ARTE: I MAESTRI: Il Dada di Colonia: Max Ernst e Johannes Baargeld #2/3
17 Marzo 2008
 [da: “Hans Richter: “Dada – Arte e antiarte”, Mazzotta, 1966]
Come Schwitters era stato una prerogativa esclusiva di Hannover, dove ancor oggi si mostra il giardino di Hindenburg ma non esiste ancora uno Schwitters di bronzo, né una via dedicata a lui, né una piazza Schwitters, né una lapide commemorativa…, altrettanto unico fu a Colo Ânia Max Ernst.
Nel 1918, a Zurigo, circa al tempo in cui Tzara mi fece vedere le prime fotografie di Schwitters, avevo visto da lui anche la prima foto di un quadro (o era un collage?) di Max Ernst. Anche egli mi era sconosciuto a quel tempo.
Se in Schwitters senza dubbio l’intuizione predominava, in Max Ernst questa si univa in perfetto equilibrio con un intelletto altamente evoluto. Su questo punto egli si differenzia sostanzialmente da Schwitters, il quale era sì molto intelligente, ma non era affatto una mente speculativa. La formazione di Max Ernst, la sua conoscenza filosofica, sono pene Âtrate di acume intellettivo assolutamente incurante di giungere a dei risultati. Dove Schwitters sentiva, Ernst pensa e là dove Schwitters ri Âmase essenzialmente un ignorante, troviamo in Ernst un’eccellente pre Âparazione umanistica.
Egli stesso racconta così la storia della sua vita: « II 2 Aprile 1891, alle ore 9,45, Max Ernst ebbe il suo primo contatto con il mondo sensibile allorché sgusciò fuori dall’uovo che sua madre aveva deposto in un nido d’aquila e che il rapace aveva covato per sette anni. Questo avveniva a Bröhl, sei miglia a Sud di Colonia. Qui Max crebbe e divenne un bel fanciullo. Nella sua gioventù si verificarono degli episodi drammatici, tuttavia questa nel complesso non è da considerarsi infelice. Un tempo Colonia era una colonia romana, Colonia Claudia Agrippinensis e più tardi il più importante centro della cultura medioevale. Tuttora vi alita lo spirito di Cornelio Agrippa, magnifico mago, che nac Âque qui e di Alberto Magno, che visse e morì in questa città . Le ossa di tre altri maghi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, i saggi che vennero d’oriente, riposano nel duomo di Colonia. Ogni anno, il 6 gennaio, vien mostrato ai fedeli il loro scrigno d’oro ornato di gioielli. Undicimila vergini a Colonia preferirono sacrificare la ! oro vita piuttosto che la loro purezza. Le loro delicate reliquie ornano le pareti della chiesa del convento di Bròhl, da dove è cosa probabile che esse abbiano portato talvolta il loro aiuto a Max, giacché questi dovette trascorrere lunghe ore della sua giovinezza in questa chiesa.
Colonia si trova proprio sul limitare di una regione ricca di vigneti. A Nord di Colonia si trova la regione della birra e a Sud quella del vino. Siamo quello che beviamo? Se è così è allora abbastanza significativo il fatto che Max Ernst dette sempre la preferenza al vino. Quando aveva due anni svuotava di nascosto il fondo di alcuni bicchieri poi prendeva suo padre per mano e indicando gli alberi del giardino diceva: « Guarda babbo, si girano! ». Più tardi, riflettendo sulla guerra dei trent’anni, aveva l’impressione che si fosse trattato di una (guerra tra bevitori di birra e bevitori di vino. Forse, chissà , aveva ragione.
La posizione geografica, politica e climatica di Colonia è forse adatta a generare conflitti stimolanti nell’animo sensibile di un fanciullo. Qui si incrociano le più importanti direttrici cu (turali europee: primitivi in Âflussi mediterranei, razionalismo occidentale, tendenza orientale al Âl’occultismo, mitologia nordica, imperativo categorico prussiano, gli ideali della rivoluzione francese e altre cose ancora. Tutte queste ten Âdenze contrastanti sono riconoscibili nel decorso de! dramma violento che si svolge nell’opera di Ernst… Forse che un giorno sorgeranno da questo dramma gli elementi per una nuova mitologia? II primo contatto del piccolo Max con la pittura, avvenne nell’anno 1894 quando il bimbo osservava il padre mentre questi dipingeva un ac Âquarello, intitolato Solitudine.
