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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

De Carlo, Andrea

6 Novembre 2007

Uto
Nel momento
Due di due

“Uto”

Un rapido scambio di lettere tra la madre di Uto Drodemberg, Lidia, e un’amica che vive oltreoceano, Marianne, dà l’avvio alla storia mettendoci a conoscenza dell’antefatto, ossia che il patrigno di Uto si è ucciso, e di questo suicidio il giovane, intelligente, dotato e sensibile, si sente responsabile. Così, Marianne (Marianne Foletti), che vive in una comunità spirituale (questa bella donna instabile di trentanove anni dirà Uto, quando la conoscerà), invita Lidia a mandare Uto presso di loro: Siamo sicuri che se riuscirà a trovare l’equilibrio giusto potrà fare cose meravigliose!

Si ha a che fare con un protagonista scontroso, pieno di sé che, quando arriva nel Connecticut, nel mezzo di una foresta coperta di neve, ed è accolto dalla famiglia Foletti, di entusiasmo e di riconoscenza ne ha poca per non dire nulla. Ha diciannove anni, ed è vestito tutto in nero, di pelle, pure gli scarponi sono quelli da motociclista, alti, pesanti.

Anche la famiglia Foletti è particolare, ha l’entusiasmo e il candore di chi è convinto che le relazioni umane possano basarsi sulla reciprocità del bene. Fanno parte di una comunità di quelle che si sono diffuse un po’ dappertutto, soprattutto negli Stati Uniti, importate dall’India. Si chiama comunità di Peaceville, ed è lì che subito viene condotto il primo giorno, dopo aver appena conosciuto i componenti della famiglia Foletti: Marianne, che nella comunità si è data un nuovo nome, Kaliani; Vittorio, il marito, e i figli: Giuseppe, che Uto ribattezza subito all’americana Jeff-Giuseppe, quattordici anni, figlio di Marianne, e Nina, sedici anni, figlia di Vittorio.

Composta la scena, ci si comincia a muovere. Siamo in un granaio spirituale, c’è molta gente, molti devoti radunati lì per ascoltare le parole di un guru, lo Swami, il capo di quella comunità, che però è assente perché malato; in sua vece viene proiettato un nastro registrato nel quale pronuncia parole di circostanza ritenute piuttosto banali da Uto. È la notte del 31 dicembre e attendono l’inizio dell’anno nuovo. Poche sono le parole che circolano tra loro, ma molti i sorrisi. Quando arriva mezzanotte e si è fatto il brindisi la famiglia Foletti decide di tornarsene a casa, e con loro Uto, ancora di più sardonico nei confronti di quella strana realtà in cui si trova coinvolto. Alla domanda che, più avanti, rivolgerà a Vittorio: Quindi è il paradiso, questo posto? Vittorio risponderà: No. È solo un posto molto sereno, dove c’è gente che cerca di migliorarsi. Che cerca di non stare affondata nella pura materia. Che cerca di riflettere. Di aprirsi. Di scoprire dei valori e di proteggerli.

La scrittura è scorrevole, pulita, mancano per ora quelle accelerazioni che si incontreranno nella prima parte del successivo Nel momento. Oserei tuttavia parlare qui, approfittando del termine che s’incontra anche nel libro, ma ad un altro proposito, di una scrittura orizzontale, ossia che tende a dilatarsi, come se l’occhio dello scrittore, osservato un punto, si allargasse a scoprire, con un movimento lentissimo, che cosa gli sta intorno. Mentre i brani in corsivo, che cominciano tutti con Uto Drodemberg (poi si insinueranno a poco a poco anche nel testo con i caratteri normali), sono i momenti in cui l’occhio si verticalizza e diventa quello di chi osserva: l’autore, ma anche lo stesso protagonista.

Viene rappresentata una situazione di conflitto tra Uto e la famiglia Foletti, non derivata da una diversa cultura intesa proprio come acquisizione personale di conoscenze, ma da una natura intima nata diversa e diversamente predisposta al rapporto con l’esterno.

Pensavo che la famiglia è una specie di associazione a delinquere, dove chiunque può legittimare i suoi peggiori difetti e dare un risalto senza proporzione alle sue qualità limitate.

