di Arturo Lanocita
[dal “Corriere della Sera”; giovedì 26 giugno 1969]
Se c’è ancora, batta un colpo; diciamo Ersilia Lu carelli. Ci piacerebbe che rac contasse come, ai primissimi del secolo, le riuscì di scon figgere, in un concorso di bel lezza, a Napoli, l’elezione della « regina del mare », la signorina Elena Vitiello. Etto litri di inchiostro si consuma rono, negli anni successivi, per testimoniare del primato, italiano o addirittura eu ropeo, della bellezza della si gnorina battuta da quella Er silia Lucarelli che da allora è scomparsa; mentre, ses sant’anni dopo, di Elena Vi tiello si parla tuttora, sebbe ne prevalga l’uso di menzio narla come Francesca Ber tini.
La Bertini. Fosse lecito in serire nelle note biografiche su una diva i ricordi perso nali di un cronista, ci richiameremmo a una quindicina di anni fa, quando, a Barcello na, in un albergo del paseo de Gracia, ci avvenne di in contrarla. Da molto tempo mancava dall’Italia, forse dal la fine della guerra; di sua volontà, viveva in Spagna co me esiliata, e il suo lavoro non era più il cinema, ma il teatro. Appariva, di tanto in tanto, nel programma di uno spettacolo drammatico. Era ancora sottile e slanciata, la figura orgogliosamente eretta, il volto prodigiosamente sen za rughe; in contraddizio ne con l’anagrafe, conserva va una quantità rilevante di fascino. Ci parlò del suo pas sato e del suo avvenire, ma tacque del presente. Fece ca pire che, se il cinema italiano avesse avuto bisogno di lei, avrebbe risposto di sì a una eventuale chiamata. La no stra corrispondenza sul Cor riere, che riferiva quel col loquio, contribuì al rinato in teresse dei produttori; la chiamata venne, e poco più tardi cessò il suo esilio.
Il ricordo di quell’incon tro e degli altri che seguiro no in Italia è riproposto alla memoria, ora che si pubbli ca un volume di Pietro Bian chi, La Bertini e le dive del cinema muto (ed. Utet, pp. 303, L. 4000) che a lei dedica i primi capitoli. Come ogni altro biografo della Bertini, Bianchi è stato costretto a lavorare sulle sabbie mobili del generico e del contraddit torio; nulla, ad esempio, ri sulta positivamente accertato sulla nascita e sugli anni giovanili della diva; ella stessa ha consentito agli storici del divismo, mancando le notizie, di fare ricorso alle supposi zioni, ciascuno le sue. Dove e quando nacque, chi furono i genitori, quali furono i pri mi passi è narrato nelle sto rie del cinema in tanti modi, che escludono le coincidenze ma non escludono l’arbitrio e avvolgono ogni cosa nelle cortine fumogene volute dal l’interessata, giacché anche il mistero determina fascino.
Come Elena Vitiello, o come Franceschina Favati, esordì, giovinetta, questo pare certo, al teatro Nuovo di Napoli; si appagava di particine di gra cile rilievo, non si può dire che partì a razzo né che ven ne, vide e vinse. Allora era ignota quasi quanto quell’Er silia Lucarelli che si permise d’essere più bella di lei.
Di questa Lucarelli e della disavventura capitata all’at trice nella gara di bellezza, Bianchi preferisce non far menzione; egli accetta, e non è detto che non sia nel giu sto, ogni opinione è valida, l’ipotesi romantica che i sag gi ammaestramenti, di un poeta, Salvatore Di Giacomo, che l’avrebbe scoperta e indirizzata, abbiano molto con tribuito alla carriera trionfa le dì Francesca Bertini. Pro babile anche questo; ma è indubbio che la personalità e il carattere di lei, di estremo spicco, e la fiducia di un produttore, Giuseppe Barat tolo, l’aiutarono più d’ogni altra cosa ad ottenere quel che voleva, e voleva il pri mato assoluto. Lo meritava, del resto; ma lo sapeva troppo. Così, fu lei ad instaurare il sistema, poi adottato da molte attrici del muto, di cancellare dai film l’apporto del regista, imponendo che le riprese si facessero a modo suo. Cominciò relegando in un cantuccio Gustavo Sere na, che dirigeva Assunta Spi na, interpretato da lei; e da allora non ebbe parte in una pellicola che non fosse in teramente sua, dalla prima ideazione al lancio pubblici tario.
Altro che alterigia, altro che tappeti rossi dalla « li mousine » sulla Strada allo studio, altro che milioni, milioni di allora, a compenso delle prestazioni; le dive del muto, non solo la Bertini, controllavano e rifacevano i soggetti, guidavano la regia, accettavano o respingevano gli altri attori, in un despotismo, del resto, non sempre ingiustificato, se era vero, e spesso era vero, che il suc cesso dei film dipendeva dal la loro partecipazione. Pur con l’indulgenza suggerita dalla nostalgia di quegli an ni facili, Pietro Bianchi que ste cose le lascia intuire, narrando della Bertini e delle altre della sua epoca, Lyda Borelli, la Gallone, la Gys, le Jacobini, la Menichelli, la De Liguoro e via così. Bianchi, secondo la sua vocazione, per ripristinare il colore del tem po a cui appartenne il vec chio cinema, richiama fatti e figure della letteratura di al lora, pertinenti ai film o no. Di sicuramente assimilato dalla letteratura nel cinema muto e nel modo di recitare dalle bellissime streghe c’era la suggestione del decadenti smo dannunziano, scuola di isteria e di smanceria per le « signore aggrappate alle ten de », come si diceva a propo sito del fatalismo della Borelli e delle sue epigone.
A parte i capitoli su Pi randello e su Petrolini, che sono i più gustosi del volu me, questa gradevole storia del divismo è tutta affetto e bonarietà. Comprensibile: si riferisce a un ciclo di anni che il tempo, nella nostra memoria, ha cosparso di pol vere d’oro e che corrisponde all’infanzia dei sessantenni d’oggi o, per i giovani, alla parte più stravagante delle età precedenti alla creazione del mondo. A guardarlo da tanto lontano, il divismo del cinema non fu un fenomeno di insania collettiva e, per gli italiani, di provincialismo del tipo balcanico: fu la di vertente sagra delle affasci nanti divoratrici di perle, che sventolavano le braccia, co me oggi Mina, e si conficca vano le unghie, per espri mere il tormento, nel palmo della mano.
Ci si estasiava, allora, per ché a Parigi certe sale di cinema, invece di annunciare un titolo di film, esponevano i cartelli «Stasera Bertini ».
Ma già nasceva, in America, un altro divismo che non si chiudeva nei confini di un solo continente e conferiva lauree in celebrità universa le. Una ragione deve esserci stata se nessuna diva otten ne, oltre Atlantico, venendo dall’Italia, la gloria interna zionale delle ammirazioni fu ribonde, come la ottenne un divo, Rodolfo Valentino. Già le sorelle Gish, nate sugli schermi degli Stati Uniti, in crementavano dovunque la produzione delle lagrime e Mary Pickford, precorrendo le imminenti Grete Garbo, diventava «fidanzata del mondo », quando le silfidi mediterranee, spesso più belle e spesso meno brave, si contor cevano da un tendaggio al l’altro e, irradiando sensuali tà, si appagavano d’essere le amanti del Sud ovest eu ropeo.