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STORIA: I MAESTRI: Libia. Un grato ricordo per l’Italia /3

6 Luglio 2011

di Paolo Monelli
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 2 aprile 1969]  

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Tripoli, aprile.

Dicevo nell’articolo precedente (poi anche qui) che non sempre, o non da tutti, si riconosce dai libici il valore positivo che ha avuto per essi l’occupazione italiana. I libici sono forte ­mente nazionalisti, fenomeno comune a tutte le nuove na ­zioni giunte all’indipendenza dopo decenni o secoli di do ­minio straniero (e in più pres ­so di essi al patriottismo lo ­cale si accompagna, o si so ­vrappone, il patriottismo panàrabo, per cui la stampa ed il governo sono sensibilissimi a tutto quanto avviene nel vicino oriente, e pronti ad inalberarsi se i giornali ed i governanti di altre nazioni esprimono giudizi o commen ­ti nei quali paia loro di rav ­visare, non dico simpatia ed appoggio per le ragioni l’Israe ­le, ma anche soltanto l’assen ­za di un manifesto consenso alle ragioni degli arabi). Ed è naturale che i più giovani e i più accesi, e non solo quelli che si proclamano apertamen ­te ammiratori di Abd el Nasser, siano inclini a prestar fe ­de ad accuse o a deformazioni dei fatti, o nella più benigna delle ipotesi ad ignorare quanto è evidente agli occhi di osservatori imparziali, che nel 1913 passando dal domi ­nio turco all’occupazione ita ­liana la Libia fece un affare. Dal giorno che gli italiani se ne sono andati, fine del 1942, e fino a quando non cominciò il fruttifero reddito dei pozzi di petrolio, « il livello di vita della Libia cadde sensibilmen ­te più in basso di quanto non fosse negli anni anteriori alla guerra », come scriveva nel 1953 il citato giornalista ame ­ricano John Gunther.

Un paese amico  

E se vi sono giornali che tornano ogni tanto su sangui ­nosi episodi della conquista e delle guerriglie contro i senussiti dal 1913 al ’17 e dal 1923 al ’32) e parlano dell’Ita ­lia come di « un nemico bat ­tuto », sta il fatto che l’ita ­liano che sbarca oggi a Tri ­poli non soltanto ha sùbito il senso di esser giunto in un paese amico, ma si trova ac ­colto con simpatia, alle pri ­me parole che pronuncia si sente rispondere quasi sem ­pre in italiano, un italiano spesso fluido, e il più delle volte compiaciuto. « Con l’Ita ­lia ogni partita è stata defi ­nitivamente chiusa », mi ha detto un libico che ha avuto più volte voce in capitolo ne ­gli ultimi anni.

Non hanno lasciato strasci ­chi certi estemporanei subbu ­gli, come quando il 19 feb ­braio del 1960 in occasione della visita a Tripoli di alcu ­ne corvette della marina ita ­liana gente scalmanata ac ­colse i marinai sbarcati a ter ­ra a sassate e peggio, e se la prese anche con italiani della colonia che erano accorsi a fargli festa; intemperanze di persone ancora troppo ebbre dell’inattesa libertà e di re ­centissimo orgoglio nazionale per giudicare il passato nella giusta luce. O come quando, il 5 giugno 1967, una certa propaganda nazionalista panàraba sparse la voce che a Roma filoisraeliani avevano saccheggiato l’ambasciata di Libia, e gruppi di giovani â— ma non mancava gente ma ­tura fra essi â— appiccarono il fuoco al circolo Italia a Tripoli accusato di accogliere fra i suoi frequentatori gli ebrei di Tripoli, e tumultua ­rono e gettarono pietre contro la scuola italiana per lo stes ­so motivo; la polizia, sorpre ­sa sulle prime, intervenne poi con molta energia ed arrestò e condannò a gravi pene i fa ­cinorosi. (Lo stesso giorno tur ­be di giovani assaltarono e saccheggiarono il centro cul ­turale americano ad Algeri ed il consolato francese; e a Tu ­nisi le ambasciate degli Stati Uniti e della Gran Bretagna).

