Così Lavitola ricattò Berlusconi. «Ruolo chiave da uomo di Stato in incognito »24 Ottobre 2013 di Fiorenza Sarzanini ROMAâ—È Valter Lavitola l’uomo chiave della compravendita dei senatori che sarebbe stata ordinata da Silvio Berlusconi. Nell’aula 213 del tribunale di Napoli, trova conferma la ricostruzione dei pubblici ministeri Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli che nel loro atto di accusa lo avevano definito «intermediario e autore materiale delle specifiche e plurime consegne di denaro in contante ». E la tesi passa anche grazie alle indagini effettuate dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza guidato dal colonnello Nicola Altieri sulla tentata estorsione del faccendiere nei confronti del Cavaliere e per la quale è già stato condannato a 2 anni e 8 mesi. «L’uomo di Stato » La prova, secondo il giudice, è in quelle lettere, preparate e mai recapitate, che Lavitola aveva scritto a Berlusconi per chiedere un «prestito » da cinque milioni e nelle quali sottolineava che cosa «ho fatto per lei ». Ma soprattutto ricordava che cosa fosse accaduto nel 2008 per far cadere il governo guidato da Romano Prodi: «Subito dopo la formazione del governo lei, con Verdini e Ghedini presenti, mi disse che era in debito con me e che lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie della procura di santa Maria Capua Vetere e, assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a tentare di comprare i senatori necessari a far cadere Prodi ». «Sa cose compromettenti » In alcune telefonate intercettate nell’estate 2012 Pintabona racconta all’amico Francesco Altomare proprio quanto accade tra Lavitola e Berlusconi, sia pur con frasi allusive. Il 10 agosto 2012 i magistrati convocano Altomare per avere chiarimenti. E lui a verbale dichiara: «Pintabona mi ha detto che ha avuto rapporti istituzionali con il presidente Berlusconi nella sua qualità di presidente della Federazione dei Siciliani in America Latina. So che è anche amico e in rapporti di affari con Lavitola. Pintabona mi ha detto che Lavitola era a conoscenza di fatti e vicende compromettenti sul conto del presidente Berlusconi e che per tale motivo, e cioè per non rivelare tali particolari compromettenti che avrebbero “rovinato” lo stesso Berlusconi, pretendeva il versamento di ingenti somme di denaro, nello specifico di 5 milioni di dollari. Pintabona mi ha detto che Lavitola esercitava pressioni su Berlusconi. Ricordo che in più di un’occasione Pintabona mi ha detto che Lavitola “teneva Berlusconi per le palle” ». «Onore e disciplina » Non a caso, durante la sua requisitoria, Woodcock ha equiparato il parlamentare al giudice che agisce seguendo appunto il libero convincimento e, come dimostrano numerose sentenza già passate in giudicato, quando accetta soldi viene certamente ritenuto «un corrotto ». Ma poi ha puntato sull’articolo 54 che «impone a chi è titolare di una pubblica funzione di agire seguendo comportamenti di onore e disciplina e dunque hanno divieto di accettare denaro da terzi ». Nessuno, ha evidenziato il pubblico ministero, «può negare che un deputato o un senatore non siano inseriti nei ranghi della pubblica amministrazione » e dunque non debbano attenersi a queste regole ferree per la cui violazione è previsto un reato specifico. Un corruttore come alleato Puoi governare con il tuo carnefice? Puoi considerare “alleato” un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta “agibilità politica” del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna. Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa. Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto » sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà ». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale ». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio… ». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento ». Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema. De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi ». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni », risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto. Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove. La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui. «Lei â— scrive â— subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi ». Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco » che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo », che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo » che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili » che salvarono il Berlusconi IV nel 2010. Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre). Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza », le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio » del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali » che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future. Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius » che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima » celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione », «caccia all’uomo », «attentato alla democrazia ». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata » e contro il governo Letta. Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere » di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto » di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse ». Tutto secondo copione: Berlusconi va a processo chi lo accusa la fa franca Di per sé, la notizia non stupisce. Figuriamoci se la Procura di Napoli, che aveva tentato la carta del giudizio immediato subito dopo le Politiche, nel marzo scorso, si lasciava scappare l’opportunità di mandare a processo Silvio Berlusconi. Già, la credibilità. Il gup di Napoli, pm a parte, è il primo giudice a credere a De Gregorio. All’ex senatore, a marzo, non aveva creduto una sua collega, il gup di Napoli Marina Cimma, che aveva detto «no » alla richiesta di rito immediato presentata dai pm capeggiati da Henry John Woodcock: «All’esito di un’attenta e approfondita disamina delle dichiarazioni rese da De Gregorio – aveva scritto – non può farsi a meno di evidenziare che la prova circa l’esistenza di un accordo corruttivo intervenuto tra gli imputati è tutt’altro che evidente ». Non solo. Per quel gup «le somme corrisposte a dire di De Gregorio da parte di Berlusconi per il tramite di Lavitola erano destinate a finanziare il movimento politico », (Italiani nel mondo). Insomma, De Gregorio non era attendibile. Come non attendibile si è rivelato De Gregorio per i pm milanesi del processo Mediatrade, che sentito De Gregorio e le sue rivelazioni (aveva detto di avere rallentato una rogatoria in Cina sui diritti tv) hanno spedito a Hong Kong la Guardia di finanza a caccia di un misterioso appunto che avrebbe dovuto trovarsi al ministero degli Esteri. Niente appunto in cassaforte, niente di niente. Il governo di Hong Kong ha spiegato: Mr. Gregorio chiese solo informazioni. E nella rogatoria non ci fu alcuna ingerenza. Non attendibile l’ex senatore è apparso anche ai pm di Roma, che, dopo averlo ascoltato, nel settembre scorso hanno chiesto l’archiviazione di un’inchiesta gemella, quella sul passaggio da Idv al Pdl di altri due senatori, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, nel 2010: la scelta di cambiare partito, hanno detto, non è sindacabile in base all’articolo 67 della Costituzione, perché un eletto alla Camera o al Senato non ha vincolo di mandato. Appunto, da che politica è politica, i cambi di casacca sono un vizio fisiologico. Solo che c’è il vizio, quello brutto sì, di considerarli normale libertà di coscienza se da destra vanno a sinistra, mentre se il senso è inverso il passaggio è sospetto. E visto che De Gregorio è passato da Idv al Pdl stavolta sì, è attendibile, tanto più che è reo confesso. Il fatto poi che ci siano tanti rei confessi – per tutti l’ex eroe dei pm di Palermo Massimo Ciancimino – che mescolano frammenti di verità a macroscopiche bugie, è un dettaglio. Si vedrà, al processo. «Il dibattimento riconoscerà l’insussistenza dei fatti contestati – dicono gli avvocati di Berlusconi Michele Cerabona e Niccolò Ghedini – De Gregorio, che proveniva da Forza Italia e che era andato all’Idv per mera convenienza elettorale, voleva tornare nel centrodestra ». E Idv, grazie a De Gregorio, risorge. Antonio Di Pietro è parte civile. E già promette scintille. (Mia nota. Ovviamente, e mi fa piacere apprendere la notizia che non conoscevo, concordo con il gup di Napoli Marina Cimma, che considerò inattendibile De Gregorio e non provati i passaggi di denaro a scopo corruttivo. bdm) Compravendita senatori, De Gregorio: “Berlusconi lasci la politica” Sergio De Gregorio gongola. Il gup di Napoli ha creduto alle sue confessioni e ha rinviato a giudizio Silvio Berlusconi per corruzione per una presunta compravendita di senatori avvenuta a fine 2006 per “far cadere il governo Prodi”, sostengono i pm e lo stesso De Gregorio. L’ex senatore dell’Idv e del Pdl ha patteggiato la sua pena a 20 mesi di reclusione.Insomma De Gregorio ha fatto finora bottino pieno. Ha mandato alla sbarra Silvio, si è preso la sua