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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Baldini, Eraldo

6 Novembre 2007

Faccia di Sale
Bambine
Gotico rurale
Mal’aria

“Faccia di Sale”

Frassinelli, pagg. 150. Euro 8,50

Baldini è un autore tanto modesto e appartato quanto bravo. Di lui ho letto “Bambine”, del 1995, “Mal’aria”, del 1998, “Gotico rurale”, del 2000, presenti ora nel volume “Quaranta letture – Percorsi critici nella letteratura italiana contemporanea”, Marco Valerio Editore, Torino, 2004.

Faccia di Sale è del 1999.

Siamo alla fine del XVII secolo, l’anno del Signore 1699, nel mese di ottobre, ad un passo dal nuovo secolo, quello che sarà ricordato come il secolo dell’Illuminismo, il secolo che vedrà la supremazia della ragione sul sentimento. Si sta demolendo una città per ricostruirla vicino al mare. Si odono gli assordanti fragori dei lavori di abbattimento, ma “nonostante i colpi dei magli e delle mazze, le grida degli operai e dei comandi, sembrava esserci quasi silenzio; o almeno c’erano rumori così diversi da quelli normali della Città. Di quella Città che ormai non c’è più. Stiamo terminando.” Baldini è già qui, in questa scelta del tempo in cui collocare la sua storia. Nel momento in cui fa capolino la ragione, con la sua lucida onnipotenza, Baldini la mette in guardia, le getta addosso la rete del mistero, la ingarbuglia, rende evidenti le sue debolezze, i vuoti e le nebbie che la circondano. Luigi Derigo, colui che narra, trent’anni, celibe, è il direttore dei lavori. Ci fa sapere che la vecchia città era ormai circondata da acquitrini e paludi. Prima vicina al mare, questo era andato ritirandosi. Anche la fontana da cui la popolazione attingeva acqua, si era disseccata. Il luogo era diventato il regno delle terribili zanzare, contro cui non si poteva nulla. La nuova città è quasi finita. Sorge vicino al mare, come una volta la vecchia. La vita è pronta a ricominciare. Sono trascorsi appena cinque anni dall’ultimo flagello, annunciato dalla comparsa nel cielo di “una cometa rossastra dall’aspetto pauroso. La sua coda era ricurva all’ingiù, verso terra, sembrava quella di uno scorpione pronto a colpire.” Colpì, infatti: “carri pieni di morti fecero una spola ininterrotta fino al cimitero, e chi sopravvisse al male non si riprese che dopo settimane, a volte mesi, di debolezza e di sofferenza.” Lo riconosciamo: è il mondo di Baldini, del Baldini di “Mal’aria” e dello stupendo “Gotico rurale”. Con la piccola sordomuta Diamantina, la figlia di una coppia di salinai che curano le saline di Derigo, è anche adombrato il tema di “Bambine”. Una continuità d’ispirazione e di impegno, dunque. Il mondo che l’autore ci delinea, anche se ambientato nei secoli passati, in realtà è un mondo che è sempre esistito e che esisterà.

Il tentativo non riuscito di trasferire i morti nella Città Nuova (“Anche i nostri antenati meritano un posto migliore”), che altro vuole rappresentare se non una presenza costante del mistero, da cui non ci si può né ci si vuole liberare?

Il lavoro è durato tre anni. La Città Nuova è pronta, il protagonista, abbattuta per ultimo la sua vecchia casa, vi abita già, come gli altri. I morti sono stati trasferiti nella cripta della cattedrale di Nostra Signora delle Acque, la quale è l’unica costruzione non abbattuta, che deve rimanere a ricordo della Città Vecchia. Disseppellire i morti, di cui si occupa il cugino Ruggero (“l’unico parente che mi è rimasto”), è un’impresa improba. I resti sono maleodoranti: “quello che gli operai tirano fuori, lavorando con i fazzoletti legati a coprirsi la bocca e il naso, non è che un marciume disfatto, una parodia di corpi confusi gli uni con gli altri nello sfacelo.”

Tuttavia essi mantengono ancora una straordinaria forza di attrazione, così come la città distrutta: “forse, c’è qualcosa che mi richiama laggiù.”

