di Gabriele Baldini
[da “Corriere della Sera” di giovedì 11 gennaio 1968]
Tra i romanzieri dello «stupido » Ottocento, Dickens è quello di cui, mentre narra, meno si sente la presenza: un po’ perché essa è così ingombrante che non si può delimitare, e riconoscere cioè dove cominci e dove finisca, un po’ perché i personaggi con la loro comunicativa e la loro autonomia, finiscono col mettere nel sacco il lettore e paralizzarne l’attenzione e gli affetti. Chesterton sosteneva a ragione che si finisce con l’amare anche i personaggi negativi, come Fagin o Uriah Heep o Gradgrind e che, se stiamo troppo a lungo lontani dalla pagina, se ne desidera in modo malsano la ricomparsa. Segno, diremmo noi, d’una rinunzia a conoscerli profondamente: questo non accade mai con i personaggi negativi di Dostojewski, che pure per altro verso, tanto deve a Dickens.
Una delle ragioni la offre George Orwell, osservando che i personaggi dickensiani sono sempre veduti nella vita privata, non come membri funzionali d’una società. « Può descrivere meravigliosamente un’apparenza, non sempre indagare un processo. I vividi quadretti che riesce a imprimere nella nostra memoria son quasi sempre immagini di cose viste in momenti di ozio, dalla finestra d’una locanda o da un calesse ».
Non c’è dubbio che in questo vada riconosciuto un limite non solo alla facoltà espressiva ma al giudizio morale: ma a chi è abituato alla frequentazione dei romanzieri d’oggi, Dickens garantisce sempre una sensazione corroborante e rinfrescante proprio per questa facoltà contraddittoria di farsi da parte e osservare le proprie creature quasi casualmente e insieme di non risparmiarsi mai nella fatica di decidere il loro destino con crudele impassibilità.
Martin Chuzzlewit – tradotto da Bruno Oddera, con una meditata nota introduttiva di Piero Bertolucci (Milano, Adelphi, L. 6000) – appartiene al Dickens maggiore ed esemplifica mirabilmente questa condizione: anche ai personaggi più detestabili, come l’assassino Jonas Chuzzlewit, la levatrice Mrs Gamp – il cui eloquio meritò addirittura una traduzione in esametri greci di Samuel Butler – e soprattutto l’ipocrita dorato Seth Pecksniff, si finisce col portare un sordo affetto solo perché sono garantiti da lui. Pecksniff che, dopo essersi lasciato scaldare le mani al fuoco « con la stessa benevolenza che se fossero state le mani d’un altro », si scalda la schiena « come se fosse la schiena d’una vedova, o la schiena di un orfano, o la schiena di un nemico, o una schiena, insomma, che un uomo meno pietoso avrebbe lasciata tranquillamente assiderare » soverchia di tanto tutti gli altri personaggi da farsi protagonista criptico del romanzo, anche se questo non passa sempre necessariamente per i suoi casi. Il Chuzzlewit mancava da troppo tempo in libreria, e il suo ritorno, in specie per l’eccellente presentazione – che include le famose illustrazioni originali di H. K. Browne detto «Phiz », consustanziali all’opera e, debbo confessare, riprodotte anche meglio che nell’edizione della Oxford Press – va salutato con soddisfazione. E sarebbe da augurarsi che vengano presto a tenergli compagnia Bleak House, Hard Times e Little – anch’essi da molto assenti – liberando così il lettore che non sappia l’inglese dalla condizione di doversi scegliere il suo Dickens tra quei cinque o sei titoli che, televisione aiutando, ritornano di continuo.
Certo Chuzzlewit, come tutto il Dickens maturo, pone problemi al lettore d’oggi, tanto per la lunghezza – le 1300 pagine, anche finite le vacanze, si fanno leggere svelte e leggere in grazia del loro alto quoziente d’intrattenimento – quanto per la sua struttura addizionativa: noi leggiamo oggi i romanzi del Dickens estratti fuor delle gabbie della pubblicazione a dispense, in cui furono allora non solo inventati ma dimensionati. Il lettore d’allora impiegava a legger le venti puntate i due anni o poco meno che l’autore aveva impiegato a scriverle. Oggi la gabbia si sente: ha lasciato tracce difficili da mascherare, ed è ragione d’una certa insofferenza per un ritmo così artificialmente teso e allentato a secondare un respiro che arranca dietro il nostro passo affrettato.