passerella a Servizio Puvbblico dall’amico Michele Santoro e ora ha avuto anche il semaforo verde da parte del gup per patteggiare la sua pena. Ma a De Gregorio tutto questo non basta. Vuole pure che il Cav “si ritiri subito dalla vita politica”. “Silvio si ritiri” – Forse De Gregorio teme che la via giudiziaria possa non bastare per far fuori Silvio e allora gli manda qualche consiglio: “Credo che questa vicenda acceleri il tramonto di un percorso politico ormai arrivato al redde rationem. Consiglio a Berlusconi di ritirarsi dalla scena politica, liberando l’Italia e la sua persona da tante infamie. Ho avuto un comportamento che oggi ritengo assolutamente disdicevole, finalizzato a ribaltare il governo Prodi in una sorta di guerra santa denominata dallo stesso Berlusconi ‘operazione libertà. Mi sento sollevato da un peso, ho detto la verità. Oggi non rimetterei la mia intelligenza, la mia capacità operativa, le mie conoscenze internazionali al servizio di Berlusconi: quell’uomo non meritava il mio aiuto”. “Tu famoso grazie a Santoro” – A De Gregorio risponde Renato Brunetta che ricorda la sua parabola: da senatore dell’Idv a santone della sinistra anti-Cav: ” “Il circuito mediatico-giudiziario e’ in piena attivita’”, dice Renato Brunetta. Il presidente dei deputati Pdl aggiunge: “Prima le calunnie strombazzate a ‘Servizio Pubblico’, che ha ospitato per l’occasione il senatore De Gregorio, campione del pentimento con accusa incorporata e pagata con l’innalzamento a eroe, poi il passaggio del testimone da Santoro-Travaglio al giudice di Napoli che ha disposto prontamente un nuovo processo contro Berlusconi. Dov’e’ la novita’? La guerra dei vent’anni contro il leader di Forza Italia – sottolinea – diventa la guerra dei ventuno, ventidue anni. Questa spaventosa macchina che calpesta diritto e decenza e’ ormai come un alieno impazzito, che pero’ sa benissimo chi divorare”. “Gli italiani onesti – assicura – non rinunceranno a cercare e ottenere vera giustizia usando tutti gli strumenti della democrazia e della non violenza”. De Gregorio, il pentito incredibile Quando il senatore De Gre gorio prese la parola do po essere uscito dall’Idv con cui era stato eletto, per passare quasi subito dalla no stra parte, mi imbarazzò molto il suo discorso eccessivamente e quasi provocatoriamente berlu sconiano. Già, ma lui dice di essere stato corrotto. Quale limpida coscienza. Io ricordo che ebbe la presidenza della delegazione parlamentare italiana presso la Nato e che, essendo quello il «premio » per il passaggio, lo votammo nell’auletta del Senato in cui la delegazione si riuniva. Quando andavamo in giro per il mondo e specialmente in America, De Gregorio si dava un gran da fare con la sua associazione «Italiani nel mondo » di cui era leader e diciamo pure proprietario. Per i vecchi rapporti di conoscenza mi chiese più volte di partecipare ai suoi meeting con gli italoamericani che erano sempre molto pittoreschi. Abbiamo parlato decine di volte, mi disse di aver ottenuto dal partito, il Pdl, dei fondi per il finanziamento della sua associazione e si vedeva bene che gli «italiani nel mondo » erano una bella riserva indiana per il senatore. Berlusconi, compravendita di Senatori: probabile la prescrizione Il Tribunale di Napoli ha deciso: rinvio a giudizio. Ma l’assedio delle toghe potrebbe concludersi, dopo le recenti condanne Mediaset e Ruby (quest’ultima non definitiva), con un nuovo buco nell’acqua. Silvio Berlusconi andrà alla sbarra, l’accusa è da leccarsi i baffi per i fan manettari dell’antiberlusconismo: compravendita di senatori. Ma il presunto reato risale al 2006, quando Sergio De Gregorio, senatore eletto nell’Italia dei Valori, passò dalla sinistra dipietrista ai banchi del centrodestra berlusconiano. Il tradimento del senatore causò scompiglio all’interno della maggioranza di centrosinistra che governava con Romano Prodi. Tuttavia, il suo passaggio non influì sulla vita (e sulla caduta) del governo che due anni più tardi ci rimise le penne per colpa dell’affaire-Mastella. Oggi De Gregorio ha ceduto alle lusinghe dei pm napoletani ed ha accusato Berlusconi di corruzione. In cambio ha patteggiato ed ha ottenuto una riduzione della pena: 20 mesi da scontare. Prescrizione – L’ipotesi della procura, però, potrebbe piegarsi davanti alla prescrizione: per quel reato, infatti, scatterà intorno alla primavera del 2015. Tra un anno e mezzo, più o meno. Diciotto mesi: troppo poco per poter arrivare a un giudizio definitivo, anche se i tribunali, con Silvio, cercano di essere molto veloci. Inoltre, in quest’ultimo