Il fiume dell’infanzia (Mark Twain)

di Manlio Cancogni
[dal “Corriere della sera”, giovedì 29 maggio 1969]

Holiday’s Hill, il monte Car ­diff di Tom Sawyer è una col ­linetta spelacchiata che si sol ­leva di poche diecine di metri dai tetti delle case di Hannibal che oggi gli arrivano ai piedi. Tom lo guardava con desiderio attraverso la finestra aperta della scuola. Gli appariva ver ­de, gonfio, felicemente pigro nel sole. Twain è sempre pri ­maverile, sembra che i suoi racconti si svolgano sempre in un maggio pieno che volge ver ­so l’estate. E’ verde, frondoso; talvolta scosso da acquazzoni, temporali (ne scoppiano di tre ­mendi su tutto il Mississippi) mai grigio, mai spoglio, mai invernale (eppure in gennaio ad Hannibal fa tanto freddo che il fiume gela). E’ anche notturno, con i terrori che ac ­compagnano il buio, fruscìi, ululati, stridii; ma si tratta sempre di notti estive che in ­vitano a star fuori, a goder l’aria.

Sulle pendici del Cardiff s’in ­contrano due case memorabili nella topografia poetica di Twain, quella « dove ci si sen ­te », dove i due ragazzi vanno a cercare il tesoro, e quella della vedova Douglas, la signo ­ra di Hannibal che alla fine del romanzo diventerà la be ­nefattrice di Huck. La « casa dove ci si sente » è quasi in cima al colle. Una catapecchia cadente, con pezzi di legno e di lamiera che pendono dal tetto sfondato. E’ probabile che col vento si riempia di cigolìi, gemiti, sospiri, colpi. Non c’era villaggio americano, all’epoca di Twain, senza la sua haunted house, terrore di tutti i ragazzi, fonte di infinite storie spaven ­tose. Tutto il Middlewest, oggi così pratico, così pieno di buon senso, viveva immerso nelle leggende, nelle superstizioni, in credenze assurde di varia provenienza indiana, negra, anglosassone.

La vedova Douglas nella realtà era una donna per niente ricca ma coraggiosa e decisa, oggi la casa è a un tiro di sas ­so dall’abitato; allora doveva apparire piuttosto distante e solitaria. La vedova ci abitava con una figlia. Un giovanotto, emigrato dalla California, un ubriacone, una sera si mise a schiamazzare in paese, minac ­ciandola, giurando che sarebbe salito da lei per picchiarla. Poi, continuando a inveire e a gri ­dare oscenità, si diresse verso la collina.

« Salii lassù con un compa ­gno â— racconta Twain nell’Autobiografia â— per vedere e ascoltare. La figura dell’uomo era appena visibile; le donne erano sulla veranda, non si di ­stinguevano nell’ombra profon ­da della tettoia, ma noi udim ­mo la voce della vedova. Ave ­va caricato a pallettoni un vec ­chio fucile e avvertiva l’uomo che se restava lì gli sarebbe costata la vita; dopoché aveva contato fino a dieci. Cominciò a contare, lentamente; l’altro rise. A ” sei ” non rideva più. Nel profondo silenzio, con voce ferma, seguì il resto del conto: ” sette… otto… nove… “, una lunga pausa â— noi tratteneva ­mo il respiro â— ” …dieci “. Un rosso spruzzo di fuoco sgorgò nella notte e l’uomo cadde col petto crivellato. Poi scrosciò la pioggia e si scatenarono i tuoni e il paese in attesa sciamò su per la collina, nel bagliore dei lampi, come un’invasione di formiche ».

L’abitazione della vedova su Holiday’s Hill era conosciuta ad Hannibal come la « casa del gallese ». Nessuno sapeva il per ­ché di quella denominazione; forse, tempo prima, vi aveva abitato un emigrante venuto dal Galles. La fantasia del pic ­colo Sam Langhome era affa ­scinata da quel nome dietro cui si intuivano tante possibili sto ­rie. E in Tom Sawyer, Twain dà corpo alle sue fantasie di ragazzo, chiamando Cardiff (con riferimento al Galles) la colli ­na, e facendo emergere dal buio il vecchio gallese con i suoi due figli, tutti e tre armati di fucile, per mettere in fuga l’in- diano Joe che, nel romanzo, ha preso il posto del californiano.

