Tozzi, Federico7 Novembre 2007 “Con gli occhi chiusi”Mondadori, pagg. 156, Euro 6,20 In men che non si dica, già subito nelle pagine di avvio ci troviamo immersi nei profumi della campagna toscana, nei dintorni di Siena, per la precisione.  La scrittura sfrondata di ogni orpello, essenziale, verista, scavata nella roccia, e di cui ci vien nostalgia e si conserva volentieri memoria (come, del resto, di quella che impreziosisce l’altro capolavoro: “Tre croci”), odora di terra, di olivi, di vigne, di frutti. Non solo ci troviamo nella campagna, ma all’interno di uno spaccato di vita contadina, con il padrone Domenico che, quando non è a gestire la trattoria “Il Pesce Azzurro”, passa il suo tempo a controllare pignolescamente i lavori dei suoi “assalariati”, e se c’è qualcosa che non va “in presenza sua faceva rifare il lavoro”. Ecco un brano del suo ritratto, tra i più belli del libro: “Comprava un cappello all’anno, portandolo tutti i giorni; finché la tesa, che si adagiava sugli orecchi, rovesciandoli più giù, non fosse untuosa.” Gustate questi nomi: Giacco, Masa – che sono i vecchi genitori di Rebecca, la balia di Pietro, il figlio del trattore -, Ghìsola, Palloccola, Pipi, Nosse, Ceccaccio. Ma un’ombra pare vivere insieme coi personaggi; vi è un’attesa di fatalità che si mantiene lieve, non incombe, però la percepiamo, e ci dà il senso di un’esistenza tuffata nella natura che, per ciò stesso, è prigioniera del suo mistero. La superstizione è il suo tramite, e lo sono l’oscurità della sera sempre tetra, malinconica, lo sferragliare dello donne poco ciarliere, Ghìsola con la sua inquieta infanzia (“sentiva malvolentieri che tutto ciò che esiste non era soltanto in lei”), che la induce ad appropriarsi di un nido di “cinque passerotti” e “schiacciò con le dita la testa a tutti”, la parsimonia di Masa, che ha paura di finire troppo presto il pane che ha addentato. Lo stesso Pietro, coetaneo di Ghìsola, “Cercava di superare le sue malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto” e “Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi.” Non si poteva creare meglio uno spicchio di civiltà contadina, la cui quotidianità , arcaica e immobile nei secoli, è minacciata da un desiderio di mutamento, da un’insoddisfazione che parte sì dai ragazzi, corroborata da sogni e desideri, ma si trasmette, non ancora del tutto decifrata, agli adulti e perfino ai vecchi, come Masa. La stessa atmosfera di attesa si percepisce nella descrizione di alcuni avventori della trattoria: Adelmo “anziano, basso e corpulento, con i baffi sempre in bocca”, Giacomino “anche mangiando appoggiava la testa alla mano, tirandosi con le dita i capelli vicini alla nuca”, Bibe “metteva il mento sopra il pugno chiuso, in proda alla tavola e stava così con gli occhi giù, divertendosi ad ascoltare, senza veder nessuno”, Pino “Si stropicciava gli occhi con un dito, con il viso ridente senza sapere perché”. Sono veri e propri quadri veristi in cui il lento trascorrere del tempo resta impregnato degli umori di un mutamento che incombe. Pur stando spesso insieme, ritrovandosi, questi uomini (perfino il cane Toppa “finiva un seccarello terroso; tenendolo fermo con le zampe, per roderlo meglio”) sono disegnati nell’ombra di una solitudine che li accompagna e che essi vestono inconsapevolmente, come l’abito di tutti i giorni. Si ha la sensazione che una natura immane, dall’alto della sua immensità , li osservi ad uno ad uno come puntini lontani, sui quali sta per calare una qualche decisione. Pur così vivi e così concreti, questi personaggi hanno in sé lo smarrimento delle piccole cose inserite nel mistero di un vasto disegno universale. L’amore capriccioso (“quell’indefinitezza”) tra i due adolescenti Pietro e Ghìsola (che si danno il lei che s’usava tra padrone e servitù) sembra il primo incerto fiorire di una comunicabilità diversa dal passato, e anche se noi sappiamo che forse tutti gli amori nascono e si sviluppano allo stesso modo, in questo romanzo esso irradia una luce sull’immobilità del tempo, come un presagio che cominci a stamparsi tra gli uomini e a prendere la sua forma contagiosa. Non mancano momenti in cui avvertiamo quanta concordia di sentimenti e di ispirazione vi sia tra Tozzi e scrittori venuti dopo di lui, toscani in prevalenza, come Pratolini, e soprattutto Carlo Cassola, che della Toscana fece la sua terra d’elezione e descrisse con la medesima tenerezza. Più andiamo avanti nella lettura, più l’aspra inquietudine dei giovani Pietro e Ghìsola (“Ghìsola sarebbe stata la rinnovatrice”) prende il sopravvento e s’insinua a frangere la consuetudine, e gli anziani Rebecca, Domenico, Masa scambiano per bizze e testardaggini giovanili ciò che cresce di diverso e di nuovo dentro di loro: (Ghìsola di se stessa: “Doveva esser quella la sua vita?” e il padre Domenico di Pietro: “Proprio il figlio sfuggiva alla sua volontà ?”). Dirà Pietro divenuto più grande e abbracciate le idee socialiste: “hanno rubato perché sono poveri.” La povertà è tutta intorno ai personaggi, è l’alone che li circonda, e Tozzi decide di metterla in primo piano quando ci descrive i mendicanti che si affollano all’uscio della trattoria, dove viene loro distribuito del pane secco, come a ricordarci che dei patimenti l’uomo, ovunque si trovi, non è ancora riuscito a liberarsi. Pietro vede tutto questo. La minuta descrizione delle azioni che si compiono tra gli uomini, le medesime da secoli, condite dagli stessi immutabili sentimenti, dà nno alla storia il suggello di un seme che sempre germina nel ventre di ciò che pare immobile; ed una gravidanza lunga di anni, ma viva e operante, stimola ogni volta, e perpetua, la curiosità e l’ardimento del vivere. Con maestria, l’autore ci fa desiderare la storia, alternando la descrizione incantata del paesaggio (Firenze e Siena ne escono esaltate) con la vicenda dei personaggi, e quanto più l’inquadratura si restringe sui principali, che diventano Pietro, sempre più innocente, e Ghìsola, sempre più incauta e smarrita, tanto più si inserisce tra loro, come testimone dell’immutabilità , la natura che li sovrasta: “Quella bellezza meravigliosa l’umiliava”. L’atmosfera comincia a impregnarsi non più d’inquietudine, di ansia, di desiderio, bensì di malinconia e di squallore, e ci accorgiamo, attraverso la contaminazione che macchia la nuova gioventù, Ghìsola soprattutto: “con la carne imbevuta di voluttà ”, che la lezione che Tozzi si avvia a darci sarà una delle più desolate. Letto 3010 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||