caso con cui si cerca di mettere Berlusconi al muro, ci sono altri due elementi dubbi che emergono dalla decisione del gup napoletano di mercoledì pomeriggio. Il primo: Berlusconi avrebbe corrotto nel 2006 un senatore per far cadere il governo Prodi che rimase invece in sella fino al 2008. Il secondo, il Tribunale decide di andare avanti nonostante la legge dica che il tempo regolamentare scadrà tra più o meno 18 mesi. Se il pm ostenta in ufficio il suo odio per il Cavaliere Si capisce subito che aria tira, nell’ufficio del pm romano Edoardo De Santis. Basta aprire una porta e entrare nell’anticamera. Lì c’è il suo credo. Chi sono, come la penso, e soprattutto chi mi sta sulle balle. E non è certo, il suo, un manifesto dell’imparzialità. Chi ha detto mai che un giudice debba essere al di sopra delle parti? L’identikit è questo: due vignette anti Cav e una frase che è una dichiarazione di fede o di indipendenza sui generis. «Credo solo a me, e già mi fido poco ». Non sia mai che in una procura si creda nella legge. Sì, va bene, il principio dell’imparzialità della magistratura è già un concetto fragile di suo, in un Paese dove da anni i poteri dello Stato si affrontano più che rispettarsi, e dove le toghe sconfinano spesso e volentieri nella politica. Ma è comunque difficile non stupirsi almeno un po’ quando tra le mura di una procura della Repubblica ci si imbatte in un’immagine che sbeffeggia apertamente un politico, che manco a dirlo è Silvio Berlusconi. Le due vignette sono in realtà i tipici fotomontaggi da «social satira », quelli che di solito girano sui profili Facebook di chi è in vena di cazzeggio. Uno è la parodia di un celebre quadro giovanile di Picasso, «Scienza e carità ». Berlusconi è a letto, morente, sotto una foto di Bettino Craxi. Accanto a lui c’è Niccolò Ghedini che gli tasta il polso, mentre dall’altra parte del letto la Boccassini gli porge una tazza tenendo in braccio Brunetta. Il secondo è una foto del Cav che stringe la mano ad Angelino Alfano sulla quale campeggia una scritta bianca: «Reo con fesso ». In sé, le due immagini non sono niente di trascendentale. La satira – che faccia ridere o meno – è sacra. Ma è sacra solo se resta fuori dai luoghi in cui si amministra la giustizia: che il «reo » Berlusconi (per non dire del «fesso » vicepremier Alfano) venga preso in giro negli stessi ambienti dove il leader politico viene indagato non è solo inappropriato, è assurdo. Tanto più che, come detto, le vignette non sono incollate a un distributore del caffè in corridoio né esposte sulla bacheca del bar della procura, ma appese al muro dentro l’ufficio di un magistrato inquirente. Un luogo che non dovrebbe essere deputato al cazzeggio né alla satira politica. Come si può vedere nella foto qui sotto, le due fotocopie fanno bella mostra di sé sulla parete, sopra un mobiletto affollato di faldoni di atti giudiziari, attaccate con una puntina da disegno, visibili a chiunque passeggi per il corridoio della procura, appena dietro la porta dell’ufficio. Certo, non sappiamo se a metterle lì sia stato proprio il pm, ma di certo a De Santis non devono dispiacere, se la toga, entrando e uscendo dalla sua stanza, non ha trovato nulla da ridire sulle scelte di arredamento della piccola anticamera. Quelle due fotocopie non rendono un buon servizio alla magistratura. L’idea che un testimone convocato dal pm De Santis venga accolto da quelle due foto «scherzose » è grottesca. La giustizia non è, non dovrebbe essere, una barzelletta. Ma le vignette da sfottò finiscono per diventare, appunto, due icone della parzialità delle toghe, molto eloquenti e in fondo molto poco scherzose per chi magari non le trova divertenti e si trova, suo malgrado, a osservarle mentre fa anticamera – appunto – in attesa di un faccia a faccia con l’inquilino togato della stanza. Di certo, anche se De Santis non indaga sul Cav, è pm nel processo per il ricatto-trans a Piero Marrazzo. In aula, proprio l’ex governatore ha ricordato che a informarlo dell’esistenza del filmato fu Berlusconi, avvertito dal direttore di Chi, Signorini. Un dettaglio già spacciato in passato da alcuni giornali per ipotetica ricettazione. Ma tanto il pm non ha pregiudizi. Il pg della Cassazione: “La legge Severino crea problemi, non li risolve” C’è voluto il procuratore generale della Cassazione Vito D’Ambrosio per dire ufficialmente quello che si vedeva a occhio nudo: la legge anticorruzione varata dal governo Monti – e passata alle cronache come “legge Severino” dal nome del ministro della Giustizia che la firmò – è un pasticcio senza