L’indiano nella realtà era un meticcio, spesso ubriaco, che nel paese faceva i più umili la ­vori, senza casa né famiglia. Chissà perché Twain ne ha fatto il malvagio per eccellen ­za. Forse, da bambino, era af ­fascinato e atterrito dal suo aspetto così diverso (i negri, invece, erano familiari) dall’ac ­cento esotico (parlava spagno ­lo, come il californiano).

Le grotte dell’indiano Joe si aprono in un valloncello om ­broso che scende verticale al Mississippi, qualche chilometro a sud della città. Sono dei lun ­ghi, stretti, tortuosi corridoi, scavati in una roccia di colore giallastro, che si intersecano componendo una rete intrica ­ta. Non vi sono grandi stalat ­titi, come racconta Twain in Tom Sawyer, e il loro interes ­se, a parte alcune figure (« la tavola », « l’alligatore », « la ca ­scata ») consisteva soprattutto nel buio e nel pericolo di smarrirvisi. Ci si smarrì Joe che per sopravvivere fu costretto a mangiare i pipistrelli che riu ­sciva a catturare (più tardi il meticcio raccontò la sua av ­ventura al piccolo Sam, e Twain lo ricompenserà, nel ro ­manzo, facendolo morire di fa ­me nelle grotte) e per una set ­timana vi si smarrì anche « il generale » Gaines, il re dei beoni di Hannibal prima che Jimmy Finn gli togliesse la corona. Si salvò sporgendo un fazzoletto attraverso una fes ­sura in cima a una collina vi ­cino a Saverton, parecchie mi ­glia a sud della bocca delle grotte. Qualcuno lo vide e lo tirò fuori. « Niente di eccezio ­nale â— scrive Twain nell’Auto ­biografìa â— salvo il fazzolet ­to. Conoscevo Gaines da anni e non ne possedeva. Ma pote ­va essere stato il naso: quello sì che avrebbe attirato l’atten ­zione ».

In Tom Sawyer, Twain uti ­lizzò anche le avventure del « generale ». Quando Tom e Becky si smarriscono nelle grotte, vicini a morire di ine ­dia (nel luogo dove sedettero per aspettare la fine sono « con ­servati » gli ultimi solfanelli e l’ultimo mozzicone di candela accesi prima di precipitare nel buio) scorgono un lontano baluginio. E’ il Mississippi, inve ­stito dal sole, che attraverso quel provvidenziale spacco man ­da ai due ragazzi il suo ami ­chevole saluto.

In Tom Sawyer il Mississip ­pi sta nello sfondo, come una presenza pacifica e confortan ­te, ma sempre lontano. Dell’in ­tensa, avventurosa vita che lo percorreva giorno e notte, co ­me le flottiglie di barconi, di zattere che ne scendevano la corrente lasciando sospesa nel ­l’aria fra le due rive, una scia di voci, grida, nomi, risa, pa ­rolacce, c’è appena traccia.

Il Mississippi comincia ad av ­vicinarsi quando Tom, Huck e Joe Harper lo attraversano per raggiungere l’isola Jackson e nascondervisi. Nel romanzo l’i ­sola è un mondo vario e com ­plesso, con una vita propria ricco di vegetazione e di ani ­mali, il mondo sognato da un ragazzo che lo guarda da lon ­tano. Nella realtà è una stri ­scia di sabbia boscosa che du ­rante le piene va interamente sottacqua. I tre ragazzi ne pren ­dono possesso una notte, ma nonostante l’arditezza dell’im ­presa restano attaccati con gli occhi e col cuore al villaggio natale, alle sue luci tremolanti nel buio.

In Tom Sawyer, il Mississip ­pi non ha ancora forza suffi ­ciente per irrompere nel san ­gue del ragazzo spingendolo verso la grande avventura del ­la vita. Ma all’infanzia succe ­de l’adolescenza. Passano sot ­to gli occhi invidiosi le chiatte, i barconi, le zattere, i vapori. E’ venuto il giorno in cui ogni adolescente delle rive sogna di diventare pilota. E’ rivivendo questa età della vita che Twain scriverà la sua stupenda favola della fuga sul fiume: Huckleberry Finn.

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