E questo è lui, così come ce lo descrive il personaggio che osserva in terza persona: C’è una dimensione ascetica nel suo spirito, una forza senza limiti nella sua struttura leggera; potrebbe vivere d’aria, mettere una mano sul fuoco senza farsi male, camminare a piedi nudi nella neve. Potrebbe dimostrare le tesi meno dimostrabili, sostenere qualunque sfida, accettare scommesse a cento contro uno. Non ha niente da difendere, nessuna posizione di rendita da salvare, non c’è margine di rischio che sia troppo alto per lui. È un eroe.

Un eroe nuovo e sconosciuto, mi viene da pensare, perché uomini così non esistono né possono esistere. Dunque chi è davvero Uto Drodemberg? Riusciremo a decifrarlo? Sarà il contatto con l’ingenuità apparentemente indifesa della famiglia Foletti a rivelarlo a se stesso e a noi? Di loro dirà più avanti: l’arroganza umile dei buoni che hanno tutto. E ancora: è impossibile trovare qualcosa che faccia male in questa casa. E poi: Nella famiglia Foletti invece ogni rapporto e gesto e sentimento aveva la sua etichetta giusta, ogni persona sembrava a suo agio nel suo ruolo; mi faceva paura, mi faceva rabbia.

Per ora la narrazione procede lentamente, assai lentamente, disegnando un cammino ancora incerto sul quale si riversano voci labili, mormorii, bisbigli ancora incomprensibili.

Il disvelamento è cominciato, ma ancora è lontano, quasi impercettibile. Uto prova a camminare a piedi scalzi nella neve alta, che gli arriva quasi al ginocchio, ma avverte il freddo gelido che sale lungo le ossa. Si sforza di resistere, allorché sente un botto. È Vittorio che sta spaccando la legna, ma lui ancora non lo sa. Pensa: Mi chiedo se può essere lo scatto di passaggio ad un’altra dimensione, come il botto di un aereo a reazione che oltrepassa la barriera del suono; se per caso ho innescato qualche processo irreversibile; cosa sono diventato, dove sono.

E quando guarda Marianne muoversi nella casa: Gambe nervose, braccia che oscillavano libere ad ogni spostamento del bacino: passione e slancio e capriccio e zelo, forse desideri e bisogni non confessati che dal fondo protetto della sua vita premevano sulla superficie luminosa.

Qualcosa si muove, dunque, ma sono percezioni, insomma, tutte da verificare.

Uto è una specie di Narciso, ha bisogno di essere ammirato, di avere un pubblico per esistere. Si guarda spesso allo specchio, si muove allo specchio, e quando è tra la gente nel Tempio di quella comunità, desidera che quegli sguardi curiosi sulla sua persona non s’interrompano, anzi si accrescano, poiché solo così potrebbe accadere che egli leviti nell’aria per guardare tutto ciò che sta sotto di lui: L’attenzione c’è, anche se non da farmi levitare fino in cima alla cupola.

È anche la storia della ricerca di un contatto tra chi lo vuole rifiutare e chi non ne può fare a meno. Uto resta ammirato delle ingenuità e banalità di cui si è riempita la vita di questa famiglia, dove ogni cosa e ogni emozione sono tenute sotto un rigido controllo, ed egli per poco non ne ride, forte di un superiorità che però è solo scontrosa e narcisistica, come si è detto. Sono tentativi di contatto che provengono soprattutto dalla famiglia Foletti, e ai quali sono dedicati appositi capitoli.

Ma nonostante il suo sarcasmo ostinato, è evidente che qualcosa di questa volontà di comunicare della famiglia comincia a fare breccia. Soprattutto quando il tentativo proviene dall’infaticabile lavoratore Vittorio, si avverte che l’esperienza personale che confida ad Uto ha in sé una tale carica di desolazione e di sconforto che l’aspetto ridicolo in cui lo aveva confinato lo scettico Uto si sfalda, per lasciare il posto ad un uomo che sta viaggiando all’interno di un doloroso sentimento – la ricerca di una esistenza che abbia davvero un senso per lui – che lo ha segnato ormai per sempre. Non avevo costruito niente, non avevo coltivato niente, non avevo dato niente di me alle persone che mi erano vicine. Ero una specie di fantasma, Uto. Quando me ne rendevo conto mi venivano delle crisi di depressione terribili. Terribili. Passavo delle ore a pensare a come ammazzarmi. Se non l’ho fatto è stato solo perché ho incontrato Marianne.

