguenza di que ­sto fenomeno. La debolezza, anzi l’infondatezza dell’opera ­zione sta nel fatto che demo ­cristiani e socialisti l’hanno compiuta con la solita tecnica « trasformistica », cioè limi ­tata ai vertici, che non corri ­sponde più alla situazione rea ­le di una società non solo entrata nel giuoco democra ­tico, ma entrataci da protagonista. Il « sistema », come al solito, si è limitato a coop ­tare i gruppi dirigenti escludendo le masse proprio nel momento in cui queste, rag ­giunta la maturità, assumevano l’iniziativa del progresso. E naturalmente il tentativo è fallito perché il problema ormai non è più quello di raf ­forzare il sistema con opera ­zioni trasformistiche, ma d’i ­staurarne un altro.
Quale? Qui è il punto. Sul ­la diagnosi, bisogna dare atto a Scalfari di un occhio clini ­co acuto e preciso. Sulle con ­clusioni, avanziamo le nostre riserve. Anzitutto, questo fa ­moso e esecrato « sistema » deve ancora fare i conti con delle masse che seguitano osti ­natamente a isolarsene e a isolarlo: gli otto milioni di votanti comunisti. Scalfari di ­rà ch’essi lo rifiutano perché è com’è. Ma anche quello lo ­ro è com’è: molto più isolato, molto più castello senza pon ­te levatoio di quello nostro. Ridotto in tali asfittiche con ­dizioni, cos’altro può fare il sistema, se non il solito tra ­sformismo?

Secondo. Scalfari vede un segno di maturità nel fatto che la società si è messa in movimento e tripudia alla sua inversione di ruoli con lo Stato, considerandola del tut ­to positiva. Ora, che il movi ­mento sia sinonimo di ma ­turità resta da dimostrare. Quanto al fatto che la socie ­tà sia oggi più avanzata dello Stato, ammesso che sia vero, ci fa piacere soltanto a mez ­zo: cioè per l’avanzamento della società, non per l’ar ­retramento dello Stato che avremmo preferito veder avan ­zare di pari passo.

Ma qui, più che il fattore ideologico, entra in ballo quel ­lo caratteriologico. Una volta, in un manicomio, vidi un paz ­zo che, avendo la mania del treno, si scoteva tutto come se ci viaggiasse sopra, bavando e urlando. Si calmava solo quando gli facevano sfi ­lare davanti agli occhi delle diapositive di paesaggio che gli davano l’illusione di attraversarlo. Non era Scalfari. Ma anche lui ha, per il movimento, una passione, direi, galileiana. Tutto ciò che si muove, anche le valanghe, anche le lavine, lo riempie di esultanza. Il suo sogno sareb ­be che l’Italia diventasse tut ­to un ballonzolio con dentro cinquantatré milioni di Scal ­fari rullanti, beccheggianti, protestanti e scalcianti.

Ma questo non è un sogno. E’ un incubo.


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4 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 9 Aprile 2011 @ 09:34

    Grande Montanelli. Grazie Bart

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 9 Aprile 2011 @ 10:12

    Ce ne saranno altri, di Montanelli, Carlo. Nei prossimi mesi (anni?) mi dedicherò esclusivamente alle ricerche nel mio archivio. Ho concluso con tutto il resto. Il volume che sta per uscire dei saggi, sarà l’ultimo.
    Nel mio archivio ho conservato articoli e riviste degli anni ’69 e 70, gli anni di molti cambiamenti. Articoli che, forse, pochi conoscono.

  3. Commento by Jacopo — 18 Aprile 2011 @ 17:14

    Gran articolo. La chiarezza espositiva, la chiusa finale. Montanelli lo si riconosce lontano un miglio. Sono capitato qui per caso e la mia permanenza sarà direttamente proporzionale alla presenza di altri articoli del Sign. Montanelli! :)

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Aprile 2011 @ 19:00

    Ne ho degli altri, di Montanelli, ma ci sono altri grandi autori, che hanno il diritto di essere conosciuti dai giovani.

    In questi giorni sto rileggendo alcuni articoli di Giorgio Vigolo, grande musicologo, e grande osservatore del nostro tempo. Penna eccellente.

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