Con uno stile di una semplicità esemplare, Baldini ci sta immergendo nel mistero. Ne percepiamo il bisbiglio, ne scrutiamo le ombre. Quando, preso il cavallo, vi fa ritorno per un impulso improvviso, trova che: “Il vento da levante è forte, sussurra e fischia, le canne e le erbe che sono cresciute in fretta sembrano un mare che si muove in onde verdi e rugginose; e la grande chiesa, in quel mare, sembra una nave fantasma, o un’isola severa e misteriosa.” Forse anche il cavallo “sente l’atmosfera strana, quasi paurosa che c’è in questo posto.” È l’atmosfera che prepara l’evento. Un cane nero sopravviene, raspa e ne esce con in bocca uno scheletro di braccio umano. La colpa è del cugino Ruggero che, per sete di guadagno, ha concluso troppo in fretta il trasferimento dei morti, alcuni dei quali non sono stati disseppelliti, come doveva. Si prepara la discesa di Derigo all’Averno, dunque, nel regno dei morti. Una lite, infatti, con il cugino Ruggero che, aiutato dai suoi compagni, lo riduce moribondo e lo rinchiude nella cripta della cattedrale già colma di morti, gliene dà l’occasione. Dolore, Buio, Odore, Terrore, Sete, Fame, Orrore, sono gli incubi che lo accompagnano in questa sua discesa macabra. Ci ha provato un altro autore a parlare di una condizione di premorte, cosciente e immersa nella paura: Romano Battaglia con il suo “Non mi sono ucciso”, ma Baldini riveste questa condizione paurosa di un macabro che la rende ripugnante, come a indicarci che il passaggio oltre la morte, se è preceduto da ombre e fantasmi silenziosi colmi di mistero, nel momento che si avvicina agli estremi della vita, si accompagna sempre ad un terrore che ha con sé altre pestilenze, le quali finiscono col devastarlo e condurlo al nulla, forse la vera condizione per poter varcare la soglia.

Dalla cripta riesce a vedere un lume che si avvicina; la disperazione si muta in speranza. Sulla soglia del trapasso, dunque, si fa il primo passo a ritroso, ci se ne allontana. Si tratta di una vecchietta che, frugando tra i morti, lo ritrova male in arnese, moribondo. È una strega: la zi’ Pachina, “vecchia, brutta, sdentata, con i capelli bianchi e sporchi.” Ad un tratto si affacciano alla nostra mente la Borda, Nonna Clara, il Gorgo nero, protagonisti di alcuni racconti successivi contenuti in “Gotico rurale”. La Borda sarà presente anche in “Mal’aria”. La zi’ Pachina reca con sé un sacco in cui mette “ossa di morto, cuori e altre robe simili” per il suo lavoro: “Per i filtri, le pozioni, le pomate.” Con l’aiuto di un “nano forzuto” Luigi Derigo viene trascinato fuori dalla cripta e curato. Baldini ci spinge a domandarci che cosa ne sarà di quest’uomo che ha toccato il limite estremo della vita. Egli ha vissuto l’esperienza dei momenti che precedono la fine, ha intravisto le ombre, percepito i misteri, il suo corpo maciullato era pronto a cadere nel nulla, a vanificarsi. Chi lo riporta alla vita è una fattucchiera, una strega, ossia colei che è abituata a confidenze con i segreti e le ombre sparsi intorno a noi. Ci si domanda ancora: chi sopravvive ad una simile esperienza, può tornare ad essere quello di prima? Esteriormente, lo sappiamo, Luigi Derigo non è più lo stesso; il viso sfigurato lo rende irriconoscibile. E lo spirito? Il viaggio che intraprendiamo in compagnia di questo autore scandaglia un’avventura possibile, una probabilità forse non così rara, forse anche onnipresente. Si tratta, in sostanza, di un contatto con un’altra vita continuamente in agguato, che muove attacchi e dispone ritirate che non sono mai neutri; lasciano minuti segni, impercettibili ombre, che si nascondono nelle nebbie e nei vuoti della nostra memoria. Baldini si serve dell’orrido per dare significato a queste ombre, a questi piccoli segni: “Il naso è storto e schiacciato, uno zigomo non ce l’ho più, al suo posto c’è una specie di buco livido, mi manca un pezzo del labbro di sopra ed è come se ghignassi o facessi una smorfia sorridente e cattiva, ci sono cicatrici e gonfiori che, se non se ne sono andati adesso, non spariranno più. Santo cielo, nessuno potrà più guardarmi senza provare disgusto.” Paura della vita, dopo che si è avuto paura della morte? Si può guarire? La zi’ Pachina, che lo cura nella “stanzetta della sagrestia” della vecchia cattedrale (diventata la sua “tana”), quindi non lontano dalla cripta in cui era stato rinchiuso, gli cosparge sul corpo e sul viso i suoi misteriosi unguenti: “e quando questa roba si asciuga, la mia faccia diventa bianca e granulosa, come coperta di sale, e sento che mi tira.”

