Fedele Confalonieri: “Condanna a Silvio Berlusconi aberrante. La firma sui bilanci Mediaset era la mia”9 Settembre 2013 di Redazione “La sentenza Mediaset è aberrante. Io sono la prova. La firma sui bilanci Mediaset era la mia, e sono stato assolto”. Fedele Confalonieri, l’amico di sempre, parla in un’intervista realizzata per la Summer School della Fondazione Magna Carta e di cui oggi il Giornale pubblica ampi stralci. Si dice fortunato ad aver intrapreso una carriera di imprenditore al fianco del Cavaliere. E trova “assurda la condanna”. Dice: “Avremmo frodato 7 milioni, quando all’anno ne pagavano oltre 560 di tasse”. Il vero problema, aggiunge, è che “I magistrati hanno messo Berlusconi nel mirino”. Si legge nell’intervista a Confalonieri pubblicata dal Giornale: “La prova che questa sentenza sia aberrante è che io, che sono quello che firma i bilanci di Mediaset, sono stato assolto due volte. Quello che faceva il presidente del Consiglio nel 2003 è condannato a quattro anni per frode fiscale. Non stiamo parlando di altre cose, la frode fiscale è una cosa ben precisa. E poi questa frode fiscale per un gruppo che ha pagato miliardi: Fininvest 9 miliardi, Mediaset ha dato 6 miliardi all’erario da che c’è, 7 milioni e rotti avremmo frodato. E in un anno dove poi tra l’altro avevamo pagato 560 milioni di tasse, pagarne 567 non era… Però questa è la giustizia, e a un certo punto la giustizia diventa una player nella competizione. Quindi questa è una riforma che andrebbe fatta non soltanto, ripeto, nel penale ma anche nel civile e così via”. “Ma che giustizia è questa?”, si chiede Confalonieri pensando all’amico Silvio. “La vicenda Berlusconi sembra stia per chiudersi per un intervento della magistratura, cioè di un ordine dello Stato che ha sentito Berlusconi come un intruso, come un usurpatore nel mondo della politica, nella convivenza e l’ha messo nel mirino: 40 processi, procedimenti, è inutile stare a ripetere delle cifre che conoscono tutti quanti, le duemila ispezioni finché sono arrivati a una sentenza che è aberrante”. Fedele Confalonieri, amico di sempre. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, nato a Milano nel 1937 voleva fare il pianista. Ma alla fine diventa uno dei manager di maggiore successo in Italia. Proprio perché la sua carriera è legata a doppio filo a quella dell’ex premier. “Ho provato a lavorare un po’ per conto mio, poi, avendo un amico molto bravo, molto più bravo di me a fare l’imprenditore, sono andato a lavorare con lui. E ho fatto tante cose, ho lavorato per 40 anni in Fininvest, prima ancora in Edilnord quando Berlusconi si occupava di edilizia, poi nelle varie attività, televisione, eccetera occupandomi soprattutto di rapporti istituzionali e così via, e tante altre cose. Quando eravamo nel ’73, quindi 40 anni fa, c’erano 100 persone con Berlusconi e si facevano tante cose, sono stato capo del personale, poi le pubbliche relazioni, i consigli, e così via. Infine ci siamo specializzati, diversificati. Segreti, mi creda… è la fortuna. E poi certo l’impegno, lavorare, lavorare, darsi da fare. Io ricordo, le vacanze erano poche, quest’anno ne ho fatte tante per quelli che erano gli standard di allora. Le vacanze erano magari una settimana, dieci giorni. Il piacere di lavorare, poi essere in un settore che ti riempie. Ma formule non credo ce ne siano”. Nuove prove, i legali di Agrama chiedono di rifare il processo Lugano – Ancora una testimonianza dalla Svizzera, ancora una conferma che il processo sui Diritti tv ha ignorato fatti e atti giudiziari importanti dell’inchiesta elvetica per riciclaggio contro quattro manager Mediaset, chiusasi con l’archiviazione come abbiamo documentato ieri sulle pagine de Il Giornale. «I rapporti con Agrama – spiega a Ticinonline, il portale numero uno della Svizzera italiana – sono cessati, a memoria, tra fine anni Novanta e gli inizi del 2000. Lo avevamo conosciuto in un mercato televisivo e ci era stato indicato come l’intermediario ufficiale della Paramount per il