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STORIA: I MAESTRI: Palestina: le radici dell’odio

12 Maggio 2011

di Virgilio Lilli
[dal “Corriere della Sera”, martedì 4 maggio 1970]

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE Amman, 3 agosto.

Frequentando un poco gli arabi si finisce col doman ­darsi se esiste in essi un sen ­timento di vero e proprio odio per gli israeliani; giu ­sto come avviene quando si frequentano gli israeliani, che ci si domanda se veramente essi nutrano un autentico odio per gli arabi.

Infatti, a parte la routine quotidiana di sangue carat ­teristica di un mondo nel quale esiste uno stato di guerra guerreggiata, con ar ­tiglieria, aviazione, carri ar ­mati e insomma tutti gli at ­trezzi tecnici della morte in scala industriale; a parte la adozione della guerriglia e della controguerriglia con tutti gli ingredienti del ter ­rore e soprattutto con tutta l’amoralità del « fine che giustifica il mezzo », e quin ­di con il massacro, la stra ­ge, l’imboscata, la legge del taglione, l’indiscriminazione del bersaglio che può essere costituito dal bambino come dal vecchio, dalla massaia come dal malato, dalla scuo ­la, dall’ospedale e così via; a parte la comunicazione fra i contendenti consistente solo nel colpire, nell’uccidere, nel distruggere; a parte ciò, l’im ­pressione che un osservatore estraneo ha nel Vicino Oriente frequentando arabi e israeliani è quella dell’assen ­za nell’animo degli uni e de ­gli altri precisamente del sentimento dell’odio.

Come l’amore, l’odio ha una carica di natura sensitiva più che raziocinante. Esso è qual ­cosa che si sente prima di essere qualcosa che si pensa. L’amore è determinato da una reciproca corrente di con ­genialità, raramente traduci ­bile in termini di logica. Co ­sì l’odio nasce da una reci ­proca radiazione di rigetto, nella quale sono mescolate sensazioni come il disgusto, la repellenza, la reazione a stimoli negativi e altro; una specie di allergia, dunque, ra ­ramente controllabile dai no ­stri centri di analisi. Si po ­trebbe affermare che l’odio è l’istinto della non-coesisten ­za, potenzialmente la radice di una lotta, della guerra. I paesi europei ci danno alcuni chiari esempi di un fenomeno simile, solo dominato e controllato dal progredire della civiltà. Probabilmente l’Europa unita sarà, quando sarà, un esempio tipico (e altamente civile) della haine maltrisée.

Cerniera di continenti

Se esiste un paese nel qua ­le la coesistenza è il linea- mento fondamentale della sua stessa storia, questo è il cosiddetto Vicino Oriente. Cerniera di continenti â— Eu ­ropa Africa Asia â— e quindi crocevia di popoli e di razze, il vicino Oriente è semmai un melting pot, un crogiolo che da millenni affianca gen ­ti di diverso sangue, di di ­versa origine, di lingue e storia diverse e così via. Dal ­la razza aramaica a quella araba – attraverso gli apporti egiziani, ittiti, assiri, ebrei, con piccole contribuzioni armene e curde addirittura – gli incontri e le mescolanze di natura etnica costituiscono la ragione d’essere della stessa società di questa fetta di mondo. Con la conseguenza di avere mes ­so insieme religioni, favelle, vocazioni, superstizioni, usi e costumi eterogenei e allo stesso tempo concomitanti. Dalla Bibbia al Guide Bleu, la bibliografia (è la parola) del Vicino Oriente è una con ­tinua smentita all’odio, alla incomunicabilità, alla aller ­gia razziale. Né le guerre di cui è intessuta la storia della regione (plurimillenaria) possono provare il contrario.

Le guerre non hanno nulla a che vedere con l’odio; sono un puro e semplice sol ­feggio del tempo, almeno fino a Hiroshima.

E’ noto che, prima del con ­flitto determinato dalla ces ­sazione dei Mandati sulla Palestina, arabi e ebrei ave ­vano vissuto, o meglio con ­vissuto, in questa contrada in rapporti di grande dime ­stichezza. Esplosioni di anti ­semitismo non erano mancate; ma erano semmai i ri ­flessi di persecuzioni ebrai ­che di altri paesi tutto som ­mato stranieri al Vicino Oriente. E anzi molte comu ­nità ebraiche installatesi in Palestina fuggivano precisa ­mente quelle persecuzioni trovando tolleranza, lavoro e pace proprio nelle terre che oggi registrano le più alte punte del cosiddetto odio fra arabi e israeliani.

Ma sono cose note, come è noto che una gran parte dei territori che costituirono l’iniziale Stato di Israele era stata acquistata regolar ­mente dai sionisti ai pro ­prietari palestinesi i quali vedevano di buon occhio l’aumento d’una popolazione che avrebbe vitalizzato il paese. L’essenziale è rilevare come proprio alla radice del ­l’animus così degli arabi co ­me degli ebrei installatisi in Palestina non esista quella repellenza reciproca attiva che nega e rifiuta, come si diceva, non solo la coabita ­zione ma la benché minima tangenza.