E l’anima, anche quella si può curare?: “A me quella almeno è rimasta, anche se credo che neppure lei sia sana come prima.” Ci troviamo in uno dei momenti dichiarativi della storia. Ancora: “Per fortuna c’è tanto sale, qui attorno. Sotto sale non marcisce neppure la carne.” Sappiamo dunque che quell’avvicinarsi ad una distanza così prossima alla morte e al passaggio che ne consegue, non sono distruttivi ma modificativi. Scendere, anche per un solo istante gli scalini della vita, avvicinarsi alle porte dell’Averno, dell’Ade, non sono la stessa cosa immaginata dagli antichi, da Omero ad esempio. Nell’ipotesi affrontata da Baldini non si torna mai indietro restando come prima. Si diventa “una statua di sale.” Quando Derigo decide di fare la sua prima uscita in cerca di cibo, visto che ora, in inverno, con la neve che è caduta, con “un freddo boia”, la zi’ Pachina non può più assisterlo rintanata com’è in casa sua, egli, divenuto irriconoscibile, si fa passare per mendicante “zoppo e sfigurato.” Ma i primi che lo vedono, mastro Bottaro e suo figlio, fuggono spaventati, anziché soccorrerlo, e così in città tutti sanno di un fantasma che si aggira per quei luoghi con una faccia di sale. Ecco, Luigi Derigo è, ora, per tutti: “Faccia di Sale”, una “faccia brutta e bianca.” Ci sono somiglianze con le atmosfere create da Vincenzo Pardini in alcuni suoi racconti contenuti ne “La mappa delle asce”, del 1990; “La congiura delle ombre”, del 1992 e nell’originale radiofonico: “Il mulattiere dell’Apocalisse”. Di Pardini va ricordato, per inciso, un racconto incredibile per bellezza e mistero: “Segregazione” (questo l’incipit: “Io non sono uno di voi, ma sento e vedo tutto.”), di cui nessuno si è ancora accorto, se non, forse, Enzo Siciliano, direttore della collana in cui apparve per Giunti il libro che lo conteneva: “Rasoio di guerra”, del 1995.

È iniziata la caccia al fantasma conosciuto ormai con il nome di Faccia di Sale. Il nano, amico di Pachina (vedrete, sarà qualcosa di più), lo avverte che una pattuglia di armati lo sta cercando. Del resto, Derigo non desidera rivelarsi per timore che il cugino lo uccida, così si rifugia sul campanile della chiesa vecchia. È inverno, un inverno rigido, dappertutto all’intorno è bianco di neve. Da lassù volge lo sguardo alla Città Nuova: “Vedevo la Città Nuova, un grande quadrato da cui svettano le torri e i campanili, vedevo la pineta, gli specchi delle saline, le terre e le rive imbiancate, i canali; e poi vedevo, dopo tanto tempo, il mare. Era scuro, una lontana, alta e plumbea striscia scura, ma mi sono venute egualmente le lacrime agli occhi.” Si accresce in lui il desiderio, dunque, di tornare alla vita, pur conscio della differenza che lo allontana da ciò che era prima. Avverte perfino l’impossibilità di tornare ad essere quello di un tempo. Baldini ha trasformato le due città in simboli: la Città Vecchia è la morte, l’oscurità e la paura che riducono al nulla tutte le cose; la Città Nuova la vita, con i suoi fermenti, i suoi eccessi, le sue speranze. Con l’occhio rivolto alla Città Nuova, che ora dal campanile riesce a vedere in tutta la sua “geometrica” estensione, con la consapevolezza che da quel campanile non potrà uscire, se non per cadere nelle mani del cugino Ruggero, egli decide il compromesso con la Città Vecchia e con i morti. “io sono il re. Sono un uomo che non esiste più, sovrano di una città che non c’è più.” Da lassù vede spuntare il Natale e poi l’anno nuovo, il 1700, il secolo dei lumi. La zi’ Pachina, che continua ad andarlo a trovare ogni tanto, per portargli il cibo, gli regala un cannocchiale. Anche il cannocchiale diventa anelito alla vita, un segno di vita: “mi fa sentire vivo. Vivo, perché non più tanto lontano da tutto.” Se non attraversiamo il passaggio che la morte ci spalanca verso il mistero, la vita a poco a poco riprende vigore, si nutre a vista d’occhio della speranza, come una pianta che ha ceduto ai rigori dell’inverno e pare morta, ma in primavera genera nuovi germogli. Senza quell’attraversamento fatale, ossia, non si uccide la vita: “Non mi sento più il re di una città morta: adesso mi sento il capitano di una nave.” Non più staticità, dunque, ma un cammino, un percorso, anche se non potrà mai essere quello del ritorno. Credutolo ormai morto, “Ruggero Derigo adesso è legalmente padrone di tutti i beni di Luigi Derigo”. Tra la Città Vecchia e la Città Nuova si crea un vuoto, una sospensione, una frattura; si squarcia un velo dietro il quale prende forma un percorso che solo Luigi Derigo, divenuto Faccia di Sale, è in grado di intraprendere: “me ne andrò, e al diavolo tutto, tutto ciò che è stato.”