Docilmente sottomettendosi alle leggi del nuovo mercato letterario, che sostituisce al lettore il consommateur, lo scrittore, come osservava Tocqueville nella Dèmocratie en Amérique (1835) – che esce men che dieci anni innanzi il Chuzzlewit – deve «stupire per poter piacere » concentrandosi « sull’intrattenimento delle passioni piuttosto che sull’incanto del gusto ». In Dickens si industrializza addirittura il fenomeno grazie al quale al lettore è garantita l’emozione mensile che si rinnova con puntuali scadenze e che non può soffrire di restar delusa. « Falli ridere, falli piangere, ma soprattutto falli aspettare » è la formula di successo raccomandata dal contemporaneo Wilkie Collins.
Altra difficoltà per il lettore d’oggi potrebbe essere l’indecisione etico politica di questo dittatore del destino dei suoi personaggi. Visto che la resa delle dispense aumentava – forse per l’inesistenza d’un intreccio: Chuzzlewit è, fin più che gli altri romanzi dickensiani, solo una galleria di ritratti – Dickens decise al 16 ° capitolo di imbarcare il suo protagonista per gli U.S.A., il che gli avrebbe permesso di utilizzare le impressioni d’un viaggio compiuto nel ’42. Ma queste impressioni erano state negative, soprattutto perché lo scrittore era accorso in U.S.A. con l’ansia di un fellow traveller, di un generico ribelle, per dirla con Edmund Wilson, smanioso di sentirsi vivere in una società in cui siano state abolite le classi, e invece si trovò incastrato in partizioni anche più ambigue sguscianti pericolose ed esclusive che in patria. Tutto questo, anziché stimolarlo a un furore di ricerca, lo rassegnò a una protesta acritica. È per questo che il risentimento sociale, sempre così fecondo nel Dickens, in Chuzzlewit appare fuorviato e annebbiato, e la esperienza non risolta lascia alcuna sgradevolezza nel lettore.
Resta una piccola folla di personaggi e di casi indimenticabili: Tom Pinch, Mark Tapley, il vecchio Chuzzlewit – il giovane, e protagonista, lascia tutti un po’ indifferenti, a cominciare dal romanziere – la bas bleu Mrs Hominy, « an American Literary celebrity », l’interno della pensione Todgers all’immortale capitolo IX, e resta soprattutto Pecksniff, degno di Molière.
Commenti
2 risposte a “Un dittatore di personaggi: Dickens”
Ho letto con grande interesse l’approfondita e sapientemente articolata indagine sul grande Charles Dickens. Condivido l’ampia e lucida analisi dell’autore. Vorrei sottolineare, se ve ne fosse bisogno, la funzione etico-sociale dell’opera di Dickens, volta a darci un quadro delle miserevoli condizioni di vita negli “slums”, divenendo uno dei principali ed efficaci oppositori nei confronti del cosiddetto “compromesso vittoriano”, che nascondeva, tra l’altro, il proprio egoismo con qualche elemosina e tendeva a nobilitare enfaticamente le conquiste coloniali.
Inoltre non va dimenticato il grande umorismo espresso meravigliosamente dal romanziere inglese, che è riuscito, in modo mirabile, a sottolineare e colorire i difetti, la lingua, i vizi, ecc. dei suoi connazionali, producendo un umorismo da definirsi universale, da cui molti scrittori hanno poi attinto a piene mani.
Gian Gabriele Benedetti
Gabriele Baldini è stato un maestro della letteratura inglese. L’essere riuscito a trovare nel mio archivio alcuni suoi articoli di molto tempo fa (chissà quanti giovani non lo conoscono) mi ha colmato di gioia.
Un abbraccio, Gian Gabriele.