E sarà Marianne, infatti, a dire: Lo so che non sei scettico come vuoi far credere, Uto.

Il gioco, che viene condotto con misurata lentezza dall’autore, si fa sempre più scoperto e indirizzato, e già da ora ci si interroga su cosa potrà accadere a questo protagonista che, dall’alto della sua superbia, in realtà è il più debole. Sarà una pericolosa frantumazione del suo ego? O uno scivolamento morbido verso il mondo sconosciuto e apparentemente fragile in cui si muove la famiglia Foletti? O anche un’implosione della stessa famiglia venuta a contatto con una resistenza imprevista e ben condotta?

Quello che intanto appare certo e che vi è un sadico intento di Uto di scombinare l’ordine costituitosi in quella casa, apparentemente serena. Ciò che gli dà fastidio è quel tutto preordinato, selezionato, confezionato per salvaguardare la loro esistenza da pericoli di ogni sorta provenienti dall’esterno, ma anche da eventuali distorti sviluppi della propria personalità, inquadrata dentro i precisi schemi di quella comunità spirituale. Avrei voluto almeno essere stato coinvolto in qualche genere di divertimento violento, qualche frenesia distruttiva e spettacolare da contrapporre a tutte queste registrazioni accurate.

Lo fa, invece, senza più il condizionale; attacca i componenti ad uno ad uno, in particolare i ragazzi, che non sono poi tanto più piccoli di lui. Soffia loro il dubbio su ciò che stanno facendo, su come sia ridotta al nulla la loro vita, che non ha più slanci, imprevisti, emozioni. E la sua sfida arriva a gesti clamorosi che mettono finalmente in subbuglio l’ordine costituito in quella casa. Marianne, la solida, puntigliosa, serena, efficiente, delicata Marianne, comincia anche lei a vacillare. E Vittorio è indeciso, vorrebbe una lite con lui, e Uto è pronto a dargli questa soddisfazione: Non mi sarebbe neanche dispiaciuto uno scontro aperto, a questo punto; ero pronto a qualunque genere di attacco, timpani e muscoli pronti.

La tensione sembra salire, ma anche Uto non è così solido come sembra: A volte mi saliva dentro la sensazione vaga ma intensa di avere qualche genere di missione da compiere nel mondo; a volte mi sentivo inchiodato a terra dai miei limiti e difetti.

Ma cosa sei tu? Una specie di diavolo tentatore? Sei qui per mettermi alla prova? gli dirà Vittorio un attimo prima di capitolare.

Ma la vittoria su di lui produce su Uto un riflesso ambiguo, che conferma la presenza di una minaccia che già lo lambisce: Cercavo di capire se ero solo un distruttore di equilibri, o un rivelatore di verità, o tutte e due le cose.

Può essere dunque un uomo terribile. Nella casa, in cui era stato mandato per ritrovare l’equilibrio perduto (così avevano ragionato in quella lontana corrispondenza la madre Lidia e Marianne), tutto si sta sfaldando; la verità su ciascuno dei componenti della famiglia Foletti emerge con tutto il furore di una rottura rimandata per troppo tempo, con una rivolta liberatoria contro l’ordine innaturale che si era voluto costruire nell’oasi spirituale di Peaceville.

Ma sarà qualcosa di straordinario che accade verso la conclusione del libro a rivelare che il bene continua il suo percorso e niente lo può fermare a lungo.

Si vedrà, cioè, che le conseguenze di questa esplosione di verità non lasceranno indenne nemmeno il protagonista.

Alla fine della lettura si ha tuttavia la sensazione di una storia fatta di continue analisi, osservazioni, ma tutto sommato oziosa, il cui significato resta in superficie; un po’ faticosa a seguirsi, anche se la struttura è molto nitida e lineare.

