STORIA: I MAESTRI: Ma non era un’Italietta5 Dicembre 2011 di Panfilo Gentile « L’Italia contemporanea dal 1871 al 1948 » di Giacomo Per ticone ha avuto una nuova e riveduta edizione (Mondadori) pochi anni dopo la prima, se gno di meritata fortuna. Me ritata, perché di tutte le opere consimili (Gioacchino Volpe, Salvemini, Smith, Barbagallo ecc.) questa di Perticone mi sembra una delle più lontane dallo spirito polemico, che più o meno scopertamente circola nelle altre. Non voglio entrare qua nella vecchia disputa sul la possibilità di una storiogra fia distaccata quando si rac contano fatti contemporanei o recenti. La mia opinione è che nessun racconto può non ri sentire dell’estro, dei sentimen ti, delle opinioni, dell’intelli genza del narratore, e che per ciò nessuna storia può essere distaccata. Dirò però che la storiografia, che oggi si chia merebbe « impegnata », non è sempre necessariamente una cattiva storiografia. Molte vol te la passionalità, anche la più faziosa, può servire anzi a sco prire verità meglio di un esa me freddamente obiettivo. Un testimone interessato non è necessariamente un testimone mendace. Fatta questa premessa, il mio elogio della storia italiana con temporanea di Perticone vuol significare che essa ha lasciato quasi sempre da parte la cat tiva polemica che trasforma un giudizio in un argomento, un racconto in un’arringa. Per quanto riguarda al periodo che va dal 1871 al1915 mi sembra che Perticone si è tenuto lar gamente al Croce e alla misu rata e giudiziosa rivalutazione fatta dal Croce di un periodo quasi sempre trattato maluc cio, anche perché le figure che vi apparvero protagoniste si prestarono facilmente a giu dizi severi. La grettezza op portunistica di Depretis, l’im pulsività fantasiosa di Crispi, le incertezze di Rudinì, la per fidia di Giolitti. E quindi il trasformismo, l’Italietta, Adua, Bava-Beccaris,la Banca Ro mana, il ministro della mala vita e cosi via per cui si spaz zava come mondezza un mezzo secolo circa di storia italiana, e si salvava appena, quando si salvava, il decennio ultimo del la preminenza giolittiana 1901- 1913. Croce ha raddrizzato il giudizio su questo mezzo seco lo e raddrizzare non vuol dire mettere il roseo dove era il nero, ma vedere accanto al nero anche il roseo. Perticone ha accolto la correzione cro ciana e dobbiamo dargliene merito, tanto più che Pertico ne è socialista e come tale poteva essere facilmente ten tato a fare una requisitoria di un periodo dai socialisti ricordato con indignazione. Perticone non sempre, tut tavia, si libera dei vecchi clichés pre-crociani. C’è una re miniscenza del mito della « ri voluzione mancata », per il qua le si suole rappresentare l’in sieme delle forze politiche pre valse nel concludere il Risor gimento e nell’iniziare la sto ria dell’Italia unita come una ristretta consorteria conserva trice, staccata dalle masse e indifferente alle esigenze po polari. « Rimane â— così scrive il Perticone â— dunque dopo il 1861 e dopo il 1870 quella frattura che ci aveva dato un Risorgi mento senza popolo, una clas se politica formata per coopta zione e destinata ad organiz zarsi in clientele lasciando i ceti più numerosi a vivere una loro vita, che, si potrebbe dire, ignora l’unità e le istituzioni rappresentative… L’Italia uni ta con le sue istituzioni era l’Italia legale diversa dall’Ita lia reale, dall’Italia della quo tidiana fatica per il pane quo tidiano, l’Italia del lavoro sa lariale… Rimaneva invisibile quel filo che legava i ceti capi talistici e imprenditoriali con i gruppi dirigenti, operanti con energia e successo in materia di protezioni, di dazi, di inter venti dello Stato ». A codesta interpretazione del la nostra storia, un seguace di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto potrebbe opporre che tutta la storia è stata mossa da gruppi minoritari e che a nessuna ha mai partecipato co ralmente la massa. La demo crazia governo di popolo non è che un mito e proprio adesso che le istituzioni democratiche hanno trovato la loro più am pia attuazione, gli studiosi di sociologia e di scienza politica si sono accaniti a dimostrare che in realtà la volontà popo lare rimane sempre controllata e diretta dalle « élites » egemoniche, le quali, poi, una volta conquistato il potere, vi si conservano servendosi del potere per l’irreggimentazione e per la persuasione occulta del suffragio. E si è parlato per ciò di democrazie apparenti, di democrazie manipolate e di de mocrazie mafiose. L’Italia unita, è vero, fu fatta e guidata dai notabili, senza partecipazione di popolo, ma perché mai avrebbe dovuto ol trepassare quei limiti oligar chici, che, secondo le dottrine più moderne, sono