capo né coda, che sotto l’alibi di una richiesta dell’Europa (che in realtà non ci sarebbe mai stata) – modifica il codice penale in modo addirittura controproducente, perché avrà come conseguenza che le indagini sulle tangenti perderanno uno dei loro spunti più fecondi, le dichiarazioni di chi è stato indotto o costretto a pagare. Ma è possibile che, oltre a questa bocciatura complessiva, a preoccupare oggi D’Ambrosio sia il rischio che alla fine a beneficiare del caos normativo sia alla fine Silvio Berlusconi. D’Ambrosio interviene questa mattina davanti alle sezioni Unite, chiamate a fare un po’ di chiarezza sulla materia, visto che le singole sezioni della Cassazione – man mano che i processi per concussione arrivavano al loro esame – avevano interpretato la “Severino” ognuna a suo modo, e a volte in modo diametralmente opposto. A rendere la giornata politicamente delicata, c’è il fatto che la decisione della Cassazione potrebbe influenzare in qualche modo anche il processo d’appello a Berlusconi per il caso Ruby, dove in primo grado il Cavaliere è stato condannato (oltre che per utilizzo della prostituzione minorile) anche per concussione.I contrasti interpretativi infatti ruotano soprattutto sul nuovo reato introdotto dalla legge nel codice penale, la “concussione per induzione”. Un reato a metà strada tra la corruzione (dove l’iniziativa del pagamento viene dal soggetto privato che punta a ottenere i favori del pubblico ufficiale) e la concussione (dove è invece il pubblico ufficiale a imporre il pagamento del “pizzo” per soddisfare le richieste del privato). La induzione è una via di mezzo, fatta in sostanza di pressioni che si possono rifiutare, ma che alla fine il privato accetta. Una situazione che è risultata difficile da ricostruire, in un reato – il pagamento di tangenti – di cui di solito non ci sono altri testimoni oltre a chi paga e chi incassa. Nella “concussione per induzione” a venire condannati sono entrambi: chi induce, e chi si lascia indurre. Il nuovo reato sancisce comportamenti che sarebbero stati comunque puniti con la vecchia legge? O invece colpisce una zona grigia in cui il privato la avrebbe fatta franca? E i reati commessi prima dell’entrata in vigore della “Severino”, come vanno trattati? Sono questi i punti oggi all’esame delle sezioni Unite. Nella sua requisitoria al processo Ruby, Ilda Boccassini chiese che Berlusconi venisse condannato proprio per concussione per induzione, in base alla nuova legge: le sue pressioni sulla questura di Milano perché Kharima el Mahroug venisse rilasciata rientravano, secondo la Boccassini, proprio nella categoria delle pressioni “rifiutabili” introdotta dalla “Severino”. Ma il tribunale invece ha deciso diversamente, e ha condannato Berlusconi per concussione “classica”. Le motivazioni della sentenza non sono ancora state depositate, ma si può ipotizzare che il tribunale abbia ritenuto che di fronte alla autorevolezza delle pressioni per il rilascio di Ruby, ai funzionari di polizia non restasse altra scelta che lasciare andare la ragazza.Se questa ricostruzione dei fatti venisse accolta anche nei gradi successivi di giudizio, la sorte di Berlusconi resterebbe segnata, qualunque sia l’esito della udienza di oggi in Cassazione, visto che il vecchio testo del reato di concussione non verrà toccato. Ma può darsi che in appello la posizione del Cavaliere venga invece ricondotta, come chiedeva la stessa Boccassini, sotto il caso della Lasciate spazio a chi sa fare È come un pesce che sta morendo perché l’acqua in cui vive si sta lentamente, ma inesorabilmente scaldando. Così Ernesto Galli della Loggia (Corriere , 20 ottobre) ma anche in parte Piero Ostellino (Corriere , ieri) descrivono l’Italia. I responsabili della lenta agonia sarebbero una classe politica inadeguata (in primis, aggiungiamo noi, il leader degli ultimi 20 anni, Silvio Berlusconi), e quegli imprenditori che sopravvivono solo perché sussidiati dallo Stato, cioè dai contribuenti. Ma anche gli italiani avrebbero le loro colpe: si starebbero adagiando a chiacchierare con i loro innumerevoli telefonini, a guardare la tv, senza leggere neppure un libro all’anno. È una descrizione dell’Italia molto deprimente, ma che purtroppo in qualche modo coglie nel segno. Altri dati, però, raccontano un Paese diverso. Quello più significativo è l’attivo della nostra bilancia commerciale, cioè il fatto che il valore delle nostre esportazioni supera quello delle importazioni. E non è solo per via della recessione che frena l’import. Le nostre esportazioni crescono: hanno raggiunto