Vi era rappresentato un monaco, seduto in un bosco di faggi, che legge un libro. Un’atmosfera di calma agghiacciante regnava in questa soli Âtudine e nella maniera in cui essa era rip rodotta. Ognuna delle innumerevoli foglie di faggio era dipinta scrupolosamente, minuziosamente, ciascuna di loro aveva una sua propria vita individuale. Il monaco era così terribilmente incatenato dal contenuto del suo libro, che sembrava vivesse al di fuori del mondo. Persine il suono della parola « monaco » faceva trasalire di una forza misteriosa l’animo del fanciullo, (la stessa cosa gli accadeva a quel tempo quando udiva le parole Struwwelpeter o Rumpelstilzchen). Max non dimenticò mai il rapimento misto di gioia e di timore che lo prese allorché, alcuni giorni dopo, suo padre lo condusse nel bosco. Possiamo ritrovare l’eco di queste sensazioni in alcune delle « Immagini di bosco e di giungla » di Max Ernst (dal 1925 al 1942).
1869: II piccolo Max eseguì una serie di disegni, del babbo, della mamma, della sorella Maria, maggiore di lui di un anno, di sé stesso, di due sorelle minori, Emmi e Luise, di un amico di nome Fritz e del guarda Âbarriere. A eccezione di Luise, che aveva solo sei mesi e che era troppo piccola per tenersi eretta, gli altri stavano tutti in piedi. Sullo sfondo un treno che mandava un gran fumo. Quando qualcuno gli chiedeva cosa volesse diventare, Max immancabilmente rispondeva: « Un guar Âdabarriere ». E’ probabile che egli fosse sotto l’influsso di quella no Âstalgia di luoghi lontani che vien risvegliata dall’immagine di treni che corron via davanti ai nostri occhi e che fosse anche colpito dai fili misteriosi del telegrafo che, guardandoli da un treno in corsa, sembra Âno muoversi e che stanno invece fermi quando si sta fermi. Per pe Ânetrare questo mistero dei fili del telegrafo e per sottrarsi una buona volta alla severità del padre, Max a cinque anni, fuggì dalla casa paterna. Occhi azzurri, riccioli biondi e una carnicina da notte rossiccia, con una frusta nella mano sinistra, vagò per la strada finché s’imbattè in una processione. Affascinati dal bel fanciullo e credendo fosse lo spirito di un angelo e lo stesso bambino Gesù, alcune voci di fanciulli in proces Âsione gridarono: « Guardate, il Bambino Gesù! » Dopo poche centinaia di metri però il Bambin Gesù se la svignò, volgendo i suoi passi verso la stazione e fece una meravigliosa passeggiata, affascinante per lui, lungo il terrapieno della ferrovia e i pali del telegrafo. Per sfuggire all’ira paterna, quando un poliziotto lo ricondusse a casa, Max, coraggiosamente, affermò di essere andato per le vie del Bam Âbino Gesù. Questa cosa ispirò a sua volta il padre a prendere il figlio come modello per un quadro del Bambino Gesù. Lo dipinse con gli occhi azzurri e i riccioli biondi, vestito di una camicia da notte rossiccia e nel Âla mano sinistra, al posto della frusta una croce, nell’atto di benedire il mondo.
Il piccolo Max, profondamente lusingato da questo quadro, non poteva liberarsi dall’idea che il pittore si compiacesse di far la parte del Dio Padre, e è cosa probabile che il quadro Souvenir de Dieu (1923), con Âservi ancora un ricordo di questo avvenimento.
1897: primo contatto con il non-essere quando sua sorella Maria dette a lui e ai suoi fratelli un bacio d’addio e poche ore più tardi si spense. Da questo momento il sentimento del nulla e delle forze distruggitrici dominò nel suo animo, nel suo atteggiamento, e, più tardi, nella sua opera.
1897: primo contatto con le allucinazioni. Il morbillo! Paura della morte e delle forze distruggitrici! Un delirio originato dal rivestimento della parete, di fronte al suo letto, che imitava il mogano. Il disegno del legno assumeva l’aspetto ora di un occhio, ora di un naso, di una testa d’uc Âcello, di un « usignolo minaccioso », di una trottola in movimento ecc… Certamente al piccolo Max piaceva di venire tormentato da queste visioni.
