Parenti in volo? Alla Boldrini è permesso a Mastella no
16 Dicembre 2013
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 16 dicembre 2013)
Chi ha una discreta memoria ricorderà lo scandalo che suscitò alcuni anni orsono, ai tempi del secondo governo Romano Prodi (2006-2008), il viaggio di Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia, da Roma a Milano.
L’uomo di governo, leader dell’Udeur, considerato indispensabile per tenere in piedi la maggioranza di centrosinistra, aveva diritto ad usufruire dell’aereo di Stato per le sue trasferte istituzionali.
Poiché egli aveva un impegno di lavoro nel capoluogo lombardo, approfittò della circostanza per seguire con il figlio il Gran premio automobilistico (Formula 1) a Monza. E portò con sé sul jet il familiare senza oneri aggiuntivi a carico delle casse pubbliche. Ovvio, il velivolo, che avesse o no a bordo l’erede del ministro, sarebbe comunque decollato da Roma e atterrato a Linate. Per cui Mastella non ebbe alcuna remora a farsi accompagnare dal figlio nella consapevolezza che ciò non avrebbe implicato una spesa extrabudget. Una scelta, la sua, pienamente legittima.
Nonostante ciò, come si venne a sapere che l’ex democristiano aveva ospitato sull’aereo una persona a lui cara, non facente parte del proprio staff, scoppiò una polemica di fuoco, che divampò per giorni e giorni, finché la grana non fu archiviata perché il fatto non fu giudicato scorretto. Dopodiché non se ne parlò più. Ma ancora adesso Mastella è guardato storto per quella vicenda, benché rivelatasi assolutamente regolare. In Italia per rovinarsi la reputazione non è necessario commettere un peccato; basta che i giornali ti accusino di averlo commesso. Una eventuale assoluzione con «formula piena » non è sufficiente a cancellare la macchia nera.
Cosicché sor Clemente, innocente o no, non importa, presenta una reputazione non del tutto pulita. È assurdo, lo so, ma non c’è nulla da fare. Sarà che lui è un vecchio democristiano, sarà che è stato addirittura il braccio destro di Ciriaco De Mita, sarà che non si è mai nettamente schierato a sinistra, gli avversari non gli perdonano nemmeno gli sgarri che non possono essergli attribuiti per manifesta infondatezza delle accuse.
Ben altro trattamento è stato riservato dai media alla presidente della Camera Laura Boldrini. La quale recentemente si è recata in Sud Africa, allo scopo di partecipare alle esequie di Nelson Mandela, insieme con il fidanzato o compagno o come lo volete chiamare. Va da sé che nessuno ha avuto niente da ridire sul fatto che il giovin signore fosse ospite sull’aereo di Stato diretto laggiù, in fondo al Continente nero. Egli non ha pagato un centesimo per volare? Il problema non è stato nemmeno posto, se non da qualche fogliaccio di destra definito «macchina del fango ».
La signora Boldrini non è manco stata sfiorata dal sospetto di aver agevolato il moroso, magari pagandogli anche vitto, alloggio e generi di conforto con i soldi degli italiani. Figuriamoci. Può addirittura darsi che sia stato lui a saldare ogni conto della missione. Non è questo il punto. Vorremmo solo sapere perché i giornali progressisti, gli stessi che massacrarono Mastella per la capatina a Milano col suo «bambino », nel caso analogo alla Boldrini non abbiano sprecato una goccia di inchiostro. Perché lei è una donna e può fare ciò che vuole? Fosse così si tratterebbe di sessismo al contrario. Fossimo in Mastella invocheremmo le quote azzurre. Lo strapotere femminile sta diventando intollerabile. O è solo una questione di doppiopesismo paracomunista o paraculo?
Io che azzannai il Cinghialone e non vidi gli orrori dei giudici
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 16 dicembre 2013)
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Vittorio Feltri al libro di Nicolò Amato Bettino Craxi, dunque colpevole (Rubbettino, pagg. 346, euro 16) che rievoca la vicenda giudiziaria del leader socialista, ma – come scrive l’autore (magistrato, ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) – «senza riaprire le vecchie polemiche, bensì proponendo una riflessione serena: ora che i Tribunali degli uomini hanno esaurito il loro compito, sia il Tribunale della Storia a esprimere un giudizio obiettivo ».
