STORIA: I MAESTRI: L’Autunno della Repubblica9 Aprile 2011 di Indro Montanelli Il famoso processo del SIFAR fu disgraziato per molti versi. Lo fu anzitutto per il protagonista, Eugenio Scalfari, che si trovò a duellare con un avversario reso intoccabile dal segreto di Sta to. E lo fu ancora di più per la politica italiana dove Scal fari dovette imbrancarsi da militante facendosi eleggere deputato e rifugiandosi sotto il mantello dell’immunità par lamentare. Il rimedio non tardò molto a rivelarsi peggiore del male. Scalfari, che aveva creduto di trovare nella politica uno scampo alla prigione, vi tro vò un ergastolo. E la politi ca, che aveva creduto di tro vare in Scalfari un neofita rispettoso, ossequioso e zelan te, vi ha trovato invece un agente di disturbo e un ele mento di confusione, di cui Dio sa se c’era bisogno. E’ ve ro ch’egli milita in una fami glia, quella socialista, dove i confusionari non hanno mai fatto scandalo. Ma lui è riu scito a farlo perfino lì. Pro testa, scalcia, rovescia i tavoli, scompagina tutti i giuochi rimescolandone le carte, e non si sa mai dove sia: quando lo cercano da Nenni, lo tro vano da De Martino; quando lo cercano da De Martino, lo trovano da Lombardi; quan do lo cercano da Lombardi, lo trovano da Giolitti. * Molti si domandano cosa vuole, attribuendogli le più svariate ambizioni e cupidi gie: poltrone governative, pre sidenze di grandi Enti parastatali, eccetera. Io credo che non voglia nulla, e che tutta la sua inquietudine derivi sol tanto da uno stato d’insoddi sfazione. Non soltanto verso il partito in cui s’è accasato, ma verso tutto il sistema po litico, il cosiddetto establishment di cui, come deputato, anche lui ora è corresponsa bile. E una conferma mi pare che la fornisca il libro che proprio in questi giorni ha pubblicato: L’autunno della Repubblica (Etas Kompass Ed. 210 pagg., L. 2.500). Si tratta della storia politi ca del dopoguerra italiano, e particolarmente dell’ultimo decennio. Ma prima di affron tarla, ho il dovere di mettere in guardia il lettore. Fra Scal fari e me regna una fraterna inimicizia. La sola cosa, o qua si, su cui siamo d’accordo è nel non fingere di esserlo. Lungi dall’attenuare, abbiamo sempre sottolineato i nostri dissensi. Ed è con un sottin teso polemico, cioè con la speranza di trovare ciccia da mordere, che mi son messo a sfogliare questo saggio. Non m’è costato un grande sforzo perché Scalfari è uno dei pochissimi scrittori di cose politiche che scrivono chia ro. Sarà forse per farsene per donare da una pubblicistica dove la chiarezza è conside rata un vizio pressoché infa mante, che ogni tanto egli cita passi sociologici come questo preso a prestito dallo Habermas: « Il rapporto fra lo Stato e quanti fruiscono dei suoi servizi non implica più la partecipazione politica, ma solo un generico atteggiamento rivendicativo che attende prestazioni, ma non vuole immischiarsi nelle decisioni » cui confesso che la mia debole mente è impari. Ma di suo non cade mai in questi pacchiani ermetismi. E il panorama ch’egli traccia con penna agile e asciutta balza limpido, vivo e, debbo riconoscerlo, abbastanza convincente perfino per un lettore mal disposto come me. * Non mi sogno naturalmen te di riassumerlo. Mi limito a segnalarne alcune intuizioni che mi sembrano particolar mente azzeccate e penetranti. Questa, per esempio: che la crisi del potere, in Italia, vie ne da un rovesciamento delle « cosiddette forze traenti ». Non prendetemi per un Haber mas: passo subito alla spie ga. Fino alla Liberazione, di ce pressappoco Scalfari, an zi fino al ’60, lo Stato in Ita lia era più avanzato e moder no della società. E’ così, né poteva essere diversamente, visto il modo in cui questo Stato si formò. A costruirlo erano state le magre élites che avevano fatto, senza nes sun apporto popolare, il Ri sorgimento. Per quanto mode sto, il loro livello era infini tamente più alto di quello delle masse quasi esclusivamente contadine e in gran parte analfabete. Ecco perché i governi che si dettero il cambio da Cavour in poi fu rono tutti di stampo « illumi nistico » come lo erano state certe monarchie del Settecen to che, per realizzare le loro riforme ammodernatrici, do vettero imporle alle masse incolte e retrive coi mezzi spicciativi dell’assolutismo. In Italia, anche dopo l’unità, coloro che l’avevano fatta dovettero mantenere l’iniziativa. Era lo Stato, loro esclusi vo feudo, che dall’alto al basso «illuminava » una società tuttora immersa nel grande sonno delle campagne, inarticolata e misoneista. Lasciamo stare se questo compito lo assolse bene o male. Sta di fatto che era lo Stato a trascinare la società, non viceversa. E questo spiega il fenomeno tipicamente italiano del «trasformismo ». Nei paesi in cui la democrazia è penetrata profondamente nelle masse e ne ha