Si impone allora di ana ­lizzare quale specie di sen ­timento sia quello che degli arabi e degli israeliani fa og ­gi avversari all’ultimo san ­gue, al punto da essere de ­finito odio nel senso più in ­tegrale dell’espressione.

Io direi, alla luce della esperienza, che esistono pres ­so gli arabi alcuni odii, al plurale, nei confronti di Israele. E sono sentimenti di natura razionale, proprio il contrario dell’odio secondo quanto abbiamo visto più so ­pra. Gli arabi nutrono per Israele un « odio da commer ­cio », per esempio: il quale discende dal timore d’essere battuti da antagonisti tradi ­zionalmente abilissimi nei commerci. Il Libano è un particolare modello di un si ­mile odio « commerciale », che non è tale, al contrario, nella gran massa dei pale ­stinesi.

Costoro, infatti, sentono per Israele un odio che chia ­merei «da progresso »; e cioè temono negli israeliani degli innovatori che distrug ­gano la tradizione rustica e pastorale della quale sono ge ­losi custodi per atavica son ­nolenza e per contemplativo assenteismo. La loro patria è il blando lavoro, assai simile all’ozio, fondato su una esi ­genza incoercibile di non im ­pegnare il sogno nella realtà.

Amore del deserto

L’odio per Israele dei be ­duini della Giordania è « odio da mobilità », l’odio della se ­dentarietà. Senza forse ren ­dersene conto, essi temono che gli israeliani gli impon ­gano uno stop; che la cre ­scita d’un paese moderno, con le città e le industrie e le campagne-officina, li strap ­pi al nomadismo, alla voca ­zione vagabonda, privandoli tutto sommato del deserto atavico, interiore più che esteriore, che si trascinano dietro. E gli egiziani temono di non reggere alla concorrenza creatrice, alla tensione inventiva, all’accelerato rit ­mo produttivo e organizzati ­vo degli israeliani: avvertono confusamente ma quasi dolo ­rosamente in essi una capa ­cità di dominare la natura che ad essi manca in modo assoluto; essi sono ai loro oc ­chi più la diga di Assuan che il Nilo, più il canale di Suez che il deserto: è l’odio da complesso di inferiorità, tipico.

Quanto ai siriani, gli israe ­liani si aggiungono agli altri popoli della zona a rendere sempre più utopistico il loro sogno di fare coincidere la Siria politica di oggi con la grande Siria geografica pro ­prio nel senso scientifico geo ­fisico che abbraccia quasi tutto il Vicino Oriente dall’Irak al Sinai. Già ostacolati da tutti gli arabi fratelli (ivi compresi gli egiziani) nella visione di quel pansirianismo ch’è all’origine della loro ir ­ritabilità e del loro cattivo umore, l’apparizione di Israe ­le è per essi un affronto e una beffa allo stesso tempo, come è un affronto, e una beffa insieme, la goccia che fa traboccare il vaso; e que ­sto è odio da megalomania.

A guardarci bene, con ani ­mo freddo, si tratta di tutti sentimenti nei quali manca la fibra irrazionale dell’odio in assoluto, l’origine allergica, dico, dell’odiare; e abbonda, al contrario, la fibra del ti ­more, ch’è un sentimento più razionale, mediato, passibile ovviamente d’essere rimosso, rimosse le cause. Tutt’altra cosa, dunque. Timore, fra l’al ­tro, non d’una aggressione â— se ci si pensa un attimo â— bensì d’uno stimolo, d’un im ­pulso, d’una carica vitale che, dopo tutto, ha il segno positi ­vo e non negativo. Il rifiuto d’un confronto, l’irritazione per la squilla d’una sveglia; ma soprattutto il sospetto di una spendita di energie che esige una gara.

Non odio. C’è una conti ­guità razziale e geoetnica fra gli israeliani e gli arabi che in superficie, anzi, li affra ­tella. A parte il loro mono ­teismo originario, il loro semitismo è un elemento di pa ­rentela direi vegetale, polloni dello stesso albero, sia pure su rami diversi. Come i lom ­bardi e i siciliani, i prussiani e gli austriaci, i bretoni e i provenzali. Italiani i primi, tedeschi i secondi, francesi gli ultimi. Ma con quella super-carica pragmatica gli uni, e senza gli altri. E si sarebbe tentati di dire – se nelle condizioni attuali non potesse suonare parados ­sale â— che sarebbe più perti ­nente parlare, se non pro ­prio d’amore, di qualcosa co ­munque d’opposto all’odio. Una ammirazione inconfessa ­ta, una soggezione anche, ma cocente, che preferisce il ri ­pudio all’alleanza, lo scontro addirittura all’incontro.

Come finirà appunto lo scontro ora in corso è diffici ­le prevedere. Ma se, come è probabile, sia pure dopo una lunghissima e tormentatissima trafila di crisi, lo scon ­tro dovesse risolversi nella pace, il Vicino Oriente avrà trovato negli arabi e negli israeliani le due componenti di una unica forza che forni ­rà al libro della civiltà mo ­derna e delle sue sorprese un nuovo capitolo; e forse una nuova problematica per il re ­sto del mondo.


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Bart