Che cosa sta accadendo? Il cannocchiale, che ha risvegliato il suo anelito alla vita, è diventato ora lo strumento che gli consente di vedere lontano, di conoscere, di scoprire. E allora, da lassù scorge per la prima volta brutture, maneggi, intrighi che prima non riusciva a vedere: il contadino, “paron Ferraro”, che fa sesso con le sue pecore; i governanti della Città Nuova che s’incontrano nella Città Vecchia, fuori dagli sguardi indiscreti, con contrabbandieri ai quali vendono per proprio conto il sale, rubando così alla collettività; corrieri che incettano posta e valori, approfittando della Città Vecchia, ormai deserta, divenuta luogo appartato di malaffare; mercanti che vi fanno sosta per alterare mercanzie e bilance; nella chiesa si rintanano donne, anche di “grande stima”, per incontrare i loro amanti: “Io da quassù vedo tutto, e più vedo, meno mi piacciono la Città e la sua gente. Più vedo e ascolto, e più ho voglia di andarmene.”

Luigi Derigo non è più lo stesso. È ora Faccia di Sale: un altro, non solo nell’aspetto, ma anche nello spirito. Baldini ci ha mostrato la scoperta, il cambiamento che hanno fatto seguito ad un percorso che pareva di morte definitiva, ed invece era il principio di una vita nuova: di una rinascita. Nel momento in cui il fisico ne esce storpiato, spaventoso, ributtante, la sua anima acquista una sensibilità ulteriore, mai prima conosciuta, una dovizia e stranezza di sensazioni mai appartenuti al vecchio Luigi Derigo. Ci si domanda che cosa ne farà Faccia di Sale della novità sorprendente che si è scoperta in lui.

La Città Nuova non manca di lusingarlo. Saprà resistere? Baldini, è qui che chiama a raccolta i lettori, dopo che gli ha presentato l’ipotesi di un uomo che, risalito alla vita, non si è voltato indietro, come la moglie di Lot, a guardare la città di Sodoma distrutta dalle fiamme e tramutarsi, così, in una muta e morta statua di sale, ma con un percorso somigliante egli, invece, è attraverso la sua faccia di sale, volgendo lo sguardo intorno a sé, che scopre e vede una Sodoma dei suoi giorni. Sembra che Baldini abbia ripreso in mano quel brano celebre della Genesi e ci abbia sottoposto il caso di un uomo, Faccia di Sale, che, al contrario di quanto accadde alla moglie di Lot, abbia potuto, libero da qualsivoglia minaccia di punizione divina, guardare la città di Sodoma dibattersi tra le fiamme.

“Sta diventando cattivo”, ecco che cosa succede a Faccia di Sale, vedendo le brutture della sua città. Quel porco di paron Ferraro sotto i suoi occhi ha tentato perfino di abusare della piccola Diamantina, sordomuta di appena dieci anni.