i 195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso. Manteniamo le nostre quote di mercato. Ci sono imprese, oltre la solita Luxottica, e in campi diversi, come Prysmian, Brevini, Mossi & Ghisolfi, che si sono adattate all’euro e hanno grande successo sui mercati internazionali. Ma ad essere positivi ci sono anche altri elementi. Alcuni dei nostri licei fanno invidia a quelli del Nord Europa ed alle migliori high school inglesi e americane. Nei programmi di dottorato dei più prestigiosi atenei al mondo gli studenti italiani sono sempre tra i più bravi. Vi sono decine di giovani professori italiani con cattedre nelle prime università americane, medici negli ospedali più ambiti. Basterebbe solo un po’ di flessibilità e di meritocrazia per farli rientrare. Un Paese in cui tutti sono mediocri, quello sì sarebbe senza speranza. Ma non è il caso dell’Italia. Per ricominciare a crescere basterebbe trasferire risorse ed energie dal Paese che non funziona a quello che cammina e spesso corre. Dobbiamo abbandonare il mito del «piccolo è bello », delle imprese familiari. Servono aziende che magari nascono piccole ma poi riescono a crescere, a competere nel mondo e a quotarsi in Borsa per non vivere di prestiti bancari elargiti con il contagocce. Servono imprenditori che sappiano assumersi i propri rischi e non siano sempre pronti a privatizzare profitti, nazionalizzare perdite e stazionare nei corridoi dei ministeri per ottenere sussidi e favori. Bisogna favorire il trasferimento di risorse umane e di capitali da imprese decotte (come Alitalia) a quelle che funzionano. Dobbiamo avere il coraggio di mandare a casa i professori fannulloni per lasciar posto ai giovani, oggi costretti a rifugiarsi all’estero. Bisogna convincere i nostri figli che laurearsi a 27 anni in Scienza delle Comunicazioni difficilmente apre prospettive nel mondo del lavoro. Ma per fare tutto ciò serve un grande sforzo comune che cominci dalla classe dirigente. Quando vediamo un governo che discute per mesi su come cambiare il nome di un’imposta (l’Imu) significa che questa classe politica ha perduto la percezione di quanto grave sia la situazione, e non ha una visione su come invertire la rotta. A essere convinta però non deve essere la sola classe dirigente, ma tutti noi. Dall’Imu alla Rai, l’ira dei falchi Pdl. Ce la farà Alfano a resistere? Il senatore Monti vede un governo in ginocchio davanti al Pdl, e arriva polemicamente ad accusare che si scrive Letta ma si legge Brunetta. Considerata l’autorevolezza del personaggio, verrebbe senz’altro da condividere il suo giudizio. E tuttavia, se al posto degli occhiali da Prof si inforcano quelli dei «super-falchi » berlusconiani, il momento politico attuale appare parecchio diverso, anzi addirittura un mondo capovolto rispetto a come Monti ce lo descrive. Anziché un governo ostaggio del Pdl, costretto a subirne i ricatti, gli scudieri del Cavaliere sono convinti di incassare quotidianamente umiliazioni di ogni sorta, con la delegazione ministeriale Pdl impotente, subalterna e (nella loro percezione, si capisce) in qualche caso addirittura complice della sinistra. I cahier de doléance spaziano ormai dall’economia alla giustizia, dalle riforme alle poltrone, dalle grandi scelte di governo a quelle più inconfessabili di sottogoverno. Sulla legge di stabilità, ad esempio, i «falchi » lamentano una sonora presa in giro: al posto dell’Imu, che è stata soppressa, ecco spuntare un’altra tassa sulla casa perfino più onerosa per i proprietari di immobili e tale da far rimpiangere quella precedente. Anziché un impulso virtuoso all’economia, temono che dalla manovra verrà uno shock, però in negativo. Sulla giustizia, una disfatta totale. E’ assente dal capitolo riforme, lamentano in coro, e nel frattempo Silvio viene sempre più bastonato dalle Procure con la complicità del Parlamento. Vorrebbero impedire il voto in Senato sulla decadenza e si accapigliano con Grasso, al quale non dispiacerebbe la chiarezza del voto palese. L’elenco non si ferma certo qui. Sulla Rai, scontro all’arma bianca con il direttore generale Gubitosi. Parole grosse sono volate ieri alla Commissione di vigilanza. Quanto all’Antimafia, il Pdl diserterà le sedute in polemica con la nomina della «bestia nera » Rosy Bindi a presidente dell’organismo bicamerale. I «lealisti » berlusconiani si sentono minacciati sulla legge elettorale, specie dopo che Renzi ha ipotizzato una riforma con chi ci sta. E gridano alla discriminazione perfino sulla nomina al Porto di Napoli, dove in commissione il Pd ha bloccato la candidatura