Ero giorni fa a Marsa Susa, sorta sul luogo dell’antica Apollonia; sceso al porticciolo deserto, salva una draga inoperosa (si legge ancora sulla facciata di una casetta a specchio dell’acqua « Capi ­taneria di porto »), parlando in italiano con il mio compa ­gno arabo espressi meraviglia che non vi fosse traccia di barche da pesca; ma sùbito aggirato un gibbo di sassi ne vidi una, tratta in secco, che un ragazzotto stava pittando di rosso e di bruno. « O eccone una, â— dissi al mio com ­pagno, â— una bella barca da pesca nuova ». Un arabo an ­ziano, grosso, che assisteva al lavoro del ragazzo, discosto da noi una decina di metri, si volse a me con spontanea cordialità dicendo: «La ver ­nice è nuova, ma la barca è vecchia ». Ad una mia do ­manda continuò a parlare con effusione, disse che il porticciolo aveva veduto giorni migliori, di traffici frequenti con l’Italia ed i vicini porti africani. Lo complimentai per il suo ottimo italiano. Sor ­rise, rispose con un monosil ­labo, « Ehhh… », e con un ge ­sto della mano che valeva un lungo discorso.

Il giorno dopo a Tolmetha, che fu la greca Tolemaide, il custode del piccolo museo do ­minato da un mosaico del ter ­zo secolo che ha nel mezzo un terribile volto di Medusa, mi accompagnò a vedere il foro, l’anfiteatro, l’arco di trionfo di Costantino; e mi disse che gli scavi sono sospesi da quat ­tro anni, ma spera che siano presto ripresi, e intanto tut ­ta la zona per larghissimo tratto dove sia possibile ri ­trovare ancora qualche anti ­chità è cintata, « è vietato l’accesso a tutti, anche ai fo ­restieri, si fa solo eccezione per il pastore e le pecore che brucando potrebbero portare alla luce qualche cimelio »; e mi chiesi ancora una volta, dobbiamo proprio venire a scuola dai libici, imparare da loro a tenere ben lontani uo ­mini e costruzioni dalle zone archeologiche? E tornati al museo il custode mi avrebbe voluto a colazione con lui; vo ­leva parlarmi ancora e più a lungo di Giacomo Caputo, di Gennaro Pesce, di Enrico Paribeni, di tutti gli archeologi italiani con cui aveva lavora ­to, dei quali aveva un ricordo commosso.

Diffusa indulgenza

Anche gli operai e le mae ­stranze italiane, che insieme con libici lavorano in Cire ­naica per le imprese di co ­struzione, mi hanno detto tut ­ti che vanno molto d’accordo con i compagni indigeni. « Certo, sono ancora piutto ­sto pigri, hanno ancora l’istin ­tiva inerzia dei pastori che non fanno niente tutto il giorno », mi disse a Beda il capo cantiere di un’impresa di Napoli. « C’è un badilante che quando ha lavorato un po ­co pianta il badile in terra, ci si appoggia, e si assopisce così stando in piedi. Un gior ­no gli tolsi il badile e ne segai a metà il manico; lui non se ne accorse, e quando lo ri ­prese, e dopo un poco ci si ap ­poggiò, il manico si spezzò e lui ruzzolò per terra. E’ stato un bel ridere ». « Rideva anche il disgraziato? ». « Sì, passata la sorpresa s’è messo a ridere anche lui. Sono buona gente questi libici ».

(Il capo cantiere napoletano attribuisce la pigrizia dei li ­bici ad un comportamento atavico, che i contatti con le necessità della vita moderna faranno scomparire. Con mag ­giore severità la stampa araba di Tripoli denuncia una dif ­fusa inerzia della gente, con ­seguenza dello straordinario benessere causato dal petro ­lio. Scrive il quotidiano El Fager [L’Alba]: «Questo be ­nessere è stato cagione di una diffusa indolenza che ha colpito tutti noi. Nessuno vuol più lavorare. Aspettiamo che tutto ci arrivi da fuori, per mare per terra per cielo, dal prezzemolo alla Mercedes ul ­timo modello. Abbiamo ab ­bandonato l’agricoltura e la ­sciamo incolte le nostre terre. Siamo tutti accorsi verso le città attirati dagli abbagli di una vita fittizia di facili gua ­dagni. Nessuno di noi consi ­dera il danno che stiamo ar ­recando al nostro amato pae ­se. Ce ne accorgeremo doma ­ni, quando i pozzi del petrolio si saranno prosciugati, se non avremo saputo spendere bene questa temporanea ricchez ­za »).

«Piazza Algeria »

Tornando ai rapporti fra gli indigeni e gli italiani ho sentito spesso dirmi, da per ­sone mature ed istruite, quan ­to giovamento abbia avuto il paese nel tempo dell’occupa ­zione britannica, in quegli an ­ni poveri e agitati, dalla per ­manenza a Tripoli e nelle campagne vicine della comu ­nità italiana, sia pur ridotta di numero, affezionata al pae ­se, « coltivatori attenti a mi ­gliorare i prodotti del suolo e a piantare alberi da frutta, dirigenti di servizi pubblici, medici e suore negli ospedali, banchieri e commercianti, direttori di alberghi e di altri rami dell’attività economica », come si legge nel citato rap ­porto della missione della In ­ternational Bank for Reconstruction and Development.