“Nel momento”

Strano davvero l’inizio di questo romanzo. Il protagonista, Luca, divorziato, che gestisce un centro di equitazione insieme con la sua donna, Anna, sta cavalcando Duane. Tutto si svolge come al rallentatore, il protagonista capta ogni sensazione che si respira intorno, perfino quella del suo cavallo, che sente fremere sotto di sé. Ad un certo punto, una moto spaventa Duane, che si mette a correre come impazzito, sfuggendo ormai ad ogni possibile controllo. Fa uno scarto improvviso e il cavaliere precipita a terra. Ma quando cerca di rialzarsi, che cosa succede? Che accanto a un dolore acuto alla testa e alle costole e alla spalla e al polso e all’anca sinistri prova una sensazione perfettamente nitida di essere del tutto infelice. Sembrerebbe un’assurdità, ove si pensi alla sofferenza fisica di quel momento, che assorbe gran parte dei nostri pensieri, se non tutta addirittura. Ma questo è il registro scelto dall’autore, che sembra volerci avvisare che stiamo per inoltrarci all’interno di una storia narrata da un punto di osservazione del tutto speciale. Anche l’incontro con la tipa, Alberta, che lo carica sul furgone e non si accorge praticamente del suo stato, ci incuriosisce, e a me ha dato una sensazione di stupore, come se percepissi in quell’istante il succedersi di accadimenti da me considerati fino ad allora impossibili, una specie di rivelazione che mi metteva sul chi va là: vigile e impaurito. Alberta fila dritta verso la sua casa, e non si ferma al centro di equitazione di Luca. Non ha nemmeno domandato dove volesse essere condotto, e quando giunge a casa propria, la prima cosa che incontra è la persona del suo convivente, Riccardo, con il quale litiga perché è intenzionata a mandarlo via. Lui non cede, e allora se ne va lei, e il protagonista è ancora sul furgone e si prende nuovi sbalzi, nuovi rotolamenti sul pianale, che acuiscono la sua sofferenza, ma è come se non ci fosse, non esistesse. La donna sembra non ricordarlo più. Non è un avvio stupefacente? Mi sono domandato che cos’altro avrei dovuto attendermi che provocasse una meraviglia più grande, visto che non poteva consumarsi tutto nel primo capitolo. La caduta da cavallo comincia a produrre i primi effetti. A farne le spese, intanto, è Anna. Mentre lo sta riconducendo dall’ospedale a casa, Luca la osserva con occhi diversi, allo stesso modo che osserva gli oggetti inanimati che gli sfilano ai lati: … e le ultime banche e gli ultimi bar e i prati miracolosamente non costruiti e i parcheggi di roulotte e le esposizioni di piscine prestampate coricate su un fianco e le piccole selve furiose di alberi infestanti venuti dall’oriente e i cartelloni delle pubblicità di mobili con sederi nudi giganti in primo piano e i centri commerciali come avamposti interplanetari di cemento armato e le antiche tombe romane come tane di termiti… eccetera eccetera. L’uso di una e, che definirei aggressiva, che congiunge ed impone una serie ininterrotta di osservazioni e di pensieri, con un’accelerazione tesa a renderli una specie di rapidi fotogrammi senza continuità e nesso tra di loro, costituisce senza alcun dubbio uno strumento comunicativo che non avevo riscontrato, se ben ricordo, di tale intensità nel romanzo forse di maggior successo di questo autore: Arcodamore. Il suo uso (soprattutto nella prima parte) e non uso (nella seconda parte, e in quella finale in particolare) non sono casuali, ma finalizzati quantomeno a rappresentare situazioni e stati d’animo differenti.

