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STORIA: I MAESTRI: Ma non era un’Italietta

5 Dicembre 2011

di Panfilo Gentile
[dal “Corriere della Sera”, sabato 8 marzo 1969]

« L’Italia contemporanea dal 1871 al 1948 » di Giacomo Per ­ticone ha avuto una nuova e riveduta edizione (Mondadori) pochi anni dopo la prima, se ­gno di meritata fortuna. Me ­ritata, perché di tutte le opere consimili (Gioacchino Volpe, Salvemini, Smith, Barbagallo ecc.) questa di Perticone mi sembra una delle più lontane dallo spirito polemico, che più o meno scopertamente circola nelle altre. Non voglio entrare qua nella vecchia disputa sul ­la possibilità di una storiogra ­fia distaccata quando si rac ­contano fatti contemporanei o recenti. La mia opinione è che nessun racconto può non ri ­sentire dell’estro, dei sentimen ­ti, delle opinioni, dell’intelli ­genza del narratore, e che per ­ciò nessuna storia può essere distaccata. Dirò però che la storiografia, che oggi si chia ­merebbe « impegnata », non è sempre necessariamente una cattiva storiografia. Molte vol ­te la passionalità, anche la più faziosa, può servire anzi a sco ­prire verità meglio di un esa ­me freddamente obiettivo. Un testimone interessato non è necessariamente un testimone mendace.

Fatta questa premessa, il mio elogio della storia italiana con ­temporanea di Perticone vuol significare che essa ha lasciato quasi sempre da parte la cat ­tiva polemica che trasforma un giudizio in un argomento, un racconto in un’arringa. Per quanto riguarda al periodo che va dal 1871 al1915 mi sembra che Perticone si è tenuto lar ­gamente al Croce e alla misu ­rata e giudiziosa rivalutazione fatta dal Croce di un periodo quasi sempre trattato maluc ­cio, anche perché le figure che vi apparvero protagoniste si prestarono facilmente a giu ­dizi severi. La grettezza op ­portunistica di Depretis, l’im ­pulsività fantasiosa di Crispi, le incertezze di Rudinì, la per ­fidia di Giolitti. E quindi il trasformismo, l’Italietta, Adua, Bava-Beccaris,la Banca Ro ­mana, il ministro della mala vita e cosi via per cui si spaz ­zava come mondezza un mezzo secolo circa di storia italiana, e si salvava appena, quando si salvava, il decennio ultimo del ­la preminenza giolittiana 1901- 1913. Croce ha raddrizzato il giudizio su questo mezzo seco ­lo e raddrizzare non vuol dire mettere il roseo dove era il nero, ma vedere accanto al nero anche il roseo. Perticone ha accolto la correzione cro ­ciana e dobbiamo dargliene merito, tanto più che Pertico ­ne è socialista e come tale poteva essere facilmente ten ­tato a fare una requisitoria di un periodo dai socialisti ricordato con indignazione.

Perticone non sempre, tut ­tavia, si libera dei vecchi clichés pre-crociani. C’è una re ­miniscenza del mito della « ri ­voluzione mancata », per il qua ­le si suole rappresentare l’in ­sieme delle forze politiche pre ­valse nel concludere il Risor ­gimento e nell’iniziare la sto ­ria dell’Italia unita come una ristretta consorteria conserva ­trice, staccata dalle masse e indifferente alle esigenze po ­polari. « Rimane â— così scrive il Perticone â— dunque dopo il 1861 e dopo il 1870 quella frattura che ci aveva dato un Risorgi ­mento senza popolo, una clas ­se politica formata per coopta ­zione e destinata ad organiz ­zarsi in clientele lasciando i ceti più numerosi a vivere una loro vita, che, si potrebbe dire, ignora l’unità e le istituzioni rappresentative… L’Italia uni ­ta con le sue istituzioni era l’Italia legale diversa dall’Ita ­lia reale, dall’Italia della quo ­tidiana fatica per il pane quo ­tidiano, l’Italia del lavoro sa ­lariale… Rimaneva invisibile quel filo che legava i ceti capi ­talistici e imprenditoriali con i gruppi dirigenti, operanti con energia e successo in materia di protezioni, di dazi, di inter ­venti dello Stato ».

A codesta interpretazione del ­la nostra storia, un seguace di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto potrebbe opporre che tutta la storia è stata mossa da gruppi minoritari e che a nessuna ha mai partecipato co ­ralmente la massa. La demo ­crazia governo di popolo non è che un mito e proprio adesso che le istituzioni democratiche hanno trovato la loro più am ­pia attuazione, gli studiosi di sociologia e di scienza politica si sono accaniti a dimostrare che in realtà la volontà popo ­lare rimane sempre controllata e diretta dalle « élites » egemoniche, le quali, poi, una volta conquistato il potere, vi si conservano servendosi del potere per l’irreggimentazione e per la persuasione occulta del suffragio. E si è parlato per ­ciò di democrazie apparenti, di democrazie manipolate e di de ­mocrazie mafiose.

