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LETTERATURA: “Le cose che non ti ho detto” – Bruno Morchio – Garzanti 2007

24 Novembre 2008

di Alberto Pezzini

Forse è proprio vero che i libri più belli sono quelli capaci di chiamarti nei momenti più difficili. Hanno qualcosa dentro le loro pagine che li fa rilucere di una vita nascosta agli altri. O forse sei in grado di coglierla soltanto quando sei in una condizione difficile. Sarà per questo che ho riletto un libro che – la prima volta – non mi aveva convinto.   Mi aveva lasciato con un punto interrogativo sulle labbra. Come quelle donne con cui non hai mai chiuso in maniera netta perché non sai cosa dire. Di risolutivo. Quindi deve essermi stato dentro, irrisolto, per circa un anno. Poi, complice una giornata piovosa e piena di maccaia, uno stato d’animo in pieno crepuscolo, ti ricordi che c’è. E se lo vai a riprendere senti come delle bestie che ti mordono dentro. Con una lucidità chirurgica. Senti delle parole   che un altro stato d’animo ti aveva fatto trascolorare come gocce sull’acqua.
La storia di Bacci Pagano, e forse quella più intima, professionalmente, di Bruno Morchio. Parlare di psicoanalisi in un giallo mi sembrava potesse essere capace di inceppare il motore. Un giallo è fatto d’introspezione ma la psicoanalisi può anche rallentare il fiato e fare da intoppo. Qui no. Ci sta naturale. Salvare un valente psicoanalista da sé stesso, in un tourbillon di donne quasi al limite della bisessualità, e dentro una villa patrizia con annesso giardino d’inverno, è un bel plot. Un grande intreccio. Dove uno scrittore può anche facciare, però. Ci sta la psicoanalisi a fare da cornice e sostanza interiore. E’ il mondo del pensiero che il novecento sembra avere perso per sempre. Bacci Pagano, un detective tra i sentimenti ed il sesso all’avventura, un investigatore alla Pratt per intenderci, sembra non aver dimenticato la bellezza estrema del pensiero. Quel contatto magico, e quasi surreale, al limite del misticismo interiore, che è dato dal trasfert, un viaggio a due posti per i meandri più bui dell’anima. Dove ognuno può perdersi nel liquido vischioso delle sue paure. Bacci sembra averci una confidenza cauta, con queste cose. Qui è Morchio che lo guida con estrema attenzione, consapevole del fondo scivoloso dove si sta portando.
Però quel dottore, il Gigante, che deve essere salvato da sé stesso, diventa alla fine più simpatico. Mentre quella casa dove sembra confinato rivela a mano   a mano una serie di strati diversi.
E’ un mondo affascinante, un orto concluso dove la vita è concupiscenza e fiori trattati con grandissima scienza e passione. Il fiore viene trattato in questo libro come un antidoto alla tristezza, alla malinconia delle notti buie, alla deriva di chi è stato adottato e si trova ad un certo punto davanti ad un interrogativo cattivo come l’uomo nero.
Bacci Pagano, però, in questo romanzo della malinconia e delle maree dell’anima – mi verrebbe da dire – quasi davanti ad un porto sepolto come voleva il poeta, è anche sé stesso. Topo da carruggi, vicino ai poveri di spirito ai quali regala ottanta euro, come Gegè, così si lava e mangia con il cane, e si beve lo stravecchio. O quando si infila dentro stanze scure come seppie che sparano il loro liquido difensivo per trovare merce destinata al mercato parallelo. Quel passaggio, letto oggi con gli occhi impietriti da Gomorra, sembra quasi una conferma di morte. Scritta dentro un giallo che comunque riesce sempre a dare il meglio di Genova. Morchio, sapete, è un uomo magro, con degli occhiali stretti stretti, ed un sorriso ironico dietro le lenti. E’ un uomo malato di un’intelligenza che gli deve fare male. L’intelligenza troppo sottile non dà tregua, è una malattia che rode dall’interno e che purtroppo fa venir fuori una sensibilità a fior di vena. La puoi pizzicare come una corda di chitarra. Ha sempre uno sguardo non disincantato, ma che sa dire molto senza neanche far parlare le parole. E’ lo sguardo di chi ha imparato ad accettare senza aver capito il perché. Secondo me. Ed in Bacci Pagano c’è molta di quella malinconia di vita che i carrugi di Genova sanno far salire. Tra piscio ed odore di focaccia, Piazza Banchi al mattino quando piove è un porto dolcissimo e l’odore del mare riesce a schiacciare anche il tanfo di merda che a volte staziona dentro e sotto gli archivolti. Un’antica città di puttane, mercanti, marinai rosi dal salino, e poeti in libertà. Con il senso dell’acqua. Bacci Pagano è anche questo. Un investigatore marino, scusate la similitudine strampalata. E’ un detective che viene dal mare, da quelle giornate dove la maccaia genovese ti sta addosso come una coperta di piombo e biacca e non ti lascia respirare per niente. Come se la sabbia ti spirasse addosso. Dentro Bacci tornano una serie di note che nessun altro investigatore possiede. La malinconia della sinistra, sparsa su Genova per castigo, e la nostalgia degli emigranti coatti come i senegalesi ed i tunisini, marocchini, e tutti coloro che dentro i vicoli ci devono stare come mosche cavalline.
E’ un libro da giornate dove non sai dove stare. Ma che riesce a darti un senso interiore di   nutrimento e sazietà. Ad un certo punto. E’ come la letteratura allo stato puro. E la poesia. Dà nutrimento. E non chiede nulla in cambio se non del tempo per poterla vedere. Nuda come una donna. Vi pare poco?
Ora è uscito l’ultimo libro di Bruno Morchio. Però, prima di leggervelo, se non avete prima letto questo, vi do un consiglio. Le cose che non ti ho detto non va letto necessariamente prima. Però, se non lo leggete, perderete qualcosa di fondamentale di Morchio.
Quel lato interiore – ma non cupo – che dell’uomo viene sparso soltanto in questo libro. Quasi a dosare la propria vita interiore con sapienza. E fossi in voi me lo leggerei. Perché è tutt’altro che una palla. Anzi, c’è da godere. Intellettualmente. Ma anche con gli occhi. Quelli della mente. Senza un limite preciso. Così.


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1 commento

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 24 Novembre 2008 @ 18:40

    Saggio che procede in modo penetrante e con sensibile acume, attraverso “piani consecutivi”, nel cuore dell’opera. Ci offre la concreta sostanza, ma anche la poesia e l’emozione, che emergono da un’attenta e partecipata lettura, anzi, rilettura di una storia dai profondi risvolti esistenziali e psicologici. Una storia che ci apre uno spaccato di umanità dalle sorti anche precarie, ma soprattutto ci apre un quadro, disegnato con grande perizia, di una Genova del tutto intima e di indefinibile fascino
    Gian Gabriele Benedetti

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