Dico subito grazie a Nicolò Amato. È uno che ha rischiato la pelle da magistrato, con le sue indagini sul terrorismo, poi come capo del Dap (Direzione amministrazione penitenziaria); quindi ha rischiato la pelle e le palle quando da avvocato ha assunto la difesa del nemico Numero 1 (lui: Bettino), senza mai smettere di palesarsi anzitutto suo amico. E perciò pagando il prezzo dell’isolamento e dell’esclusione da quei mondi cui apparteneva: la magistratura e la sinistra. Memorabile e istruttivo l’episodio di fine 1993 rievocato nel libro, allorché Francesco Rutelli, candidato vincente a sindaco di Roma, gli pose l’aut aut: se difendi ancora Craxi, non farai l’assessore a Roma. C’est la vie. Soprattutto: c’est l’Italie. Poteva dire, italianissimamente: tengo famiglia. Scelse l’amico. Per fortuna c’è chi interpreta vita e Italia come Amato (Nicolò, non Giuliano, che apprendo essere stato oggetto di un’opera d’arte di Craxi dal titolo Becchino. E non penso fosse satira).
Uno dice: ma Feltri come può c’entrare con un libro che sin dal titolo mostra la convinzione dell’autore? E cioè: Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in partenza non per dei fatti criminali o perché si fosse accertato un reato, ma perché sì, perché era lui, era Bettino, aveva messo in crisi l’apparato di potere della sinistra e della magistratura, per di più pretendeva che la vera sinistra fosse il suo socialismo autonomista e non quella orfana dell’Urss, un attrezzo occidentale di tipo socialdemocratico. Era Bettino e dunque colpevole, non solo perché aveva idee diverse e pericolose per le caste rosse, ma perché era semplicemente Bettino, una cosa unica come unici sono tutti gli uomini, ma lui di più. Era fatto di una pasta da capro espiatorio ideale, gigantesco, un ariete perfetto da veder ruzzolare a terra dopo la sua inutile carica, e sgozzarlo felici.
Esagero con le immagini truculente, ed è un modo anche questo per espiare il fio, introducendomi a meditare in che razza di compagnia mi fossi infilato dandogli addosso, diventando uno della banda di babbuini digrignanti e ridenti intorno al Bestione. È arcinoto. Ho partecipato alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo a fianco di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale al tempo dell’Indipendente.
Del resto Bettino non fece nulla per sottrarsi ai colpi. Incurante di essere considerato il simbolo della politica ladra e corrotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sarcasmi. Ho sbagliato. Non scriverei più festosamente davanti alla «rivolta popolare » che accolse Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall’hotel Raphaël a un passo da piazza Navona.
Mi sento definito da quanto scrive Nicolò Amato a proposito dei magistrati di Milano: «Hanno fatto errori, ma in buona fede ». I giudici non so, di certo alcuni non sono stati in buona fede quando hanno salvato i compagni del Pci e della sinistra Dc. Io sì, ero convinto di quanto scrivevo e dicevo, ero in buona fede, ma peggio mi sento. Non sono stato cinico, ma cieco. Perché avrei dovuto alzare lo sguardo. Mettere a frutto l’esperienza acquisita quando seguendo il processo contro Enzo Tortora mi accorsi della parzialità dei Pm e delle loro trombe giornalistiche e denunciai l’infamia. Nel caso di Craxi non vidi. Non avrei dovuto fidarmi di chi, con la scusa di ripulire il mondo dai mascalzoni, prenotava la propria statua del condottiero a cavallo.
Se avessi fatto lavorare come si deve i miei cronisti, o anche solo applicato l’intuito, avrei accertato che il «popolo » delle monetine a Craxi era in gran parte costituito da militanti i quali stavano un attimo prima al comizio di Occhetto a piazza Navona. Avrei dovuto sospettare e denunciare subito come sarebbe finita. Un repulisti che salvava i peggiori, che oltre alle tangenti si erano divorati i rubli. Quando finivano in carcere i tesorieri sconosciuti e le mani lunghe del Pci, ma i capi mai, ci limitavamo a credere che fosse per la razza dei compagni, usi obbedir tacendo e tacendo morir, eroici come Salvo D’Acquisto. A tal punto funziona la sudditanza psicologica in questa provincia dell’Impero. Balle. Craxi non poteva non sapere, mentre per i compagni vigeva un’altra legge, fu applicata loro l’immunità della Santa Ignoranza, i leader rossi sono immacolati avendo lo sguardo perso verso il sol dell’avvenir.