invalicabili? Bisogna aggiungere poi che in ogni caso il suffragio ristretto, allargatosi del resto col De pretis nel 1882, corrispondeva alle idee del tempo e non era una fisima reazionaria dei diri genti italiani. Benjamin Constant, uno dei grandi maestri del pensiero li berale europeo, nel suo famoso « Cours constitutionnel » non solo poneva il censo come pre-re quisito essenziale del diritto di voto, ma addirittura esigeva che si trattasse di censo fondiario, perché, a suo giudizio, solo i proprietari terrieri ricevevano un’educazione morale capace di renderli prudenti amministrato ri degli affari pubblici. Il suo ideale democratico era quello di una società governata da saggi padri di famiglia, agri coltori. D’altra parte al di fuori della borghesia, dalla quale ve niva reclutata la classe politi ca, non esistevano altri ceti in grado di concorrere con una propria iniziativa al governo del paese. Il movimento operaio, presto confiscato dall’ideologia socialista, nacque solo quando ebbe da noi inizio il processo d’industrializzazione. Né la bor ghesia al potere gli sbarrò la strada o tentò di sbarrargliela. Il codice penale Zanardelli fin dal 1887 abolì il divieto di « coalizione » (cosi si chiamava no i sindacati operai) che esi steva nel codice sardo, esteso poi con l’unità a tutto il Paese. E il marchese di San Giuliano ancora prima, in un discorso alla Camera veramente profeti co, aveva reclamato per i la voratori la più assoluta liber tà di associazione sindacale, perché disse: « non si può ne gare agli operai il diritto di coalizzarsi, quando il capita lismo è già di per se stesso una coalizione ». Non si può infine consentire col Perticone quando, all’evi dente scopo di bollare di spi rito classista i governi dell’epo ca, attribuisce la politica pro tezionista alla compiacenza e connivenza dei governi verso gli industriali. Il protezionismo non fu affatto un fenomeno italia no ma europeo. Ed ebbe la sua origine nello spirito nazionali stico, che voleva subordinare l’economia alla nazione. Il vangelo protezionista fu scritto da Fichte, il primo na zionalsocialista del mondo ger manico, il quale, se nei « Reden » fondò il nazionalismo, nel « Geschlossene Handelsstaat » fondò l’economia comunista chiusa e interamente autarchica. Meno esaltato e rigido del filosofo Fichte, ma più pratico, venne poco dopo l’economista List, il quale nel suo celebre trattato: « Die National – oeconomie », se non erro del 1832, dettò le ta vole fondamentali del più per fetto protezionismo. Che il pro tezionismo, in un certo momen to, abbia giovato agli industriali è certo, ma è altrettanto certo che esso non fu voluto per favo rirli, ma piuttosto per l’utopi smo autarchico, di cui si nutri rono più o meno tutti i paesi influenzati dalle ideologie na zionaliste. Gli ultimi libero scambisti europei furono Ca vour e Napoleone III. Letto 2217 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 7 Dicembre 2011 @ 20:33
Che il Risorgimento sia stato un movimento di elite è un’idea che mi ha sempre persuaso a metà, peggio quando, venendo alle tesi di Perticone rieditate da Bart con la consueta perizia di cercatore, quelle stesse elites sono riconosciute quale elemento fondante di successive, e malagurate, consorterie. L’Italia del quarantennio che va da Porta Pia all’impresa di Libia fu una fucina di bene e di male, di tutto il bene e male di cui ha patito e goduto per il secolo successivo e gli albori dell’attuale. E però di questa mescola di tante pezze io preferisco ricordare i colori più intensi, specie in un momento come questo in cui è doveroso appigliarsi a certi valori.
Dico allora che fu anche l’Italia del pareggio di bilancio, della Destra liberale che compì sino in fondo la sua funzione, fu l’Italia dei primi movimenti socialisti sbocciati dal seme anarchico, fu il Paese che ebbe da affrontare problemi ciclopici quale l’abbattimento delle antiche sue dogane, l’unificazione delle leggi, la costruzione di una lingua per necessità condivisa, il tentativo di porre un suo accento nel vociare delle cancellerie europee, e tanto altro. E’ difficile descrivere e al tempo stesso capire quell’Italia, come del resto sempre lo è stato vista la sua storia.
E allora non credo di bestemmiare se come lume illustrativo di quel periodo consiglio un romanzuccio, la storia di un impudente monello scritta da uno squattrinato giornalista. Che mica produsse per spiegare e comprendere, no, lui doveva inventarsi quattro fregnacce alla settimana per pagare i creditori. C’è l’Italia in questa storia della storia, tutta quanta.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Dicembre 2011 @ 00:11
Sei sempre un lettore speciale, Carlo. Ciao.