Il richiamo a Sodoma si fa ancora sentire: “fiaccole che tremano e si stracciano nell’aria come prese da mulinelli di vento”. Quando Faccia di Sale decide di scendere dal campanile e di avventurarsi nella Città Nuova, sceglie il periodo del carnevale. Dal campanile vede sfilare le carrozze dei maggiorenti che si recano a fare baldoria, a scatenare i propri sensi e le proprie illusioni: “stasera il vino corre a fiumi ovunque”. Si maschera anche lui, con l’intenzione di recarsi in mezzo alla gente per “fare giustizia”, e quel che i suoi occhi incontrano è una grande confusione, una gozzoviglia, un baccanale: balli scatenati, canti, grida di ubriachi, rumori di ogni sorta, assordanti musiche: “Passo davanti a una casa e vedo sulla porta una ragazza quasi svestita.” Prova attrazione per ciò che accade, però: “C’è una parte di me che è così lontana da questa gente, da questa Città, dalla sua vita, e un’altra che spinge per non lasciare le cose che conosco e che mi hanno accompagnato per tutto il mio tempo.” La sua giustizia dispensa morte, ne prova piacere. Nessuno si accorge delle cose terribili che semina per la città; si è acceso il gran falò con il quale si brucia il fantoccio del carnevale e la gente è radunata là intorno: balla, strepita, fa festa. Domani, infatti, inizierà la quaresima, il tempo della penitenza, e un’antica credenza vuole che si sia fortunati se quella notte del martedì grasso ciascuno andrà a dormire sazio di ogni desiderio. Ma a lui che cosa sta accadendo, invece? Perché quei suoi misfatti?: “Sto diventando un’altra persona”. È per questo che la morte lo ha rifiutato? Perché diventasse, lui, Faccia di Sale, il suo strumento? Quel suo desiderio di giustizia non è, al contrario, il principio del male che sta lavorando in lui? Come accade al famoso personaggio di Robert Louis Stevenson, il male, una volta insediatosi in noi, produce altro male, prolifica, non si ferma più: “quello che era successo alla chiusa no, non era in preventivo, mi era venuto così; e perché, poi?”. Baldini ci suggerisce, partendo dalla iniziale sventura di Luigi Derigo, un contatto speciale e misterioso con la natura umana, una particolare trasformazione sollecitata da quello spazio vuoto che si è formato nell’istante in cui, moribondo e ad un passo dalla morte, è stato ricondotto alla vita. Da quel momento, è stato sospinto su di un percorso sconosciuto e terribile, nel corso del quale ombre e misteri si son messi ad ordire ed elaborare una nuova vita. Si domanda quale sia “l’olio che alimenta la fiamma della mia nuova vita, della mia nuova essenza.” Se la Sodoma biblica fu distrutta, la Città Nuova ha infiammato e fatto esplodere una natura sconosciuta che viene dal buio, dai confini più estremi della vita: “mi sentii come quando ero giù, ferito e confuso, nella cripta.”

Per la quantità di efferati delitti che accadono, nella Città Nuova si pensa, in un primo tempo, alla presenza di una belva feroce, e le si sta dando la caccia dappertutto. Anche nella vecchia chiesa sono entrati, costringendo Faccia di Sale a nascondersi.

Finalmente, si pensa a lui come all’autore degli orribili delitti e si attribuisce un ruolo alla strega Pachina, che viene arrestata perché confessi. È il nano che rivela tutto ciò a Faccia di Sale. Questa parte della storia ha due capitoli molto belli, quello che descrive la baldoria del martedì grasso e l’altro che riguarda l’arrivo delle oche, le quali coprono il cielo in occasione del “Grande Passo”, che capita su quelle terre “ogni tre o quattro anni”. È in occasione di quest’ultimo evento che egli vede ancora una volta la piccola Diamantina. Desidera mostrarsi a lei, provare se la piccola ha ancora terrore di lui, del suo viso deforme. Ma la sua cattiveria, quando la raggiunge, lo sollecita a farle del male. Prima di questo romanzo Baldini aveva scritto “Bambine”, non per caso. In Diamantina, infatti, si nasconde la purezza dell’innocenza, non solo, ma anche la forza di redenzione che emana da quella speciale innocenza. Si scatena, infatti, una lotta in Faccia di Sale, che sente dentro di sé “tornare qualcuno di cui a malapena mi ricordo, torna Luigi Derigo, lotta con Faccia di Sale”. Non v’è dubbio che il precedente de “Lo strano caso del dottor Jekyll e di M. Hyde” di Stevenson svolge qui un ruolo fondamentale. Gli dirà la zi’ Pachina affacciata alla grata della prigione, da cui Faccia di Sale vuole liberarla: “per cambiare può essere necessario anche morire.” Succede nel romanzo di Stevenson, ma qui v’è un significato ancor più esplicito che trasferisce alla morte nientemeno che la vita. Quel passaggio, ricordate?, che non si era compiuto nella cripta, ora diventa necessario per salvare Luigi Derigo dall’uomo, Faccia di Sale, che è diventato.” In realtà, contrariamente a quanto gli racconta Pachina in un apologo che lo riguarda direttamente (“Poi a quest’uomo capitò una cosa grossa: morì. E arrivò un’altra persona. Faccia di Sale”), Derigo non è mai morto, ed è proprio quella sua condizione dell’essere arrivato ai limiti estremi della vita, senza oltrepassarli, che ha provocato la sua mutazione. Per tornare ad essere quello che era, non c’è che una sola cosa da fare: compiere il cammino interrotto, andare oltre i limiti della vita. Qualsiasi interruzione che si frapponga non è mai imputabile ad un destino già scritto, ma ad un trauma la cui conseguenza è il cambiamento della propria natura. Pare essere, questa, una delle letture nascoste nella storia di Baldini. Infatti, vedrete, non è lui che compirà il percorso, ma un’altra persona resa rassomigliante, e la morte che tutti credono di Faccia di Sale, non è affatto una morte. È, allora, una rinascita? Baldini ci dice che inizia una terza vita, ma è questa la verità? Sappiamo bene che la vita non si inganna, e ancor più non s’inganna la morte.