Altro che uguaglianza e imparzialità della giustizia. Gli Occhetto, i D’Alema furono solo sfiorati a Milano da una Pm, Tiziana Parenti, subito trattata da colleghi e stampa come una scema. Risultato: Craxi, Forlani, Gava, Darida, Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, persino Sterpa, La Malfa e Bossi conobbero l’onta o del carcere o dei processi. I compagni di grosso calibro, mai, solo i manutengoli. Mi fidai delle promesse di Di Pietro, il quale assicurò che avrebbe provveduto anche a sinistra.
Non feci bene tutto il mio mestiere. Ne interpretai solo una parte: il fiuto. Percepivo nell’aria il crollo del sistema, la voglia della gente comune di allestire tante belle pire in tante piazze per eliminare tra fiamme purificatrici una classe politica che allegramente aveva caricato l’Italia di un enorme debito pubblico, e invece di rimediare rubava non solo per i partiti ma anche ai partiti medesimi. Colpa grave di un politico è non capire cosa agita il sentimento dei cittadini. Questo non significa che per forza si debba massaggiare la pancia della marmaglia, ma prendere le contromisure sì. Invece anche Craxi non capì. Si arroccò. Questo ti rimprovero tuttora Bettino, se mi ascolti, ma non credo (a differenza tua, che sul finire della vita, tra le palme da dattero scrivesti preghiere anche in arabo a Dio, io resto per ora ateo). Un grande politico come te, come fece a non capire? Stavi troppo lontano dalla gente, frequentavi solo la tua corte. Hai fatto grandi cose, mettendo alla frusta i democristiani della Magna Grecia, impedendo il compromesso storico, abbattendo la scala mobile che ci avrebbe condotto a un fallimento argentino già negli anni Ottanta, ti sei agitato come un leone ferito quando i comunisti ti hanno ucciso l’amico Walter Tobagi e gli assassini comunisti dopo un battere di ciglia sono stati mandati in libertà. Ma non hai capito niente delle forche che si stavano preparando per te. E ti ci hanno appeso. Un po’ per colpa di una magistratura strabica e prevenuta, ma anche per l’indignazione popolare mossa dai ladrocini e dall’illegalità diffusa. Quando si sentiva odore di politica somigliava a quello della fogna, e il fiore che vi galleggiava pasciuto era il garofano. Come hai potuto lasciar fare?
Il tuo discorso potente del luglio del 1992, quanto chiamasti a correi tutti i deputati presenti a Montecitorio per il finanziamento illecito alla politica, e insaponasti così la corda della tua impiccagione, nasconde un’imperdonabile colpa di omissione. Bettino, sei stato presidente del Consiglio. Non avevi da far altro che proporre norme per dare trasparenza ai finanziamenti, legalizzandoli. Invece ti sei limitato ad acconsentire a un’amnistia sul tema, in data 1989, con risultato di rendere candido come la neve il torrente insanguinato dei rubli del gulag, finito nei forzieri comunisti. Complimenti. Sono sarcastico anche se sei defunto. Ma te lo devo, per l’affetto che col tempo ho maturato per te, Bettino. Come scrive Nicolò Amato citando Voltaire: «Ai vivi si devono riguardi; ai morti di deve soltanto la verità ». Non ho rispettato ai tempi la prima parte di questa massima liberale. È anche questa una verità che devo al morto.