L’Italia unita, è vero, fu fatta e guidata dai notabili, senza partecipazione di popolo, ma perché mai avrebbe dovuto ol ­trepassare quei limiti oligar ­chici, che, secondo le dottrine più moderne, sono invalicabili? Bisogna aggiungere poi che in ogni caso il suffragio ristretto, allargatosi del resto col De ­pretis nel 1882, corrispondeva alle idee del tempo e non era una fisima reazionaria dei diri ­genti italiani.

Benjamin Constant, uno dei grandi maestri del pensiero li ­berale europeo, nel suo famoso « Cours constitutionnel » non solo poneva il censo come pre-re ­quisito essenziale del diritto di voto, ma addirittura esigeva che si trattasse di censo fondiario, perché, a suo giudizio, solo i proprietari terrieri ricevevano un’educazione morale capace di renderli prudenti amministrato ­ri degli affari pubblici. Il suo ideale democratico era quello di una società governata da saggi padri di famiglia, agri ­coltori. D’altra parte al di fuori della borghesia, dalla quale ve ­niva reclutata la classe politi ­ca, non esistevano altri ceti in grado di concorrere con una propria iniziativa al governo del paese. Il movimento operaio, presto confiscato dall’ideologia socialista, nacque solo quando ebbe da noi inizio il processo d’industrializzazione. Né la bor ­ghesia al potere gli sbarrò la strada o tentò di sbarrargliela.

Il codice penale Zanardelli fin dal 1887 abolì il divieto di « coalizione » (cosi si chiamava ­no i sindacati operai) che esi ­steva nel codice sardo, esteso poi con l’unità a tutto il Paese. E il marchese di San Giuliano ancora prima, in un discorso alla Camera veramente profeti ­co, aveva reclamato per i la ­voratori la più assoluta liber ­tà di associazione sindacale, perché disse: « non si può ne ­gare agli operai il diritto di coalizzarsi, quando il capita ­lismo è già di per se stesso una coalizione ».

Non si può infine consentire col Perticone quando, all’evi ­dente scopo di bollare di spi ­rito classista i governi dell’epo ­ca, attribuisce la politica pro ­tezionista alla compiacenza e connivenza dei governi verso gli industriali. Il protezionismo non fu affatto un fenomeno italia ­no ma europeo. Ed ebbe la sua origine nello spirito nazionali ­stico, che voleva subordinare l’economia alla nazione.

Il vangelo protezionista fu scritto da Fichte, il primo na ­zionalsocialista del mondo ger ­manico, il quale, se nei « Reden » fondò il nazionalismo, nel « Geschlossene Handelsstaat » fondò l’economia comunista chiusa e interamente autarchica. Meno esaltato e rigido del filosofo Fichte, ma più pratico, venne poco dopo l’economista List, il quale nel suo celebre trattato: « Die National – oeconomie », se non erro del 1832, dettò le ta ­vole fondamentali del più per ­fetto protezionismo. Che il pro ­tezionismo, in un certo momen ­to, abbia giovato agli industriali è certo, ma è altrettanto certo che esso non fu voluto per favo ­rirli, ma piuttosto per l’utopi ­smo autarchico, di cui si nutri ­rono più o meno tutti i paesi influenzati dalle ideologie na ­zionaliste. Gli ultimi libero ­scambisti europei furono Ca ­vour e Napoleone III.


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2 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 7 Dicembre 2011 @ 20:33

    Che il Risorgimento sia stato un movimento di elite è un’idea che mi ha sempre persuaso a metà, peggio quando,  venendo alle tesi di Perticone    rieditate da Bart con la consueta perizia di cercatore, quelle stesse elites   sono riconosciute  quale elemento fondante  di successive, e  malagurate,  consorterie. L’Italia del quarantennio che va da Porta Pia all’impresa di Libia fu una fucina di bene e di male, di tutto il bene e male di cui ha patito e goduto per il secolo successivo e gli albori dell’attuale.  E però  di questa mescola di tante pezze io  preferisco ricordare i colori più intensi, specie in un momento  come questo  in cui è doveroso appigliarsi a certi valori.  
    Dico allora  che  fu anche l’Italia del pareggio di bilancio, della Destra  liberale che  compì sino in fondo la sua funzione, fu l’Italia   dei primi movimenti socialisti sbocciati dal seme anarchico, fu il Paese che   ebbe  da affrontare    problemi    ciclopici quale l’abbattimento delle  antiche  sue dogane, l’unificazione delle leggi, la costruzione di una lingua  per necessità  condivisa,  il tentativo  di porre  un suo accento   nel  vociare delle cancellerie europee, e tanto altro. E’  difficile descrivere  e al tempo stesso  capire   quell’Italia, come del resto sempre lo è stato  vista  la sua storia.  
     E allora non credo di bestemmiare se come  lume illustrativo di quel periodo  consiglio un romanzuccio, la storia di un   impudente monello  scritta da uno squattrinato  giornalista. Che mica produsse per spiegare e comprendere, no, lui doveva inventarsi quattro  fregnacce alla settimana  per pagare i creditori. C’è l’Italia in questa storia della storia, tutta quanta.

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Dicembre 2011 @ 00:11

    Sei sempre un lettore speciale, Carlo.   Ciao.

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