Riflessioni sulla decima musa.

di Francesco Improta

Per quanto possa sembrare strano, il cinema è ancora oggi, a più di un secolo di distanza dalla sua nascita, oggetto di pregiudizi ed incomprensioni, ed è relegato in una posizione ancillare e subalterna rispetto alle altre forme di espressione; non meraviglia, quindi, la sua assenza dal mondo della scuola, sempre più indifferente, a dispetto delle tante riforme volute dalla classe politica, al linguaggio delle immagini. Il Cinema, invece, non solo è un veicolo culturale di straordinaria efficacia e suggestione, ma un’arte compiuta, autonoma, dotata di un linguaggio specifico, anzi – come dissero Ricciotto Canudo e Vladimir Majakovskij – il Cinema è l’arte totale che riassume in sé tutte le altre arti e verso la quale, all’inizio del ventesimo secolo, esse necessariamente confluivano. Non è un caso che oggi tutte le forme di espressione si siano appropriate di tecniche esclusivamente cinematografiche: dalla narrativa, si pensi ai romanzi di F. Biamonti che possono, senza dubbio alcuno, essere definiti più visivi che verbali, alla canzone d’autore, mi riferisco alle canzoni di P. Conte e alle sequenze cinematografiche, prevalentemente ellittiche, che ne compongono la tessitura; al teatro, dove l’uso sapiente delle luci consente di suddividere la scena in tanti riquadri e di mostrare, in primo piano, la microdrammaturgia fisionomica degli attori che calcano il palcoscenico. Senza lasciarsi sedurre da analisi troppo specialistiche, va ripetuto che il Cinema ha modificato profondamente la nostra cultura, anzi ha operato una vera e propria rivoluzione nella storia della civiltà, fino allora prevalentemente se non esclusivamente verbale, costringendoci ad imparare di nuovo il linguaggio gestuale, che è, senza tema di smentite, il linguaggio materno dell’uomo; né va dimenticato che il Cinema, a differenza o più di tutte le altre arti, consente quel processo psicologico che va sotto il nome d’identificazione. I prodotti artistici, in genere, rappresentano la realtà ma non hanno con la realtà nessun rapporto, esiste, cioè, tra l’opera d’arte e la realtà circostante un diaframma, una separazione costituita nel caso di un quadro da una cornice, nel caso di una scultura dallo zoccolo e dalla ribalta nel caso di uno spettacolo teatrale. Il Cinema, invece, si presenta come un’opera aperta che non solo rende superfluo il raccoglimento dinanzi ad essa ma crea nello spettatore l’illusione di trovarsi al centro della vicenda filmata. Da qui la necessità di vedere i film sul grande schermo, nel buio della sala cinematografica, dove a contatto di gomito con occasionali compagni di viaggio partecipiamo ad un rituale collettivo e dove ognuno di noi, attraverso il fascio di luce che fuoriesce dal proiettore viene catapultato sullo schermo, al centro, appunto, della vicenda.
C’è un altro aspetto del Cinema che mi sembra doveroso rilevare ed è la sacralità dello spettacolo cinematografico o meglio la sacralità che il Cinema assume agli occhi del cinefilo; quando si spostano le pesanti tende di velluto, che separano il foyer dalla sala cinematografica vera e propria, il cinefilo ha l’impressione di entrare in un tempio o, in ogni caso, in un luogo magico e cerca il suo posto con cura e silenzio riverente per partecipare al rito che sta per essere celebrato. Un rito che può essere assimilato ad un viaggio straordinario, che si ripete ogni volta e che il cinefilo accanito organizza con cura meticolosa fin dal mattino, quando sfoglia con impazienza il giornale, per fissare la sua attenzione sulla rubrica degli spettacoli e per scegliere appunto “la meta del suo viaggio”.
I film di qualità, non diversamente dai libri di valore, sono provviste per l’inverno del nostro spirito ed ho cercato di farne incetta fin dalla più tenera età. Ho gli occhi pieni d’immagini, sono sequenze depositate in qualche angolo della mente e che puntualmente si riaccendono sullo schermo della memoria: dall’attesa delle donne siciliane, avvolte negli scialli neri che svolazzano al vento simili a corvi di malaugurio in “La terra trema “ di L. Visconti alla struggente e tenerissima visione del mare di Normandia del piccolo Antoine Doinel in “I quattrocento colpi” di F. Truffaut; dal duello tra il gesuita e il giansenista in “La Via Lattea” di L. Bunuel, dove ogni battuta risulta più affilata e tagliente delle lame delle spade alla partita a tennis simulata nel finale di “Blow up” di M. Antonioni; dai flashes a ripetizione con cui J. Stewart, immobilizzato su una sedia a rotelle, acceca il suo assalitore in “La finestra sul cortile” di A. Hitchcock alla scena conclusiva, da tragedia greca, in uno spazio astratto e metafisico, di “Jabon jabon” di Bigas Luna; dal bellissimo monologo di Alberto Sordi in “I magliari” di F. Rosi alle mani che si cercano disperatamente di J. Jones e G. Peck, dopo essersi sparati a vicenda, in “Duello al sole” di K. Vidor; dalla lama di coltello che taglia l’occhio in “Le chien andaluse” di L. Bunuel alla scena di violenza gratuita, esorcizzata dalla musica di “Singing in the rain” in “Arancia meccanica” di S. Kubrick; da H. Keytel che si masturba dinanzi al finestrino di un’automobile, dove due ragazze sono costrette a simulare un coito orale, in “Il cattivo tenente” di A. Ferrara all’osso usato come clava e lanciato in aria da una scimmia in “Odissea nello spazio” di S. Kubrick, a tutt’oggi il più bell’esempio di ellissi narrativa della storia del Cinema. E potrei continuare all’infinito, il più delle volte i ricordi fluiscono spontaneamente, in maniera disordinata, talvolta, invece, li monto io stesso, seguendo certi percorsi interni, una logica tutta emozionale, fino a formare un’unica, interminabile pellicola lunga quanto tutta la mia vita.
E questi post nascono dal desiderio e, prima ancora, dall’esigenza di raccogliere, nel giardino della memoria, alcuni fiori pregiati e di risentirne il profumo insieme con voi, analizzandoli e catalogandoli con tanto amore e con un minimo di precisione “scientifica”.

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