mercato di lingua italiana. Era lui il proprietario dei diritti dei film che ci interessavano e ci siamo rivolti a lui finché la Paramount non ha aperto un proprio ufficio a Roma ». Possibile che tutto questo non sia stato ritenuto rilevante in Italia, prima nell’inchiesta e poi nei processi per i Diritti tv? Possibile che non sapessero nulla i difensori degli imputati, mentre certo la Procura di Milano era informata dell’andamento e della conclusione dell’inchiesta svizzera? L’ultimo grado di giudizio Oggi si riunisce la Giunta per le elezioni del Senato per deliberare sulla decadenza – o sulla permanenza – di Silvio Berlusconi. Il quale, nel frattempo, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. Silvio Berlusconi, dunque, invoca l’intervento di un tribunale europeo per contrastare le sentenze di altri tribunali, che rischiano di comprometterne il ruolo politico (e non solo). La sentenza dei giudici di Milano, d’altronde, è la prima che abbia esito definitivo, per Berlusconi. Per questo Berlusconi, i suoi consulenti legali e parlamentari, che in buona parte coincidono, si battono perché venga sospesa, derogata, rinviata. Perché il caso sia riaperto. Com’è normale, in questa Repubblica, nata vent’anni fa per effetto dell’azione dei magistrati. I quali, da allora, hanno mantenuto un ruolo di primo piano. Nella vita pubblica e in quella politica. In realtà, le inchieste dei magistrati investirono un sistema politico e istituzionale largamente delegittimato. Privo di fondamenta e di consenso, come dimostrarono, da ultimi, i referendum del 1991 e del 1993. Il muro di Berlino era crollato e l’anticomunismo non era più in grado di giustificare il sostegno ai partiti di governo. Così, alle elezioni politiche del 1992 tutte le forze politiche tradizionali, di governo e di opposizione, persero voti e consenso, in ampia misura. Solo la Lega Nord si impose. A testimonianza che la Prima Repubblica era finita. I magistrati, allora, apparvero come eroi popolari. Più che al servizio della giustizia: giustizieri. Al servizio del popolo, che voleva voltar pagina. Uscire dal dopo-guerra fredda. Più di tutti e per primo ne approfittò proprio Silvio Berlusconi. Che si presentò come l’Uomo Nuovo. Estraneo rispetto ai politici e ai partiti tradizionali. Li rimpiazzò con un partito personale. Un’azienda-partito. Impose la politica come marketing. Ma i magistrati non uscirono di scena. In parte, perché l’intreccio tra interessi privati e ruoli pubblici, e quindi tra affari e politica, divenne più stretto, se possibile. Impersonato, per primo, dallo stesso Berlusconi. Ma non solo da lui. In secondo luogo, perché il deserto politico prodotto da Tangentopoli, dalla scomparsa dei leader e dei partiti della prima Repubblica, non è mai stato colmato. Abbiamo assistito, negli ultimi vent’anni, al succedersi di leader senza partito, oppure di sedicenti partiti incapaci di esprimere leader forti e duraturi. Di certo, la politica è scomparsa dalla società, dai luoghi di vita quotidiana. Si è riprodotta sui media e soprattutto in televisione. Negli ultimi anni, ha conquistato nuovi spazi attraverso la rete e i nuovi media. Tuttavia, non vi sono più soggetti politici in grado di suscitare passione e sentimento. Semmai, protesta e risentimento. Mentre lo spazio pubblico è stato occupato da altri soggetti. In particolare: il presidente della Repubblica. Ma anche i magistrati. Il cui peso “politico” si è riprodotto e moltiplicato anche dopo e oltre Tangentopoli. Antonio di Pietro per primo. Leader di un partito che, negli ultimi dieci anni, ha conosciuto il successo e la crisi. I magistrati hanno occupato parte dello spazio lasciato vuoto da partiti scomparsi dal territorio e dalla società. Sono divenuti “garanti della pubblica virtù”, per usare una formula efficace di Alessandro Pizzorno. Le loro iniziative, le loro sentenze, veicolate dai media, hanno contribuito a sostenere o, più spesso, a delegittimare un leader o un partito. Berlusconi, in particolare, dopo aver