Anche più tardi si procurò di sua volontà allucinazioni simili fissando spesso lo sguardo su pannelli di legno, nuvole, carte da parati e pareti grezze per lasciar correre liberamente la sua fantasia. Se qualcuno gli chiedeva: « Qual’è il tuo passatempo preferito? » egli rispondeva sem Âpre: « Vedere! ». Disturbi simili indussero più tardi Max Ernst a pene Âtrare sempre più a fondo in queste visioni, scoprendovi così delle pos Âsibilità per la tecnica del disegno e della pittura legate al verificarsi dell’ispirazione e della rivelazione (come il frottage, i! collage, la decalco Âmania, ecc…). Probabilmente il quadro Due bambini minacciati da un usignolo, del 1924 è in rapporto con il delirio del 1897. Nel 1898 secondo contatto con la pittura. Vide suo padre dipingere in giardino un quadro dal vero e poi terminarlo nell’atelier. Nel quadro il padre soppresse un ramo che non armonizzava con la sua « composi Âzione ». In seguito fece eliminare il ramo anche in giardino affinché non ci fossero differenze tra la natura e il suo quadro. Il fanciullo sentì ger Âmogliare nel suo intimo un’avversione per un realismo tanto ingenuo, che lo fece decidere di dare tutto sé stesso in favore di una più giusta concezione dei rapporti tra il mondo soggettivo e quello oggettivo.
Nel 1906 primo contatto con le forze occulte, magiche e evocatrici. Uno dei suoi amici migliori, un pappagallo molto intelligente e molto affe Âzionato, morì nella notte del 5 gennaio. Fu un colpo terribile per Max allorché, al mattino, trovò l’uccello morto e nello stesso momento suo padre gli annunciò la nascita di sua sorella Ioni. Il turbamento del gio Âvane fu così forte che svenne. Nella sua fantasia egli collegava i due avvenimenti attribuendo alla neonata la colpa della morte dell’uccello. Seguì una serie di crisi spirituali e di depressioni. Prese radici nel suo animo una pericolosa confusione tra uccelli e esseri umani che, più tardi, trovò espressione nei suoi disegni e dipinti. Questa idea non lo abbandonò mai finché, nel 1927, eresse Il monumento a un uccello: più tardi si identificò persine con « Loplop l’uccello supremo ». Questo fan Âtasma rimase inseparabile da quell’altro chiamato Turbamento di mia sorella, la donna dalle cento teste.
1906-1914: viaggi nel mondo delle meraviglie, delle chimere, dei fanta Âsmi dei poeti, dei mostri, dei filosofi, degli uccelli, delle donne, dei paz Âzi, dei maghi, degli alberi, dei sensi erotici, delle pietre, degli insetti, delle montagne, dei veleni, della matematica, ecc. Un libro, che scrisse in quel periodo non venne mai pubblicato: suo padre lo trovò e gli dette .fuoco. Era intitolato: Pagine di diario diverse.
1914: Max Ernst moriva il 1 agosto 1914 per tornare in vita l’11 novem Âbre 1918 nei panni di un giovane uomo che voleva diventare un mago e scoprire il mito della sua epoca. Ripetutamente egli interrogava l’aquila che aveva covato l’uovo della sua esistenza prenatale. I consigli del Âl’uccello si posson ritrovare nella sua opera ». Così scrive Max Ernst di sé medesimo:
Max Ernst, dal volto aquilino, al quale il ginnasio non aveva potuto nascondere né svelare alcun segreto, aprì al Dada nuove porte che davano accesso a mondi pieni di mistero, pauroso. La sua intelli Âgenza eccezionalmente acuta, alla quale corrispondeva l’acutezza del tratto, si esprimeva in collages fuori del comune, esotici. La novità di questi collages non risiedeva nella tecnica, che gli veniva contestata da Hausmann e da Heartfield. La novità era data da una componente letteraria e intellettuale. Non si trattava soltanto di imma Âgini, bensì anche di racconti di contenuto veramente pericoloso. Qual Âcosa di minaccioso compare o fa capolino sempre da dietro questo uni Âverso che Ernst manipolava dandogli un aspetto umano.