Come si sarà notato, mi sono battuto il petto, senza esagerare, sono vecchio, per il mea culpa. Questo non mi risparmierà l’esibizione dei campioni dello sport più facile e stupido dopo il curling: quello di mettere in paragone i giudizi di ieri con quelli di oggi, deducendo l’incoerenza dell’autore. La quale incoerenza viene attribuita alla vendita se non della propria anima, almeno del deretano. Amen. Non citerò la solita frase secondo cui solo i cretini non cambiano idea. Io non ho cambiato idea. Ho semplicemente aperto gli occhi. Detesto come e più di prima i ladri di ogni provenienza, destra o sinistra o centro. Non che mi ritenga superiore, semplicemente più che la forza dei precetti morali in funzione la paura dei carabinieri. Un attimo dopo però, quando Bettino rimase ferito, costretto alla latitanza, che per uomini come lui giustamente si chiama esilio, e fu consegnato al dileggio da gente che aveva tasche e coscienze grondanti di moneta sovietica, rinunziai a bastonare lo sconfitto.
Nel 1999, gli ultimi mesi della sua vita, cercai di muovere la politica italiana perché gli concedesse la grazia, o almeno la possibilità di curarsi in Italia. Chiesi a Giulio Andreotti di scrivere sul tema per il Quotidiano Nazionale che allora dirigevo. Lo fece di buon grado. Chiese la grazia e usò parole nobili per l’antico avversario, che di lui aveva sentenziato: le volpi finiscono in pellicceria. Non arrivò nulla di nulla dal Quirinale, solo ipocrisia.
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(Un articolo che consiglio a tutti di leggere, anziani e giovani. bdm)
Un’agenda stile “prendere o lasciare”
di Elisabetta Gualmini
(da “La Stampa”, 16 dicembre 2013)
Esattamente come aveva promesso, ieri Matteo Renzi a Milano ha preso in mano le sorti del governo. Ha dettato l’agenda all’esecutivo proponendo un accordo iper-dettagliato alla tedesca che gli consente di puntare a un duplice obiettivo. Se le riforme riusciranno, Renzi potrà presentarsi agli elettori con un primo pacchetto di misure popolari da rivendicare a proprio merito e una macchina dello Stato che decide più velocemente. Se invece tutto andrà a rotoli, sarà chiaro che il sindaco-segretario ci ha provato e ci sarà comunque qualcuno su cui scaricare il biasimo: da Alfano a Grillo, passando per Berlusconi. In piena campagna elettorale per le europee, Renzi non può permettersi di cincischiare.
Passato il Natale, non si scherza più. Non si può ripetere la «brutta figura » dell’Imu, il prezzo altissimo pagato sull’altare delle larghe intese, con Berlusconi che ha pure rovesciato il tavolo passando all’opposizione. E così sul lavoro, sui diritti civili e le riforme istituzionali Renzi inanella le sue proposte ultimative, con annesse scadenze, i patti a cui è difficile dire di no, da prendere o lasciare.
Alcuni contenuti, se si va oltre le formule stentoree buone per la platea congressuale e per le tv, non sono a dire il vero proprio chiari. Parlando ai delegati del Pd, Renzi si tiene saldamente stretto ai capitoli più cari alla sinistra (come ha prontamente colto Alfano, per ridimensionare la portata del messaggio). Ma proprio sulla questione numero uno, sul lavoro, Renzi dovrà spiegare meglio in quale direzione intende andare. Se tornare a una visione assistenzialista, come quella incarnata (almeno fino a ieri) dalla neo-responsabile in segreteria Pd, Marianna Madia, sostenuta alle primarie dei parlamentari dalla Cgil (e, tra le altre cose, autrice di un libro sulla precarietà con prefazione di Susanna Camusso), che punta su sussidi e garanzie sociali per tutti (un non ben specificato reddito di inclusione universalistico finanziato togliendo risorse non si sa dove) e l’ennesima riforma dei centri per l’impiego che sino ad oggi hanno intermediato il 4% della forza lavoro, o quella opposta, orientata alla crescita della ricchezza come volano per redistribuire, che pensa piuttosto di investire le non molte risorse disponibili per ridurre le tasse sul lavoro (come ha chiesto Filippo Taddei, anche lui in segreteria Pd) e non criminalizza la flessibilità (come diceva Pietro Ichino, graditissimo a Renzi nelle primarie del 2012). Non si può tenere insieme tutto; attaccare il sindacato e poi proporre politiche del lavoro che ammiccano al sindacato. E poi lo ius soli e la patata bollente della riforma elettorale e dell’abolizione del Senato, con un ultimatum rivolto a Grillo. (E Beppe ha risposto in fretta: picche.)