beneficiato dell’azione dei magistrati, negli anni Novanta, ne è divenuto, in seguito, l’antagonista. Più che tra Destra e Sinistra, la frattura che ha attraversato la Seconda Repubblica richiama l’opposizione fra Berlusconi e i Giudici. Le Toghe Rosse, nella semplificazione di Berlusconi. Che, in questo modo, ha riassunto e assimilato i due mitici nemici: i Comunisti e, appunto, i Giudici. Quelli che si occupano di lui. Naturalmente “di sinistra”. I Magistrati, peraltro, negli ultimi anni hanno allargato di nuovo il loro grado di considerazione sociale. Trainati dal ritorno della “questione morale” – o, forse: “immorale” – nella politica italiana. Dopo le inchieste – non solo giudiziarie, ma anche giornalistiche – contro la Casta dei politici, degli amministratori. Che, negli ultimi anni, si sono moltiplicate e hanno enfatizzato la delegittimazione dei partiti e delle istituzioni. Al punto che la maggior parte degli italiani oggi ritiene che la corruzione politica in Italia sia maggiore che ai tempi di Tangentopoli. Se quasi metà degli italiani esprime grande fiducia verso i magistrati, tuttavia, fra gli elettori del Pdl e della Lega questo orientamento scende a meno del 20%. Più che garanti della giustizia e della legalità, dunque, agli occhi di molti italiani, essi appaiono un freno allo strapotere della classe politica. E, in particolare, di Silvio Berlusconi. Ma, per questo, sono divenuti – o, comunque, vengono percepiti – attori politici anch’essi. Mentre la vita politica e pubblica appare incatenata, più che intrecciata, ai diversi processi e alle molteplici indagini giudiziarie che si susseguono. In diversa direzione. Così, l’Italia appare un Tribunale Permanente. Dove i processi proseguono e si riproducono. Uno dopo l’altro. Un grado di giudizio dopo l’altro. Da vent’anni e oltre. Con il rischio, davvero, che lo spazio della politica si minimizzi e scompaia. Naturalmente, non per colpa dei magistrati che fanno il loro mestiere e, comunque, tutelano il proprio spazio. Il proprio potere. Ma per i limiti della politica. Che latita. Si comprende bene, in questo scenario, lo sconcerto di Silvio Berlusconi, di fronte a una sentenza “definitiva”, che lo inchioda “definitivamente” alle proprie responsabilità. E rischia di comprometterne “definitivamente” il ruolo politico. Berlusconi: non si rassegna. Per questo chiede, anzi rivendica ed esige: un’altra opportunità. Cioè: un altro grado di giudizio. Se in Italia non è possibile, in Europa. Contro l’Italia. Colpevole di tradire la propria storia e la propria vocazione. Perché in Italia, echeggiando il grande Eduardo De Filippo, non solo gli esami, ma anche i processi, non finiscono mai. In questo modo Berlusconi insegue l’appello dell’unica Corte a cui riconosca legittimità. L’ultimo grado di giudizio. Il voto. Una misteriosa ossessione Il governo di larghe intese è stato voluto dal Pdl molto più che dal Partito democratico. Angelino Alfano fa bene a ricordarlo. Pier Luigi Bersani, sotto choc per la mancata vittoria elettorale, tentò in tutti i modi di formare un esecutivo diverso, appoggiato dagli eletti di Grillo. Solo dopo numerosi fallimenti, e grazie al presidente della Repubblica, il Pd accettò con sofferenza di varare una grande coalizione, nella quale non ha mai creduto fino in fondo. Ma proprio questi dati di fatto rendono ancora più incomprensibile il comportamento del Pdl, o almeno di una sua parte, nell’estate politica dominata dalla condanna di Silvio Berlusconi. L’impegno a tenere separati la vicenda giudiziaria e il destino del governo è stato rimosso. Le minacce si sono moltiplicate fino a questi giorni di tregua apparente. Falchi e pitonesse hanno calcato la scena con dichiarazioni incendiarie contro tutto e tutti: dal capo dello Stato al presidente del Consiglio, dai giudici ai presunti traditori che si anniderebbero nel Pdl. C’è qualcosa di misterioso nell’ossessione di aprire una crisi. Far cadere il governo e andare alle elezioni (ammesso che al voto si vada) non cambierà