Luca scopre, in questo modo improvviso e violento, che tutta la sua vita fino al momento della caduta, e la vita di Anna, senza che se ne rendessero conto, erano entrate in un gioco di puri fatti e pure cose fino a non vedere altro all’orizzonte. Si percepisce una storia di incomunicabilità che emerge in superficie e sta per produrre in uno dei due partner una specie di esplosione rivelatrice: finalmente una cognizione di sé che era sempre rimasta nascosta dietro una maschera: Non capivo come avevo potuto pensare di essere ancora fuori dalle regole del mondo, quando le regole del mondo mi avevano già richiuso l’orizzonte da tutti i lati. È la storia di una ricerca, e più ancora il tentativo di un viaggio a ritroso nel tempo per ritrovare ciò che di pulsante, di vivo era dentro di noi. Sembra una condanna decisa, definitiva ed inappellabile del presente, in favore di un passato in cui si possono selezionare e ricordare soltanto le cose più belle, con le quali tentare una necessaria, impellente e improcrastinabile rinascita. La ragazza del furgone, Alberta, pare essere questo tramite. Ricompare, infatti, e sempre con i suoi modi bruschi, decisi, lo trascina a casa sua, da dove Riccardo finalmente se n’è andato. Quel nuovo contatto con una donna che non si dà pensiero di nulla, e non si preoccupa più di tanto delle cose che le accadono intorno avvia un processo di disvelamento, che si snoda tuttavia nella gradualità e nella insicurezza. Lo stile dell’autore con quei ripetuti “Ho detto”, “Ha detto”, “Dicevo” eccetera, aiuta a produrre una tale sensazione. Anna è un presente che si è consumato prima di finire, Alberta, e poi Maria Chiara, la sorella, sono il nuovo che può riprodurre la felicità che si è perduta, rigenerare un mondo che ci è sparito d’un tratto, ucciso dalla consuetudine e dalla noia. Quando, recatosi a Roma, dove si è trasferita Alberta, telefona alla ex moglie e porta il figlio Paolo – undici anni – in pizzeria, la conversazione tra i due vede un accentuarsi di quei “Ho detto”, “Ha detto”. È una scelta limite, questa dell’autore, giacché il loro abuso rischia di mettere in difficoltà la comprensione del dialogo, a vantaggio di un inutile protagonismo del narratore. E allora ci domandiamo: che cosa cerca di esprimere, oltre all’imporre un suo personale timbro nella scrittura? Insicurezza, in Luca certamente (dirà, appena riconsegnato il figlio: ho camminato lungo il marciapiede in una miscela filante di tristezza e impazienza e sensi di colpa e voglia di cambiare, voglia che tutto restasse com’era), e forse anche nel figlio Paolo, e quel tipo di conversazione intercalata in modo ossessivo mette anche in risalto un rapporto di difficile, se non addirittura impossibile, comunicabilità tra quel padre e quel figlio. Lui ha posato di nuovo la sua fetta di pizza sul tavolo, guardava di lato con l’espressione chiusa a chiave che assumeva ogni volta che ci capitava di litigare. Questo uso quasi maniacale, che non può non colpire il lettore, si scopre che avviene nei momenti chiave della storia di Luca. A Roma, incontra Maria Chiara, la sorella di Alberta. Anche da lei cerca una risposta alla sua crisi esistenziale. Ne è attratto; intorno a loro, rimasti soli dopo che Alberta è stata ricoverata in ospedale, si forma una atmosfera di attesa, di sospensione, dentro la quale s’incastonano brevi dialoghi pieni di “Ho detto”, “Ha detto” eccetera. Ecco, qui si ha la sensazione di un balbettio, di un incespicare in una incertezza che fa fatica a sciogliersi. L’atmosfera che si respira, che va sempre di più addensandosi, tende ad avvicinare i due personaggi, a provocare qualcosa, mentre la loro conversazione, proprio grazie a quell’intercalare, sembra averne timore, e cercare, inconsciamente forse, un prolungamento di quell’attesa. Questo, infatti, è il risultato: Invece siamo stati a guardarci e non guardarci a breve distanza, con gravi difficoltà a trovare una posizione o un’espressione stabile. Sono andato verso la finestra e lei è tornata a sedersi sul divano; sono