Insomma Renzi detta le sue condizioni, ed è credibile, sul palcoscenico dell’Assemblea Nazionale, perché ha davanti a sé una platea oggi disposta a seguirlo su tutto. Un partito che sembra docile e addomesticato in cui gli antagonisti sono stati ridotti a minoranze deboli e leali. Bisognerà vedere se i gruppi parlamentari suoneranno ordinatamente lo stesso spartito. Ma questa oggi appare la novità del Pd. C’entra poco la sfida generazionale (di trentenni o quarantenni, balzati sotto i riflettori della politica, che replicano malamente i contenuti diramati dal leader). E’ la forza personale di Renzi che forse riuscirà a dare una scossa. Il Pd ha trovato un leader e il leader ha trovato il partito. E il Pd rompe non pochi tabù. Ha un segretario che cura la comunicazione quanto la strategia, la scena quanto la piattaforma. Una roba che deve aver fatto venire l’orticaria ai dirigenti più anziani. Qualcuno si rivolterebbe nella tomba a sentire gli applausi scroscianti dell’assemblea agli incitamenti motivazionali del segretario, da «rimaniamo ribelli » a «resta speciale e non ti buttare via ». Con quella strizzatina d’occhio che Renzi fa sempre prima di cominciare a parlare (ma a chi?) e la girandola di nomi propri che fanno venire il mal di testa, da Enrico, Guglielmo, Pierluigi a Gianni&Pippo, passando per le undicenni Fatima e Barbara, a Katia e Paolo (ma Katia chi?). Insomma il Pd ha cambiato pelle. Se starà sulla frontiera e non nel museo delle cere lo vedremo tra poco. Anzi tra pochissimo. Entro gennaio.
Renzi sbaglia la prima mossa e Grillo lo mette al tappeto
di Stefano Filippi
(da “il Giornale”, 16 dicembre 2013)
In quattro e quattr’otto Matteo Renzi ha cercato e ottenuto il primo «vaffa » da segretario Pd. Ha sfidato Beppe Grillo, ha tentato di scendere sul suo terreno come aveva fatto Pier Luigi Bersani quando rimediò una figuraccia sottoponendosi alle forche caudine del faccia faccia in diretta streaming.
Questo il guanto lanciato dal rottamatore ieri davanti all’assemblea nazionale del partito: «Te lo dico io, Beppe Grillo, firma qua. Hai 160 parlamentari decisivi per fare le cose su cui 8 milioni di italiani ti hanno votato. Via il Senato, tagli alle regioni, nuova legge elettorale: tu appoggi il nostro programma e noi restituiamo subito i rimborsi elettorali. Il Paese aspetta le riforme. Se ci stai, si fa. Se non ci stai, sei un chiacchierone. L’espressione “buffone ” vale per te ».
Su queste parole Renzi ha incassato l’applauso più fragoroso dei mille delegati Pd. Era questa la «sorpresina » annunciata alla vigilia. Non un tentativo di compaginare una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo di Enrico Letta, ma una sfida, un corpo a corpo con l’ex comico. Il quale in serata ha replicato esibendo tutta la sua eleganza: «Renzie aveva annunciato una “sorpresina ”. C’è stata invece solo una scoreggina », ha scritto sul blog. «Caccia la grana, Renzie, e cacciala tutta, non solo la seconda rata, anche la prima ». Ma Grillo sbatte la porta in faccia a Renzi anche sulla legge elettorale: «Si sciolga questo Parlamento delegittimato e si voti con il Mattarellum. Sarà il prossimo Parlamento a fare la nuova legge elettorale ».