“Bambine”

Sperling & Kupfer Editori, pagg. 168. Euro8,50

Di essere bella lo sapeva scrive l’autore della prima delle bambine protagoniste che conosciamo, Cristiana, di undici anni, Bella biondina, come l’apostrofano i ragazzini fermi sui loro motorini quando nel tardo pomeriggio, uscita dalla palestra, fa ritorno a casa. Ma una sera, un uomo, che in precedenza l’aveva fotografata e poi era sparito nel nulla, ecco che la rapisce, costringendola ad entrare nella sua auto. Carlo Bertelli, un giornalista di trentacinque anni, separato dalla moglie, un giorno si trova davanti a sé uno strano motofurgone sul quale, fissate ad un tubo che si alzava di mezzo metro a contornare la parte superiore della cabina, c’erano quelle cose. Quei feticci, mi venne da pensare. Bambole e bambolotti di plastica scolorita… Due avvisaglie inquietanti, dunque, mentre scorre sotto i nostri occhi una Ravenna nebbiosa, illuminata di sera sulla riva del mare, dove alcune ragazze stanno ballando al ritmo della musica ossessiva che veniva dal bar. La città di Ravenna, col suo porto dove transitano le nere petroliere, la sua spiaggia, la parte antica con le sue chiese colme di mosaici, dà in questi primi scorci il registro della narrazione, che sta scorrendo sul filo di un sentimento (amore? nostalgia? solitudine? angoscia? paura?) che riesce a circondare la storia e i personaggi di un alone di magia, che sprigiona dalla stessa città e la coinvolge.

Quando scompare una piccola profuga jugoslava di otto anni, Asia Volesic, scopriamo con sorpresa che sono tre le bambine sparite nel nulla. La terza che non abbiamo conosciuto, come invece è accaduto per Cristiana Benzi, è figlia di meridionali e si chiama Vincenza Jacono, pure lei di otto anni come la bambina jugoslava. E scopriamo anche che non ci sono soltanto nella storia queste sventurate ragazzine, ma c’è anche Chiara, una bambina di quattro anni e mezzo, che ha perduto il suo papà, amico di Carlo. Il giornalista le è affezionato, la porta in giro, gioca con lei sulla spiaggia, ma ora è in ansia per la sua vita, poiché si teme ormai che un maniaco omicida si nasconda nella città. Inizia ad occuparsene, perciò. Come giornalista, segue le conferenze stampa del questore; sembra che tutto si stia risolvendo; la città, grazie alle notizie rassicuranti dei giornali, respira di nuovo. Ma accanto a queste pagine di cronaca nera, l’autore ce ne riserva alcune molto intense, dove il contatto dell’uomo con la natura ha un segno che ci conduce lontano dalla malvagità e dalla follia. La passeggiata di Carlo in un’oasi naturale, contigua alla città cattiva e rumorosa, dove si trovano boschi di pini, acquitrini, specie di uccelli protette, e vi s’incontra la rassicurante normalità della natura, fatta di dolci rumori, di silenzi profondi, di movimenti palesi o segreti, è una di queste. L’autore dà al personaggio più di un’occasione per creare il contrasto tra ciò che l’uomo ha deturpato e ciò che avrebbe potuto essere la sua vita, se non si fosse fatto trascinare dal suo egoismo e dalla sua volontà di potenza. Di descrizioni di questo tipo, di questo immergersi dentro la natura per ritrovare, anche se per un attimo, l’armonia perduta, questo noir ne è felicemente colmo. A volte bastano pochi cenni per dare il senso di questo contatto rigenerante: Il vento da Est si rinforzava. Avrebbe sollevato sabbia, scompigliato le chiome dei pini, sarebbe passato sulle fabbriche, sui canali, sul porto, e avrebbe fatto irruzione, carico di odori salmastri e forti, nelle strade della città.