di un millimetro la situazione giudiziaria di Berlusconi. Il 15 ottobre la condanna diventerà operativa con la scelta tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Poco dopo arriverà la Corte d’appello che ricalcolerà gli anni di interdizione dai pubblici uffici. Non c’è nessuno, in uno Stato di diritto, che possa ragionevolmente pensare che tutto ciò si possa cancellare con un colpo di spugna prima dell’esecuzione della sentenza e senza che l’ex premier ne prenda atto. Certamente molte dichiarazioni di esponenti del Pd sulla decadenza in base alla legge Severino stanno dando una mano al partito della crisi. C’è una fretta sbandierata. Il diritto di difesa riconosciuto a tutti (compreso quello di valutare nel merito il ricorso alla Corte europea) e le obiezioni avanzate da importanti giuristi sembrano un fastidio. La voglia di eliminare l’avversario per via giudiziaria, un tratto distintivo della fallimentare politica dei Democratici nei confronti di Berlusconi, è fortissima. È bene che la giunta che si riunisce oggi avvii un esame approfondito e lasci il tempo necessario alla difesa. Così la vicenda tornerà su un binario corretto. Perché lascerà nelle mani di Berlusconi una decisione che nessuno può prendere al suo posto. Riguarda il suo futuro personale e il destino del partito che ha fondato. Un atteggiamento rispettoso della legalità gli permetterà di continuare a svolgere, anche fuori dal Parlamento, un ruolo politico importante. E, dopo una richiesta avanzata da lui o dalla sua famiglia, il Quirinale potrà esaminare con serenità le ipotesi di clemenza o di commutazione della pena. Ma, soprattutto, il leader del centrodestra italiano potrà riflettere su un punto decisivo. Dopo venti anni è tempo di avviare con serietà la costruzione di una nuova formazione dei moderati italiani. Nel Pd è in atto un processo di cambiamento generazionale, la coppia Enrico Letta-Matteo Renzi porterà questo partito fuori dalla tradizione post comunista. Il centrodestra può restare a guardare senza dare una prospettiva agli italiani che non si riconoscono nella sinistra? Non è possibile: anche in questo campo c’è bisogno di idee nuove e di una classe dirigente che sappia interpretarle e proporle al Paese. Tocca a Berlusconi, con i gesti e gli atteggiamenti giusti, decidere se esercitare una vera leadership favorendo questo processo. Altrimenti si consegnerà agli urlatori di professione in un cupo finale di partita. Violante, il neo garantista rinnegato dalla sinistra La svolta dell’ex comunista, Luciano Violante, è stata radicale. Per tre decenni – dagli anni Settanta al Duemila – fu in Parlamento il portabandiera delle toghe rosse, dette «d’assalto », anche se il termine c’entra poco con lui che ha la compostezza di una sfinge. Francesco Cossiga lo chiamava «piccolo Vishinsky », come l’aguzzino delle purghe staliniane, considerandolo l’istigatore dei processi politici degli anni Novanta (Andreotti, ecc). Per la metamorfosi, paga naturalmente un prezzo. I vecchi estimatori – dai forcaioli incalliti ai monomaniaci della «diversità » comunista – lo vedono adesso come fumo negli occhi. Nella scombinata Italia d’oggi, il garantismo sembra infatti un regalo ai berlusconiani poiché sono soprattutto loro – per odio politico – a essere nel mirino delle toghe. Se poi Violante sostiene, com’è successo con la storia della decadenza del Berlusca da senatore, che addirittura il Cav ha diritto di farsi ascoltare e perfino ricorrere alla Consulta, voi capite che per gli antiberlusconiani arrabbiati, Violante diventa un farabutto. In effetti, a Torino – la sua città -, un sinedrio del Pd lo ha chiamato a giustificarsi. Dopo tre ore di processo, era ridotto un colabrodo. I più quieti gli hanno dato del complice del Cav. Un dirigente gli ha fatto sapere che se gli capita sottomano lo manda all’ospedale in codice rosso. Un nottambulo ha attaccato alla porta della sua casa di Cogne, vista Gran Paradiso, il cartello: «Venduto, vattene ». Al povero Luciano verrebbe da dire: benvenuto tra quelli che, per non essere mai stati dalla loro parte, hanno sempre visto i sinistri come oggi tocca a lui sorbirseli. Apriti cielo. Attorno a Violante, si è fatto il vuoto. Gli ex colleghi in tocco e toga lo hanno ripudiato. Perfino l’immarcescibile procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, per decenni considerato suo gemello e braccio armato, gli ha dato addosso. Costui, ha infatti stroncato Magistrati con la solita solfa che non si possono mettere sullo stesso piano, o addirittura sovraordinare, i politici peccatori e i virtuosi magistrati che li perseguono. Punto. Una dozzina di anni dopo, nel 1992, l’ex magistrato divenne presidente dell’Antimafia. Forzandone la natura, usò la commissione parlamentare come un’aula di tribunale e con l’interrogatorio del pentito Tommaso Buscetta gli strappò delle accuse – tra il lusco e il brusco, in stile coppola – contro Giulio Andreotti. Poco dopo, il suo amico Caselli si insediò come procuratore di Palermo e, in base al canovaccio preparato da Violante all’Antimafia, incriminò il Divo Giulio per mafiosità. Com’è noto, dopo un annoso calvario, Andreotti fu assolto ma definitivamente segnato. Anche in questo caso Violante e Caselli puntarono a un’operazione metagiuridica: la riscrittura della storia d’Italia, infangando – via Andreotti – la Dc che l’aveva governata per cinquant’anni e dare, per contrasto, lustro al Pci. Condanna Mediaset, Berlusconi (per ora) resta Cavaliere della Repubblica Il Cavaliere resta Cavaliere. Nel senso che nonostante la condanna definitiva per frode fiscale, il dottor Silvio Berlusconi conserva il titolo onorifico che gli fu attribuito nel lontano 1977, che lui esibisce con orgoglio e che è stato assunto dai giornali come una specie di alias, un secondo nome con annessa qualifica di probità e operosità meneghina. Chi avrebbe il potere di avviare le pratiche perché l’onorificenza gli venga tolta se ne guarda bene dal farlo. Non ci pensano i ministri competenti, comprensibilmente bloccati, dal loro punto di vista, dall’idea che qualsiasi soffio possa stendere il governo. Ma non ci pensa neanche il prefetto di Milano a cui pure la legge concede una facoltà di iniziativa. Insediatosi il 19 agosto, il prefetto Francesco Paolo Tronca sembra non avere alcuna intenzione di prendere in considerazione la faccenda. Preferisce prendere tempo, in perfetta sintonia con il governo delle larghe intese che lo ha nominato l’8 agosto e con il segretario pdl e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, suo referente diretto. Conoscendo bene le norme, non può negare che l’ipotesi della revoca del titolo e del ritiro della croce d’oro con collare sia campata in aria. Ma da alto rappresentante delle istituzioni di questa Italia che pare incapace di far rispettare le sentenze quando di mezzo c’è un cittadino considerato di fatto più uguale degli altri, sa che quando si tratta di Berlusconi perfino la revoca di un titolo onorifico diventa un casus belli. Preferisce quindi esercitarsi nella nobile arte della non decisione. A precisa domanda del Fatto, fa sapere che “il quadro complessivo non è chiaro, bisogna approfondire, devono essere messi a fuoco gli aspetti giuridici e procedurali”. Eppure la legge sull’attribuzione e l’eventuale revoca del cavalierato appare lineare sia nell’elencazione dei meriti richiesti per la concessione dell’onorificenza sia nello stabilire i motivi che possono causare la sua perdita e i soggetti che la possono reclamare. È una norma ormai consolidata, risalente a 27 anni fa e applicata altre volte per stabilire la decadenza degli interessati, come successe, per esempio, con Calisto Tanzi della Parmalat. Essa stabilisce che per quanto riguarda i meriti, l’aspirante Cavaliere deve dimostrare di “aver tenuto una specchiata condotta civile e sociale” e di “aver adempiuto agli obblighi tributari”. Il prefetto riceve le proposte di candidatura e avvia un’istruttoria che tiene conto sia delle informazioni possedute dalla stessa