Esordio con umiliazione all’assemblea nazionale Pd, non male per l’uomo nuovo della politica italiana che si carica sulle spalle nientemeno che il futuro stesso del Paese: «O salviamo l’Italia o la condanniamo noi », ha esclamato. È un Renzi ondivago, il quale ha abiurato a metà l’etichetta di «rottamatore » che si era cucito addosso l’anno scorso e ha abbracciato quella sinistra che si era proposto di superare. Anche se cita la Moncler e sceglie i Negrita come colonna sonora dell’incoronazione a segretario, anche se dice che «la Cgil è quanto di più lontano da certe mie convinzioni », il leader democratico fa l’elogio della ribellione e propone un programma di sinistra: sussidio universale per tutti i disoccupati, modifica della Bossi-Fini con introduzione dello ius soli per gli immigrati (cittadinanza italiana per chi nasce nei nostri confini), apertura alle unioni civili e alle coppie gay (civil partnership, la chiama lui) su cui «non possiamo fare finta di niente anche se non piace a Giovanardi ».
Tutto ciò diventerà una bomba a orologeria sotto la sedia di Enrico Letta. Perché Renzi vuole trasformare il suo programma in punti di governo irrinunciabili, un «patto di coalizione » sancito da un «accordo alla tedesca, voce per voce, punto per punto, con tempi stabiliti per i prossimi 12-15 mesi ».
Queste sono le priorità. E la legge elettorale? I tagli ai costi della politica? Renzi li liquida come «tecnicismi utili », «buoni esempi », che non fanno risparmiare grandi somme. Dal sindaco di Firenze non arrivano ricette, soltanto l’indicazione di un sistema che difenda il bipolarismo perché «le larghe intese sono un’eccezione ». «Diamo la massima disponibilità a tutte le forze politiche per trovare le soluzioni. Ma entro gennaio o la Camera approva una riforma oppure la politica perde la faccia ». Se Renzi si illudeva di approvare la legge con i voti di Grillo, la faccia l’ha già persa lui.
Un nemico è comunque individuato: la stampa. Avversario condiviso con Enrico Letta, che nel suo saluto all’assemblea Pd si è lagnato di come viene raccontata l’azione del governo aggiungendo: «Dai giornali devono sparire i retroscena dei rapporti tra me e Matteo, perché tutto dev’essere trasparente ». Renzi rincara: è vergognoso che il fondo per l’editoria (che in realtà è un ammortizzatore sociale) sia sei volte il fondo per la famiglia. «Le banche devono uscire dall’editoria e dai luoghi dove hanno cercato di governare il Paese ». È un attacco a tutti i giornali tranne uno, Repubblica, che sta dalla parte di Renzi. E conta sui soldi versati da Silvio Berlusconi al gruppo che fa capo a Carlo De Benedetti.
Spinelli risponde a Scalfari: “La tua è violenza inaudita. E non parlare di mio padre”
di Redazione
(da “Libero”, 16 dicembre 2013)
Eugenio Scalfari prova a mettere una pezza e ricucire con Barbara Spinelli dopo le pesanti accuse e le parole becere con le quali l’ha etichettata per quell’intervento, che proprio non gli è piaciuto, sul presidente Giorgio Napolitano contenuto nel libro di Marco Travaglio. Dopo averle dato dell’ignorante (“conosce poco o nulla la storia d’Italia”), dopo averle ricordato, quasi fosse una scolaretta che deve presentarsi accompagnata dai genitori e che deve chiedere il permesso a loro per leggere o scrivere (“sei la figlia di Spinelli”). in nove righe il fondatore di Repubblica oggi ricorda “l’antico affetto nei suoi confronti”. Nove righe di replica alla dura lettera che la Spinelli, editorialista dello stesso quotidiano, gli ha voluto dedicare dopo un giorno di silenzio e riflessione. Perché dopo certi attacchi bisogna fermarsi, prendere fiato, e poi rispondere.