tornato verso il divano e lei è andata a chiudere il pianoforte. Si trova nel lunghissimo capitolo Sei, molto importante. Devo confessare che l’interesse per questo autore è alimentato proprio da queste chiavi della sua scrittura, che non è mai difficile, ma è costellata di vibrazioni, di piccole isole, dove si trasforma e diventa pura espressione di sé. Ossia, non è più la trama, la storia, a farla da padrona, ma questa articolazione diversa della scrittura, che assume una personalità dirompente. Ho trovato ordinaria la storia contenuta nel libro, niente di particolare rispetto alle tante che sono state scritte con lo stesso risultato. E almeno in un caso viene descritta addirittura una situazione che mi permetto di giudicare molto improbabile, come quando, nel capitolo Sette, il protagonista e Maria Chiara escono di casa mentre fuori si scatena una specie di uragano (badate, non la pioggerellina inglese: ma una specie di uragano), e non portano uno straccio di ombrello con sé, o un qualsiasi riparo. È possibile nella realtà, e nella realtà nostra, in Italia? Ne dubito assai, roba piuttosto da americani, direi, o che succede, loro malgrado, negli sventurati paesi del Terzo, del Quarto e del Quinto mondo, ma qui da noi? Pare piuttosto una leziosità che l’autore si è voluta prendere, sbagliando, tuttavia, come ha sbagliato, secondo me, quando ha voluto scrivere “Ha!” in luogo di “Ah!”. Ce n’era davvero bisogno? Ma la scrittura, no; reclama un’attenzione particolare, la suscita, direi, giacché s’impara presto a sapere che lungo quel tracciato che è la storia narrata, condotto con parole normali, descritto e disegnato con linee ordinarie, incappiamo ogni tanto in qualcuna di queste isole, dove si deve sostare e gustare una scrittura che diviene significato di sé, al di là, cioè, delle stesse parole che in quel momento la identificano. Pare che la ricerca di Luca di una conquista ancora possibile per tornare ad essere l’uomo vivo che era stato, si scontri con la sua difficoltà a comunicare. Ci sono già fallimenti significativi nella sua ancora non lunga vita: con la ex moglie, con Anna, con il lavoro, con Alberta che si trasforma troppo presto in un tramite che lo condurrà alla sorella Maria Chiara, con il figlio, ma non basta, incontra anche personaggi che si sono chiamati fuori dal mondo, come i genitori di Maria Chiara, allo stesso modo che, con il maneggio dei cavalli, aveva cercato di fare lui stesso, fallendo però. La stessa Maria Chiara, un personaggio ben delineato, riuscito, dirà: Ma non c’è da compiacersi tanto di essere strani. È anche un modo di nascondersi. Di fare gli incomprensibili e gli inafferrabili. È un modo di scappare. La storia sta perciò definendosi e colorandosi di fallimenti, di fughe, di paure. Luca per ora ha incontrato solo questo. Intorno a lui ha trovato solo questo. Che cos’altro deve esplorare? Quale sarà, se ci sarà, il momento che ancora deve incontrare per convincersi finalmente che la sua ricerca è finita? Anche Maria Chiara dirà: sono tornata più o meno quella che ero in origine. Ed ecco che il tempo viene frantumato, sezionato, analizzato in ogni sua componente. Tutto rallenta in una moltiplicazione di gesti e di sensazioni, che non sono altro che microcosmi del nostro essere vivi, piccole cellule che sono tanti piccoli mondi, resi finalmente nitidi, evidenti, alla ricerca del momento, di quell’attimo in cui si coglie e si diventa il meglio che siamo stati, rigenerati e ritrovati, senza più indosso il fango e l’usura della quotidianità. Restano ora le ultime pagine per esaurire il nostro interesse sull’esito di questa storia, che si legge piacevolmente, e dà tuttavia una sensazione di profondità che non si riesce a misurare del tutto (c’erano altre forze in gioco, infinitamente profonde rispetto a noi.), come se il nostro occhio fosse impedito da una cortina di nebbia oltre la quale non ci sarà mai consentito di andare. Come se i protagonisti fossero trapassati oltre, dentro quel momento che somiglia ad una eternità.