provocato la partecipazione alla cosa pubblica, maggioranza e opposizione fanno entrambe parte del «sistema » e vi si scambiano facilmente i ruoli. In Italia, per un secolo, che è poi l’unico secolo della nostra storia nazionale, non è stato così. Il «sistema » era soltanto il piccolo gruppo dominante isolato in mezzo a una società che un po’ se ne teneva, un po’ ne era tenuta ai margini. Via via che da questa società emergeva qual che piccola nuova forza, il gruppo dominante la coopta va arruolandola nel « siste ma » che però non per que sto mutava la sua fisionomia di castello senza ponte leva toio. Era una pura operazio ne di vertice, come oggi si dice. Stato e società restava no lontani ed estranei l’uno all’altra. A questa situazione non pose fine nemmeno la Resi stenza, checché ne dicano i suoi agiografi perché anche la Resistenza â— nota Scalfa ri, e io sono perfettamente d’accordo con lui â— fu un fatto di minoranze: anche se la quasi totalità della popo lazione la secondò, a darle i quadri fu la solita borghesia intellettuale e qualche fran gia di proletariato urbano: nulla di comparabile al gran de fenomeno collettivo della Jugoslavia, dell’Olanda, della Norvegia. Quella che veramente ha rimescolato le carte del giuo co è stata la rivoluzione indu striale del dopoguerra con lo spopolamento delle campagne e le grandi migrazioni inter ne. Questa società in movi mento scavalcò tutto, scavalcò anche lo Stato strappandogli l’iniziativa e prendendolo a rimorchio invece di lasciarse ne rimorchiare come sin allo ra aveva fatto. Il giuoco delle « forze traenti » si era rove sciato. * L’attuale crisi del centro sinistra sarebbe, secondo Scal fari, una conseguenza di que sto fenomeno. La debolezza, anzi l’infondatezza dell’opera zione sta nel fatto che demo cristiani e socialisti l’hanno compiuta con la solita tecnica « trasformistica », cioè limi tata ai vertici, che non corri sponde più alla situazione rea le di una società non solo entrata nel giuoco democra tico, ma entrataci da protagonista. Il « sistema », come al solito, si è limitato a coop tare i gruppi dirigenti escludendo le masse proprio nel momento in cui queste, rag giunta la maturità, assumevano l’iniziativa del progresso. E naturalmente il tentativo è fallito perché il problema ormai non è più quello di raf forzare il sistema con opera zioni trasformistiche, ma d’i staurarne un altro. Secondo. Scalfari vede un segno di maturità nel fatto che la società si è messa in movimento e tripudia alla sua inversione di ruoli con lo Stato, considerandola del tut to positiva. Ora, che il movi mento sia sinonimo di ma turità resta da dimostrare. Quanto al fatto che la socie tà sia oggi più avanzata dello Stato, ammesso che sia vero, ci fa piacere soltanto a mez zo: cioè per l’avanzamento della società, non per l’ar retramento dello Stato che avremmo preferito veder avan zare di pari passo. Ma qui, più che il fattore ideologico, entra in ballo quel lo caratteriologico. Una volta, in un manicomio, vidi un paz zo che, avendo la mania del treno, si scoteva tutto come se ci viaggiasse sopra, bavando e urlando. Si calmava solo quando gli facevano sfi lare davanti agli occhi delle diapositive di paesaggio che gli davano l’illusione di attraversarlo. Non era Scalfari. Ma anche lui ha, per il movimento, una passione, direi, galileiana. Tutto ciò che si muove, anche le valanghe, anche le lavine, lo riempie di esultanza. Il suo sogno sareb be che l’Italia diventasse tut to un ballonzolio con dentro cinquantatré milioni di Scal fari rullanti, beccheggianti, protestanti e scalcianti. Ma questo non è un sogno. E’ un incubo. 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Commento by Carlo Capone — 9 Aprile 2011 @ 09:34
Grande Montanelli. Grazie Bart
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 9 Aprile 2011 @ 10:12
Ce ne saranno altri, di Montanelli, Carlo. Nei prossimi mesi (anni?) mi dedicherò esclusivamente alle ricerche nel mio archivio. Ho concluso con tutto il resto. Il volume che sta per uscire dei saggi, sarà l’ultimo.
Nel mio archivio ho conservato articoli e riviste degli anni ’69 e 70, gli anni di molti cambiamenti. Articoli che, forse, pochi conoscono.
Commento by Jacopo — 18 Aprile 2011 @ 17:14
Gran articolo. La chiarezza espositiva, la chiusa finale. Montanelli lo si riconosce lontano un miglio. Sono capitato qui per caso e la mia permanenza sarà direttamente proporzionale alla presenza di altri articoli del Sign. Montanelli! :)
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 18 Aprile 2011 @ 19:00
Ne ho degli altri, di Montanelli, ma ci sono altri grandi autori, che hanno il diritto di essere conosciuti dai giovani.
In questi giorni sto rileggendo alcuni articoli di Giorgio Vigolo, grande musicologo, e grande osservatore del nostro tempo. Penna eccellente.