Un’altra osservazione. Quan ­do un paese si è liberato da uno sgradito dominio stra ­niero per prima cosa si dà premura di sbandirne tutti i segni, far scomparire lapidi e scritte, interdirne il linguag ­gio. Qui, se mai, succede il contrario. Gli inglesi ordina ­rono al tempo della loro oc ­cupazione che tutte le scritte arabe fossero doppiate in in ­glese, e per conto loro prov ­videro a cancellare quelle ita ­liane. Ma spesso avviene che i libici e le stesse autorità co ­munali di Tripoli aggiungono di loro iniziativa il testo italiano. Sulla piazza della cat ­tedrale, Meidan Algeria, che ha conservato nelle targhe stradali, al canto delle vie che vi mettono capo, oltre al ­la scritta in arabo l’indicazio ­ne « piazza Algeria », ho ve ­duto appiccicato al muro un annunzio funebre in arabo; ma la data in calce era in italiano. C’è un quotidiano in lingua nostra, il Giornale di Tripoli, e un settimanale, Pa ­norama Libico, dei quali la proprietà, la direzione e i col ­laboratori sono libici; nel set ­timanale ha una sua pagina letteraria il già citato poeta Fuàd Cabasi; nel quotidiano appaiono spesso articoli di va ­ria cultura del medico turco Said Daud Tokdemir, grande ammiratore della nostra cul ­tura, e di economia del dottor Sherkasi, laureato in Italia. Negli ambienti governativi po ­litici e culturali sono molto graditi gli inviti dell’Istituto italiano di cultura che offre nella sua sede ogni settimana concerti, conferenze, letture di versi, con i contributi di 290 membri della colonia.

Le famiglie libiche del po ­polo, e anche molte benestan ­ti, mandano volentieri i loro rampolli agli asili e alle scuo ­le elementari nostre, dove ci sono, delle suore, dei Fratelli delle scuole cristiane, della Dante Alighieri. A Misurata le autorità del comune che stavano strette con l’asilo e la scoletta elementare, hanno assegnato un edificio più grande; poi hanno mandato alla direttrice una bella let ­tera per comunicarle che « te ­nuto conto che l’asilo infan ­tile è un organismo sociale e benefico, ed è privo di pro ­venti », le faranno agevola ­zioni fiscali. Al vicino villag ­gio già Garibaldi i piccoli li ­bici che vanno all’asilo e alle elementari dalle suore italia ­ne se ne pavoneggiano con i loro coetanei che sono stati respinti perché i denari sono scarsi e bisogna limitare il numero degli alunni.

Il nostro ministero degli Esteri dal quale, chissà per ­ché, in luogo del ministero della pubblica istruzione, di ­pendono queste scuole e sco ­lette da cui escono bambini arabi che alla fine delle cinque classi elementari hanno una conoscenza ben solida del nostro idioma, pensa che i denari che spende per esse sono già troppi. Si ha l’impressione che non si siano accorti quei funzionari che la pratica della nostra lingua, nel popolo libico ha un enor ­me valore per i rapporti fra le due nazioni ed i reciproci interessi (anche in questo ca ­so dovremmo prendere esem ­pio dagli altri, e questa volta dai francesi: che in nessun luogo d’oriente hanno comu ­nità così importanti come quella italiana a Tripoli, ma sanno risalire lo svantaggio con una liberale politica sco ­lastica e culturale).

A Bengasi, visitando la scuola elementare dei Fratel ­li delle scuole cristiane, che insegnano in italiano e in ara ­bo a 212 bambinetti, di cui 41 italiani, 114 libici, 57 di non so quante altre nazioni, bulgari, cinesi, iugoslavi, etc., ho veduto una rivista intito ­lata Italia, edita a Roma per cura della presidenza del Con ­siglio dei Ministri della Re ­pubblica Italiana, che si pro ­pone di fare conoscere attraverso le immagini gli aspetti più interessanti della vita ita ­liana. La rivista ha il testo e le didascalie in cinque lingue, francese, inglese, tedesco, spa ­gnolo e arabo. Dell’italiano, nessuna traccia. Mi pare che questo sia spingere l’effacement un po’ troppo lontano.


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