di Villari sponsorizzata dal centrodestra. Insomma, ceffoni da tutte le parti. Al punto che viene da chiedersi per quanto tempo ancora Alfano e gli altri quattro ministri Pdl potranno resistere all’offensiva interna, che oltretutto fa leva sulla profonda frustrazione del Capo. Epifani, Bindi e sprovveduti del Pdl La forzatura compiuta dal Partito Democratico con l’elezione di Rosy Bindi e di Claudio Fava alla presidenza e alla vicepresidenza della Commissione Antimafia ha una spiegazione fin troppo evidente. Non è una alzata di testa irresponsabile tesa a strappare la precaria tela su cui poggia il governo delle larghe intese e non è neppure la scelta di dare comunque una poltrona a Rosy Bindi per accontentarla preventivamente in vista delle prossime primarie destinate ad essere vinte dal suo avversario Matteo Renzi. La decisione di Guglielmo Epifani di dare il via libera all’occupazione dei vertici dell’Antimafia da parte della sinistra e di Cinque Stelle è il lucido tentativo di spaccare a metà il Popolo della Libertà prima che il maggiore partito del centrodestra si possa ricompattare in occasione del voto del Senato sulla decadenza di Silvio Berlusconi. A fornire su un piatto d’argento l’occasione al segretario del Pd di lacerare il principale alleato delle larghe intese l’hanno offerta nei giorni scorsi due circostanze. La prima è stata l’intervista in cui il ministro Quagliariello ha spiegato che la corrente dei governativi del Pdl è decisa a sostenere il governo anche in caso di nuova minaccia di crisi da parte del Cavaliere. La seconda si è verificata con il documento dei 24 senatori di rito alfaniano in cui si è ribadito che il governo deve andare avanti a dispetto di qualsiasi critica proveniente dal Pdl sulla legge di stabilità. In gergo calcistico, quello offerto da Quagliariello e dai 24 senatori alfaniani, si chiama assist. Ed Epifani, con la forzatura sull’Antimafia, non ha fatto altro che prendere la palla graziosamente passata dal ministro e dai governativi del centrodestra e buttarla prepotentemente in rete. Nella certezza che da adesso in poi il Pd potrà prendere a calci e a pallate il Pdl visto che una parte consistente del partito berlusconiano rimarrà comunque fedele ad Enrico Letta piuttosto che al Cavaliere. L’elezione a dispetto di Rosy Bindi è dunque stata per Epifani l’occasione per allargare il solco tra lealisti e governativi del Pdl e premere sui primi per farli reagire con durezza all’atto di prevaricazione del Pd e costringere i secondi ad accelerare il processo di separazione dai fedelissimi berlusconiani. Si è trattato, dunque, di un’operazione tesa apertamente e dichiaratamente a provocare la spaccatura e la scissione del Pdl. Che può anche essere commentata sottolineando la spregiudicatezza di Epifani e del Partito Democratico. Ma che costringe obbligatoriamente a rilevare come la mossa di Quagliariello e degli alfaniani sia stata un clamoroso errore. Perché, anche nel caso sia nata dalla volontà di rompere apertamente e definitivamente con il partito, è servita solo a depotenziare non solo la parte lealista del Pdl a cui è stata tolta l’arma della minaccia di crisi ma anche quella governativa che è stata condannata a subire sempre e comunque le prepotenze e le prevaricazioni del Pd. Quagliariello e i suoi 24 senatori hanno dunque commesso un errore marchiano. Da dilettanti e non da professionisti della politica. E non solo perché hanno disarmato il Pdl, ma hanno trasformato loro stessi negli ostaggi passivi di una sinistra ben felice di sfruttarli fino a quando faranno comodo ma ben decisa a buttarli a mare quando non saranno più utili. Certo, non si tratta di un errore irrimediabile. Alfano è stato il primo a correre ai ripari rilevando che la legge di stabilità non è un Vangelo intoccabile. Ma ogni tentativo di recupero difficilmente riuscirà a togliere dalla testa degli elettori del centrodestra, di quelli che non passeranno mai a sinistra, l’immagine che si sono fatta di Quagliariello e dei 24 senatori. Quella di chi è talmente sprovveduto o masochista da tagliarsi gli attributi per far scontenti i lealisti! Rosy Bindi folgorata sulla via dell’impegno antimafia Quella di Rosy Bindi sulla via dell’impegno Antimafia deve essere stata proprio una folgorazione. Perché nella lunga militanza politica della neo presidente della Commissione parlamentare Antimafia non si sono mai registrati particolari acuti in materia di criminalità mafiosa. Nei suoi quasi 20 anni di ininterrotta attività politica svoltasi in Parlamento e al Governo, la pasionaria del Partito