Le donne, quelle adulte s’intende, che compaiono sono più d’una, ma se si eccettua l’incontro di Carlo con la bella Jennifer, turista americana, non hanno rilievo e si dimenticano. Chiara, invece, la bambina rimasta orfana del padre Luca, amico d’infanzia di Carlo, s’insinua con la sua grazia e la sua innocenza anche quando sembra non essere presente, in virtù dell’affetto e del timore che anche a lei accada qualcosa di terribile che pervadono l’animo del protagonista. Succederà, infatti, che anche Chiara, come le tre bambine vittime del maniaco, sarà fotografata. Ci saranno sviluppi e si arriverà, ovviamente, a identificare l’assassino, in un modo tuttavia singolare.

Un narratore delicato e sensibile, Baldini, che ci regala suggestive pagine ispirate da un amore intenso e malinconico per la sua terra, anche se qualche volta il sentimento va un po’ fuori misura, come ad esempio, mi pare, nel colloquio, quasi al termine del racconto, tra Carlo e Silvia, ma il capitolo successivo, il 16, l’ultimo, è stupendo e riscatta e fa dimenticare quella piccola, davvero insignificante, debolezza. Un bel libro. Qualcosa di più di un noir.

Mi piace concludere con quest’ultima annotazione: altra protagonista, silenziosa e consolatrice, è la birra, se ne beve in quantità ed è la bevanda preferita dai personaggi di questa storia.

“Gotico rurale”

Frassinelli, pagg. 182. Euro 12,65

Una fossa comune, rinvenuta durante certi scavi di sbancamento, contiene le ossa di circa duecento bambini “tra i sette e i tredici anni”, datate in epoca medioevale. Eppure nel paese “nel dodicesimo o tredicesimo secolo, dovevano esserci state la chiesa e al massimo una ventina di case, oltre ad alcune fattorie sparse nei dintorni”. Si apre con questa scena orribile e misteriosa la serie di dodici racconti che compongono questo libro, che ha collocato il suo autore tra i più interessanti interpreti italiani del genere noir.

Quando il professor Gianni Vincenzi comincia ad indagare, consultando archivi e biblioteche, noi vediamo materializzarsi a poco a poco una specie di esodo, di pellegrinaggio, di fuga verso il mare di una turba di bambini che mantengono nel corso della narrazione la leggerezza dei trapassati, degli ectoplasmi condannati a vivere e a ripetere la storia che li ha condotti alla morte. Poi si capirà che si tratta della riesumazione di un fatto di cui alcune fonti ci hanno lasciato traccia, e in particolare il grande storico delle crociate Sir Steven Runciman nel suo “Storia delle crociate” (volume secondo, pag. 806 e seguenti – Einaudi 1970).

È solo il primo racconto, questo, e serve ad introdurci nel mondo di Baldini, che riesce a suscitare in noi adulti le emozioni e le suggestioni delle storie che udivamo da piccoli, quando qualcuno, la sera, davanti al fuoco in inverno, ci conduceva per mano dentro il buio tetro del mistero e della paura.

E quello strano piacere che proviene dall’ignoto subito si addensa intorno a noi e ci avvolge per non lasciarci più sin dal secondo racconto: “A lume di candela”, uno dei più belli insieme a “Chi vive nell’olmo grande?” e “Nella nebbia”, che mi ha fatto ritornare a quegli anni; li ha scavati dentro gli angoli nascosti e dimenticati della mia mente e ho rivisto il volto della donna, Ida si chiamava, che raccontava, a me e ai miei fratelli, seduti nella nostra piccola cucina, quelle storie ataviche, sempre esistite e narrate: il fuoco acceso, lei salita su da noi dall’abitazione sottostante, con la testa piena di fantasie.

Il buio della notte, il bosco, la vigilia di Natale, la neve, il freddo, la nebbia, la pioggia, la siccità, la superstizione, misteriose luci che si accendono nella sera, il cavo di un olmo grande dove si racconta dimorino le streghe sono gli ingredienti principali delle storie di questo sensibile e delicato scrittore, ambientate nel mondo contadino, tutte ben cadenzate e amalgamate, e che emanano il profumo e la bellezza della poesia (Baldini è tra i pochi narratori di oggi che sanno fare a meno della parolaccia e della volgarità), e nelle quali la forza possente e ammaliatrice della natura – con la quale l’autore ha senza alcun dubbio una speciale e privilegiata intesa – si avverte come dominatrice e regolatrice dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo. Ma il sale che dà loro la vita è la capacità di Baldini di farsi cantore raffinato, interprete colto, di questa realtà misteriosa. Egli è percorso nel corpo e nella mente come da un sentimento che lo fa fremere e lo illumina e noi, attraverso quella luce, vediamo emergere paure e fantasmi senza tempo: l’esercito dei bambini partiti per le crociate, Beppe Cattivo, il Segnài, la Borda, il Gorgo nero, Nonna Clara sono solo degli esempi. Scopriamo che il tempo, e quelle cose e quelle ombre raccontate non sono mai morte, e stanno intorno a noi per svelarci che, contro ogni apparenza, nulla si muove o si trasforma. Non c’è passato, né presente, né futuro, ma tutto è così sin dal principio.