“Due di due”

Einaudi, pagg. 376. Euro 7,23.

Guido Laremi, quattordici anni, “occhi chiari, capelli biondastri disordinati” compare un giorno nella vita dell’io narrante, ed è subito simpatia, non ancora amicizia. Guido non si confida molto, pare avere dei segreti, ma Mario è affascinato dalla sua personalità, è contento che, capitato nella sua stessa classe, abbia scelto lui come compagno di banco.

È il quarto libro che leggo di questo autore, e devo dire che la sua scrittura è sempre ordinata, lineare, comprensibile. I suoi stati d’animo, e quelli dei personaggi evocati, seppure impalpabili e lievi, si trasmettono con una facilità ed una leggerezza affascinanti. Scrittore di intrattenimento, allora? Non solo, le sue storie sono sempre circondate da un alone di mistero, da un fascino non esplicito, da note che vagano in attesa che qualcuno (il lettore, ad esempio) le trasformi in musica per se stesso e il suo cuore. Non sono mai cerebrali i suoi romanzi, non stuzzicano la mente con più o meno indecifrabili enigmi, non le chiedono di varcare i confini dell’impossibile e dell’ignoto, ma la impegnano quel tanto che occorre perché indichi al lettore la via semplice del cuore. La sua scrittura è morbida, ovattata. Le situazioni non ci giungono mai spinte da un impulso violento, eccessivo, ma sono lentamente annunciate. Anzi questo procedere lento, quasi diaristico, è una caratteristica di questo autore, puntiglioso nello sminuzzare le azioni e perfino i sentimenti; le parole paiono sempre sussurrate anche quando descrivono situazioni forti.

Ho trovato estremamente interessante la nota introduttiva datata “Roma, giugno 1999”. Essa dà conferma alla mia profonda convinzione che l’autore sia più semplicemente lo strumento della sua storia. Essa già esiste, e spinge l’autore a disegnare, sia pure in mezzo a molte incertezze, il suo percorso.

Guido è una ragazzo pieno di mistero, ed anche per questo ammirato ed affascinante. È desiderato dalle ragazze e guardato con sospetto dai ragazzi. Paola Amarigo, la compagna di classe, ritenuta anche per la sua bellezza inavvicinabile, comincia a mostrare segni di cedimento non appena avvicinata da lui. Mario osserva tutto ciò quasi con discrezione, ammirando l’abilità e la seduzione che promanano dal suo amico: “lui corrispondeva a quasi tutto quello che avrei voluto essere”. Sarà Guido, infatti, che lo farà decidere “a rompere il vetro” con Margherita Tardini, di cui Mario si è innamorato. Per entrambi sarà l’iniziazione di una serie di amori tutti vissuti con incredulità e stupore.

Si profila una storia di avventure adolescenziali, covate all’ombra della scuola, che nascono, muoiono, si ripetono, si rinnovano? O una storia che vede alcuni dei giovani personaggi coinvolti nelle ansie e nelle aspettative di cambiamento di una società che non cambia mai?: “mi sembrava di sentire la sofferenza e la rabbia che doveva aver provato a crescere da bambino povero a Milano” dirà Mario dell’amico. E anche: “la sua non era affatto incoscienza, ma una specie di forma autodistruttiva provocata dalla rabbia per il mondo com’era.” Qualcosa di più, invece, di rarefatto e sensibile. Guido, infatti, passa rapidamente da affascinante e misterioso personaggio allo stereotipo insoddisfatto che grida contro i guasti prodotti dalla “civiltà industriale, che aveva brutalizzato lo spazio e distrutto i ritmi e gli equilibri complessi della vita per adattarli a quelli delle macchine”, finché è travolto dalla sua stessa esasperazione, raccontata in pagine che non mancano di disegnare situazioni di disfacimento e inettitudine, ma anche di orgoglio e di coraggio. Guido e Mario si sentono sempre di più attratti dal “contrasto con le cose che dicevamo e facevamo durante il resto del nostro tempo.” Sono proprio le due vite, di Mario e di Guido, a dare il titolo al libro: “Pensavo a quanto le nostre vite erano state diverse in questi anni, e anche simili in fondo, due di due possibili percorsi iniziati dallo stesso bivio.”