Così Barbara Spinelli ammette di essere rimasta stupita dalla “violenza nei suoi confronti” di cui non credeva Eugenio Scalfari capace. E spiega: “Violento è l’uso che fa di Altiero Spinelli, del quale nessuno di noi può appropriarsi: chi può dire come reagirebbe oggi, di fronte alle rovine d’Italia e dell’Europa da lui pensata nel carcere dove il fascismo l’aveva rinchiuso, e difesa sino all’ultimo nel Parlamento europeo? Non ne sono eredi né Scalfari, né il Presidente della Repubblica, e neppure io. Il miglior modo di rispettare i morti è non divorarli, il che vuol dire: non adoperarli per propri scopi politici o personali. Mi dispiace che Scalfari abbia derogato a questa regola aurea”. Riguardo al Movimento Cinque Stelle, che viene dipinto dal giornale su cui scrive come il male assoluto, Barbara Spinelli chiude la lettera facendo notare a Scalfari che “è inutile e quantomeno scorretto accusare Grillo di condannare alla gogna i giornalisti, quando all’interno d’una stessa testata appaiono attacchi di questo tipo ai colleghi”. Per molto meno, fa notare il Fatto quotidiano, “c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misogenia e sessismo”. “Se Barbara non fosse una signora”, continua il giornale di Travaglio, “potrebbe ricordare a Scalfari, come fece Giorgio Bocca, che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o come fanno in pochi, che da giovane era caporedattore di ‘Roma fascista’”.
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(A papa Eugenio non converrebbe nemmeno rispondere, non ne vale la pena. Ne avesse azzeccata una! Gli fanno scrivere su Repubblica poiché ha cacciato i soldi per fondarlo, altrimenti oggi potrebbe scrivere solo sull’Osservatore romano”, dopo le sue visioni e conversioni cristologiche. Non dimentichiamoci mai – e questo vale anche per la figlia di Altiero Spinelli – che nei confronti di Scalfari il grande (questo sì) Mario Pannunzio ha sempre nutrito diffidenza e disistima. La storia gli dà ragione ogni giorno sempre di più. Insieme con Napolitano si ritiri ai giardinetti pubblici e giochi alle barchette. bdm)
E’ morta Joan Fontaine, fu la musa di Hitchcock
di Redazione
(da “l’Unità”, 16 dicembre 2013)
E’ morta Joan Fontaine, indimenticabile icona hitchcockiana. Il decesso nella sua villa di Carmel-by-the-Sea, nella California settentrionale, è avvenuto per cause naturali, come confermato dalla sua agente Susan Pfeiffer: la grande attrice aveva 96 anni.
Nata in Giappone nel 1917 da genitori britannici, Fontaine per tre decadi contrassegnò con la sua eleganza e il suo stile una lunga epopea cinematografica durante la quale, accanto alle sue grandi capacità interpretative, emerse l’accesa rivalità con la sorella maggiore, l’ormai 97enne Olivia de Havilland, che le è caparbiamente sopravvissuta.
Trasferitasi all’età di 2 anni negli Stati Uniti insieme alla famiglia, Fontaine debuttò sul grande schermo nel 1935, e nel 1940 fu voluta da Alfred Hitchcock accanto a Laurence Olivier per il suo film d’esordio americano, Rebecca, la prima moglie che le valse la prima nomination all’Oscar. La vittoria le arrise due anni più tardi, quando ottenne il premio alla migliore attrice protagonista per Il sospetto, dove recitò al fianco di Cary Grant. Il riconoscimento la rese l’unico mattatore di un’opera del regista inglese, donna o uomo, a ottenere l’ambita statuetta. Una soddisfazione acuita dal fatto di aver sconfitto nell’occasione proprio la sorella, a sua volta candidata con La porta d’oro di Mitchell Leisen. De Havilland si sarebbe poi rifatta nel 1946, imponendosi con A ciascuno il suo destino, sempre per la regia di Leisen, e doppiando il successo tre anni dopo con L’ereditiera di William Wyler.
Nel frattempo la sorella minore aveva ottenuto un’ulteriore candidatura nel 1943 per Il fiore che non colsi diretto da Edmund Goulding, a conferma di una competizione a distanza che non conobbe mai tregua.
Per la cronaca, nessun’altra coppia di fratelli o sorelle nella storia è mai riuscita ad aggiudicarsi la più importante onorificenza del cinema.
Sposatasi quattro volte, per infine sempre divorziare, Fontaine ebbe una figlia, Deborah Leslie, e nel 1952 ne adottò una seconda, Martina, di origini peruviane, che però se ne andò di casa già nel 1963. Una delle vicende più dolorose per l’artista, come lei stessa raccontò nell’autobiografia data alle stampe nel 1978: No Bed of Roses, nessun letto di rose per lei.
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