Come queste storie, che paiono venire chi sa da quale punto lontano, cariche di voci e di bisbigli sempre esistiti, che si vanno ripetendo da secoli.

“Mal’aria”

Frassinelli, pagg. 146. Euro 10,33

Carlo Rambelli è un ispettore medico della Sanità, che lavora a Roma. Un sabato pomeriggio, mentre sta pensando con la moglie Anna a come trascorrere il fine settimana, viene fatto chiamare dal suo superiore, che ha rilevato, in un rapporto che riguarda la città di Ravenna, una percentuale elevata di decessi per “febbri”, di cui sono vittime soprattutto i bambini: “Quindici bambini in un mese!” Pare assodato che le morti dipendano da una imprevista recrudescenza della malaria nella zona di Spinaro, una paesetto – di fantasia – sperduto tra le paludi al confine con Ferrara, dove neanche arriva la ferrovia. Rambelli viene perciò inviato con urgenza a verificare se le autorità locali, dalle quali non si è riusciti a cavare un ragno dal buco, abbiano applicato le “disposizioni profilattiche previste dalla legge.” La questione sta molto a cuore al Duce (siamo nel 1925) e pertanto viene munito di tutti i poteri di polizia.

Scrittura limpida ancora una volta, quella di Baldini, che si arricchisce di sensazioni a fior di pelle assorbite da uno stile che ci lascia sospesi dentro un paesaggio che è colori, emozioni, avvenimenti. Carlo deve parlare col medico condotto, ma quando arriva, questi si è da poco suicidato, dopo che, una decina di giorni prima, era morto, rompendosi l’osso del collo per una caduta, pure il medico provinciale. Eccoci spinti nel mistero, dunque, quando già siamo stati avvertiti da un capitolo che pare estemporaneo, che c’è un ragazzetto, Giuseppe, che vede e parla coi morti, e a cui appare un misterioso bambino. Poi incontriamo l’Ubalda, una vecchia fattucchiera che cura malattie e leva il malocchio con pozioni e unguenti antichi, e fa la sua apparizione la Borda, un personaggio che esce dalla leggenda di quelle popolazioni perse tra le nebbie e le paludi: “il grigio fantasma delle paludi, aveva soffiato a pieni polmoni sulla gente il suo alito marcio di febbre e di malattia.” L’ispezione di Carlo Rambelli è con questo mondo legato alla superstizione che deve fare i conti, rafforzato da un ambiente naturale che rende gli uomini non protagonisti ma propaggini del mistero: “Strana gente, strano mondo. Fatto d’acqua, di uccelli e di silenzi.”

“Appeso al suo collo, legato con un cordoncino, un ramarro vivo si contorceva e agitava le zampe.” È così che le credenze popolari di quelle terre malsane pensano di diminuire la febbre malarica.

Elsa è una ragazza bella, corteggiata dallo squadrista del posto: Oreste Bellenghi. Quando conosce Carlo, in lei si dissolve il torpore di quella nebbia che “cancellava tutto: forme colori, contorni.” Intuisce una realtà diversa che sta fuori da quelle terre, e dove si può essere liberi e felici. Carlo assume ai suoi occhi le fascinazioni di un mito: “con la sua macchina arriva qui, io salgo, […] e via, via di qui, via da questo buco di culo del mondo. Via. A Roma.” Ma prima si devono fare i conti con la forza misteriosa che tutto trattiene dentro credenze e regole antiche. È quella energia occulta che trova nella bestialità presente nell’uomo il suo alimento primario, la ragione del suo perpetuarsi, e forse anche le radici della sua immortalità. Non è facile, vedrete, fuggirne.

La congiunzione di tre momenti vissuti dal vecchio dottore Ridolfi, da Elsa e da quello strano ragazzino, Giuseppe, che parla coi morti, darà a Carlo Rambelli la soluzione di quella strana epidemia, che aveva causato la sua ispezione. Ma una soluzione che sarà tutta imbrigliata e inorridita dagli artigli della Borda, il terribile fantasma che si nutre di morte.

La superstizione, perciò, non meno che la nebbia che tutto avvolge e nasconde, torna a proporsi nel finale quale protagonista imponente, che rende gli uomini e le cose arcani strumenti dell’irreale e dell’assurdo.


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Bart