Democratico si è infatti occupata una sola volta di malavita organizzata. Proprio lo scorso marzo, quando ha firmato un progetto di legge, promosso peraltro dal collega di partito Burtone, teso a introdurre, relativamente allo scambio elettorale politico-mafioso, delle modifiche all’articolo 416-ter del codice penale. Nei 93 progetti legge sottoscritti dalla Bindi come semplice cofirmatario e nei soli 13 presentati come primo firmatario dal 1994 – anno di ingresso in Parlamento – al marzo del 2013 – non c’è una sola iniziativa, che almeno lambisca o sia indirettamente riconducibile al tema del contrasto alle mafie. La Bindi può annoverare, nel suo ventennale curriculum parlamentare, proposte legislative sull’istruzione e sull’educazione sessuale nelle scuole; per dar vita ad un Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace, istituire un corso di laurea in Servizio sociale; tese a conservare organi antichi e a tutelare l’arte organaria; per incrementare la dotazione organica del Corpo nazionale dei vigili del fuoco o istituire un codice etico di condotta per gli appartenenti alle Forze dell’ordine. Ma nel calderone dei vari progetti di legge che portano la firma della Bindi la mafia è assente. Inoltre nel percorso politico della Bindi non c’è traccia del fatto che, fuori dal Parlamento, abbia coltivato una dedizione alla materia. Con ciò non si vuole certamente mettere in discussione che in fatto di lotta al radicamento delle mafie Rosy Bindi possa vantare una sensibilità di fondo. Chissà, forse acuita in tempi recenti, in conseguenza del fatto di essere stata catapultata dal Partito Democratico in Calabria per riuscire a farsi eleggere per la sesta volta in Parlamento! Certo è che la mera predisposizione d’animo è un pre-requisito scontato e appare di per sé insufficiente per chi voglia ambire a presiedere la Commissione Parlamentare Antimafia. Che per la serietà dell’oggetto di cui si occupa, rincresce vedere poco seriamente ridotta a essere utilizzata come camera di compensazione per faide interne ai partiti o, peggio ancora, come strumento per far chiudere in bellezza lunghe carriere politiche. In tutto ciò fa piacere notare come l’inadeguatezza della Bindi sia in parte compensata dalla presenza, in qualità di vice-presidente della commissione, di Claudio Fava. Che di criminalità organizzata si intende. Non tanto perché Cosa Nostra gli ha ammazzato il padre. Ma soprattutto perché della battaglia politica e culturale contro la malavita organizzata, Fava ha fatto una vera e propria ragione di vita. Letto 2904 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by zarina — 25 Ottobre 2013 @ 16:24
Dipendenti publici superpagati dai contriìbuenti tirano dietro a Tizio che avrebbe detto di aver sentito dire da caio che sempronio avrebbe detto e che pincopallo avrebbe scritto una lettera mai spedita in cui raccontava di aver sentito dire…
Altro che teatrino della politica: saremmo alle comiche finali, se non fosse il dramma della giustizia italiana.
Commento by ennio — 26 Ottobre 2013 @ 01:11
i processi dovrebbero servire proprio per capire come le cose sono andate veramente. Gli imputati non sono già colpevoli. In questo caso il rinvio a giudizio era inevitabile.
Commento by zarina — 26 Ottobre 2013 @ 09:25
“….”La prova, secondo il giudice, è in quelle lettere, preparate e mai recapitate, che Lavitola aveva scritto a Berlusconi per chiedere un «prestito » da cinque milioni”…… ”
LA PROVA. Altro che processo per capire. L’ ‘imputato, E’ già colpevole!
Quanti governi sono caduti nei 60 anni di storia della nostra Repubblica? 60, cioè 1 l’anno. Quello di Prodi è stato il 61esimo ed è caduto ne più ne meno per le stesse ragioni per cui sono caduti i 60 precedenti. Per rinfrescarsi la memoria basta andare a leggere la cronistoria dei fatti.
Lla mia impressione è che nei confronti del sig. Berlusconi ci sia stata e ci sia troppa e sospetta disponibilità di certi addetti ai lavori a dare credito a millantatori, opportunisti e profittatori senza scrupoli, che berlusconi avrà anche avuto il dispiacre di incrociare nel suo lungo percorso imprenditoriale e politico: è risaputo che lo zucchero, suo malgrado, attira molto mosche e altri insetti.
Però dagli addetti ai lavori ci si aspetterebbe maggiore professionalità e, soprattutto, imparzialità e giustizia, oltre che sacrosanta discrezione. Niente di tutto questo accade da noi, e in particolare se si tratta di SB. Non volere ammetterlo è essere ipocriti con se stessi.
Se accadesse a noi di finire in questo perverso tritacarne come reagiremmo?