Se ne vanno da casa, si mettono in viaggio, un viaggio iniziatico (iniziatico sempre e per tutti: anche quando leggeremo dei viaggi del solo Guido), un po’ alla Kerouac e un po’ alla Hemingway, si potrebbe dire, che dovrebbe corrispondere alle loro attese di avventura e di conoscenza e placare la loro voglia di possedere il mondo, soprattutto da parte di Guido, giacché Mario, almeno in principio, è l’ombra che segue ed asseconda l’amico, il quale lo aiuterà più di una volta, ancora, “a rompere il vetro” e a trovare “un baricentro non suscettibile al minimo ondeggiamento di umori”. “Senza Guido a mettere in luce ogni ruolo e metterlo in relazione con gli altri eravamo come attori senza un regista”. Non sarà per Mario l’unico viaggio, ne seguiranno altri, con nuovi compagni ed esperienze aggiuntive, smarrite in un’imponderabile, tenue percezione del mistero della vita. Dirà Mario: “andavo indietro rispetto alle responsabilità e alle scelte, alle richieste insostenibili della vita.” Ma anche: “Avevo voglia di reagire, occupare una parte di spazio senza più esitazioni, diventare adulto.” Al contrario Guido, ammirato dei risultati conseguiti dall’amico, che ha incontrato per di più una ragazza straordinaria come Martina, dirà: “non ho nessun tipo di equilibrio fisso, non so ancora cosa voglio.” E così riusciamo ad avvertire (“mi sembrava di essere un po’ Guido”) quello scambio di ruoli che può anche esserci nella vita tra due persone che sono talmente legate da un sentimento di amicizia da non accorgersi di essere in qualche modo, infine, la stessa persona: “l’idea che i nostri ruoli si potessero rovesciare mi riempiva di sgomento”. È la storia di questa alternanza e rimescolamento di personalità la chiave di lettura più efficace? Forse. Anzi: sì. Quel bivio di “due di due”, confluisce, dopo un tortuoso percorso (“mi sembra che niente abbia più il minimo significato” dirà Guido), su di un’unica strada che sarà, poi, l’affermazione, sia pure malinconica, di una desiderata, riconosciuta e sofferta conquista. Guido fiuta la bellezza della libertà, la idealizza, ne respira il profumo, vi si smarrisce, però; Mario ci si trova ad un certo punto immerso fino al collo, condotto a costruirsi un suo Eden da una fisicità e praticità verso le cose, che è una delle sue scoperte maggiori. E quel piccolo Eden, rispettoso di ogni dettaglio della natura e della esistenza, diventa un fertile grembo generatore di affascinanti alternative alla vita (“il nostro mondo fuori dal mondo funzionava”). Ed è da lì, si intuisce, che può partire un efficace stimolo al cambiamento. Al contrario, Guido resta per molto tempo l’individuo instancabile e sofferente nella sua ricerca ideale, “senza fine”, il quale fa da specchio, con la sua inquietudine e la sua aggressività, a una realtà diversa, dura da liberare, decifrare e vincere, da cui nemmeno lui riesce a separarsi definitivamente, ricavandone delusione e tristezza, irretito da un'”irrequietezza malsana” e sfuggente: “era cosa fare nella vita che lo preoccupava.”; “mi mordevo le labbra per capire se non ero sparito del tutto.” Una realtà subdola e tentacolare lo avvolge, capace di morire e risorgere e farti suo prigioniero, “vittima del mondo”, avviando un processo di autodistruzione che percepisci in te, ma di cui stenti a prendere consapevolezza prima che sia troppo tardi. Un mondo “anonimo”, appunto, e per questo estremamente presente e pericoloso, non mutabile, inscalfibile, dal quale puoi soltanto, se ci riesci, tenerti lontano. Sensazioni filamentose, queste, ma anche fluide, affievolite e sospese, che già abbiamo provato altrove, in altri autori, non nuove quindi, anche se qui si avverte, grazie a quello stile lento e minuzioso che si diceva in principio, il consumarsi del tempo e delle cose, un sentimento aspro, forte, di decomposizione, desolazione, tristezza e caduta, che resta forse il protagonista più importante e memorabile. Alcune situazioni scontate, come la ribellione studentesca del ’68, oppure quelle che descrivono i più vari e noti espedienti a cui ricorrono i giovani per evitare il servizio militare di leva, oppure la scrittura di un libro in cui riversare la propria rabbia, il desiderio di costituire una federazione anarchica contrapposta allo Stato (tutte situazioni un po’ rimasticate), costituiscono, tuttavia, un po’ il limite di questa storia, che resta una bella storia, s’intende, ben raccontata, anche se si ha la sensazione che i personaggi non siano sempre stati messi in condizione di giocare fino in fondo le loro carte, e che avrebbero potuto diventare qualcosa di più. Uscire dal romanzo, insomma, ed entrare nella nostra vita.


Letto 3032 volte.


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Bart