Prefettura, sia di quelle fornite dalla Camera di commercio, dall’Ispettorato del lavoro, dall’Intendenza di finanza e dall’autorità giudiziaria. Quali informazioni fornirebbero oggi al prefetto Tronca gli uffici fiscali e l’autorità giudiziaria a proposito del cavalier Silvio Berlusconi? Anche per quanto riguarda la revoca, la legge è chiara: “Incorre nella perdita dell’onorificenza l’insignito che se ne renda indegno”. Sostenere che un condannato in via definitiva per frode fiscale conservi integro il requisito dell’onorabilità è come dire che Cristo fu ucciso dal sonno. Del prefetto Tronca che si manifesta dubbioso ritenendo indispensabili “approfondimenti”, in passato si sono già occupati i giornali. Per esempio due anni fa venne fuori che suo figlio fu accompagnato a una partita di calcio con un autista e un mezzo di soccorso dei Vigili del fuoco di cui il dottor Tronca a quei tempi aveva la guida. Era l’11 maggio e all’Olimpico la Roma ospitava l’Inter. Gli 80 anni di Nicola Pietrangeli Due volte campione al Roland Garros, eroe di Coppa Davis sia da giocatore sia da capitano (fu lui a guidare gli azzurri in Cile nel ’76). Sorriso da attore, rovescio incantevole. Nato a Tunisi da mamma russa, ma romano nel cuore: Nicola Pietrangeli è stato il volto vincente e scanzonato del tennis nell’Italia della Dolce Vita e del boom. 80 anni vissuti alla grande fuori e dentro il campo. Pietrangeli per i prossimi 80 che intenzioni ha? Cosa l’ha avvicinata al tennis? Si ricorda la prima partita? Quando arrivò in Italia la chiamavano “Er Francia”… Com’era l’Italia a quei tempi? Il tennis come è cambiato? Quali match la divertono ancora? A proposito: è vero che ha inventato lei il calcetto in Italia? Confessi: avrebbe preferito fare il calciatore? Lei hai battuto Rod Laver, e ha visto giocare Federer: chi è più grande? Chi è il Pietrangeli dei nostri tempi? Una partita che rigiocherebbe? Il suo rapporto con Panatta? Meglio lei o Adriano? Ma alla sua epoca i più forti erano fra i professionisti. Lei, Berruti, Benvenuti, Thoeni, Panatta, Mennea: avete contribuito a dare un’identità all’Italia attraverso lo sport? Morto lo scrittore Alberto Bevilacqua È morto a Roma lo scrittore e regista Alberto Bevilacqua. Nato a Parma nel 1934, era malato da tempo. Bevilacqua si è spento alle 10 di questa mattina per arresto cardiocircolatorio nella clinica Villa Mafalda a Roma, dove era ricoverato dall’11 ottobre scorso, dopo uno scompenso cardiaco. Scrittore e poeta di grande popolarità in Italia e all’estero, ha scritto il suo primo romanzo, La Polvere sull’erba, nel 1955. Il successo internazionale arriva quasi 10 anni dopo, con La Califfa (1964). Come si legge sul sito dello scrittore stesso, la protagonista, Irene Corsini, nel suo vitalistico vibrare tra fierezze e abbandoni, inaugura la galleria dei grandi personaggi femminili di Bevilacqua, mentre Annibale Doberdò incarna un’emblematica figura di industriale nella provincia italiana degli anni Sessanta. Dell’epopea provinciale, dei suoi eroi grandi e meschini, Bevilacqua aveva già fornito uno splendido affresco in Una città in amore (1962, ripubblicato in una nuova stesura nel 1988), ma uno dei romanzi più importanti del decennio è Questa specie d’amore (1966, premio Campiello) Intellettuale impegnato e presente nella vita italiana fin dagli inizi degli anni Sessanta, regista cinematografico per La Califfa, Questa specie d’amore, Le Rose di Danzica, Bosco d’amore, giornalista critico del costume, polemista, con la sua produzione narrativa Alberto Bevilacqua ha sempre riscosso un grande successo di pubblico, ricevendo i maggiori premi letterari italiani: dal già citato Campiello nel 1966 allo Strega (L’occhio del gatto, 1968), al Bancarella (Un viaggio misterioso, 1972), vittoria doppiata nel 1991 con I sensi incantati. Le opere di Bevilacqua sono state tradotte in Europa e negli Stati Uniti, Brasile, Cina e Giappone. Letto 2137 volte. Nessun commentoNo comments yet. 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