« Mi ricordo bene di quando Tzara, Aragon, Soupault e io scoprimmo per la prima volta i collages di Max Ernst » scrive André Breton: «Ci trovavamo appunto tutti in casa di Picabia quando i collages arrivarono da Colonia (nel 1921). Ci colpirono in una tale maniera come non ci è più capitato. L’oggetto materiale era strappato dal suo ambiente abi Âtuale. I suoi singoli dettagli si erano affrancati dal loro contesto reale in tale misura da poter instaurare rapporti assolutamente nuovi con altri elementi ».
Parti di macchine che diventano uomini, uomini che diventano cose che si muovono in uno spazio meccanico, vi stanno sospese o irrigidite. I suoi collages, come i suoi quadri, consistono in tali « combinazioni » (v. f. 77). Essi generano un mondo mostruoso che, grazie a nuove tec Âniche pittoriche, acquista sotto le sue dita un carattere magico. Così, contemplando il pavimento di legno della sua camera, Ernst perfe Âzionò il suo metodo del frottage. Affascinato dallo strano disegno del legno vi appoggiò un foglio di carta e vi soffregò la matita facendo riap Âparire sulla carta il disegno com’era al naturale. Ne risultò una copia che invitava a fare altre scoperte. Nacquero così le innumerevoli imma Âgini che richiamano i boschi e il legno e che ricompaiono sempre nei paesaggi, negli alberi, negli uomini e negli animali di Max Ernst. Questa sua tecnica di strappare i segreti al frottage e al collage egli l’ha conservata fino ad oggi. Un giorno, così egli racconta, in cui giaceva all’ospedale malato di polmonite, un amico gli portò un fascio di vecchie riviste e di libri dell’epoca intorno al 1880, con centinaia di quelle xilo Âgrafie vittoriane e affettate che ornavano i libri e le riviste femminili di quell’epoca. Ritagliandole e ricomponendole alla sua strana maniera, da queste ingenuità zuccherose vennero fuori mondi di orrori e di de Âmoni che egli poi raccolse nei cinque volumetti della sua Une semaine de Bonté, una delle sue opere più fantasiose.
Nel concerto Dada delle innumerevoli pubblicazioni e dei manifesti, che a quel tempo in Germania molestavano, come mosche effimere, i citta Âdini, la polizia e le istituzioni statali, il tono di quelli di Colonia risultò dapprima in una rivista che comparve immediatamente dopo la guerra: di sapore filocomunista aveva il titolo indovinato Il ventilatore. L’intento era quello di far spirare un vento fresco nell’atmosfera ammuffita dell’attuale politica tedesca. Il ventilatore fu fondato da Johannes Theodor Baargeld, un giovane pittore che Ernst aveva conosciuto a Colonia. La rivista attaccava lo stato e la chiesa, personalità in vista, e in pari misura l’arte e ebbe un grande successo. Pur essendo simile alle riviste berlinesi contemporanee non seguiva volentieri il loro esempio in quanto sia Baargeld che Ernst non si trovavano assolutamente d’accordo con i dadaisti berlinesi, giacché questi intendevano subordinare il mo Âvimento a fini di propaganda politica. Politica e arte dovevano avere uno sviluppo parallelo senza sopraffarsi o influenzarsi a vicenda. Inoltre bisogna tenere presente che Colonia era ben lontana dagli spari contro il castello di Berlino e a Charlottenburg, e che nulla sapeva degli assas Âsini al canale di Landwehrk e dell’uccisione di Liebknecht e di Rosa Luxenburg, mentre per i Berlinesi tutto questo accadeva davanti alla porta delle loro case se non addirittura tra le loro pareti domestiche. Il pro Âgramma politico del Ventilatore, il genere e la qualità della critica e della presa in giro, rispondevano intanto a tal punto alle necessità del tempo che in breve ne furono vendute 20.000 copie… finché il comando inglese d’occupazione si fece attento a questi fatti nocivi alla politica di stato e proibì la rivista.
Max Ernst collaborava sì a questa rivista pubblicata dal suo amico Baar Âgeld, tuttavia questo miscuglio di politica e di anti-arte non gli andava a genio. Disgustato da questa lotta meschina per il potere, dai delitti e dalla falsità degli uomini politici, che accompagnavano gli oscuri inizi della prima repubblica tedesca, Ernst decise di suonare le sue melodie su un altro strumento che non sul Ventilatore. La sua musica fu eseguita sulla Schammade. Immagino che questa parola riunisca in sé i significati di zampogna (dolcezza melanconica di suoni), di sciarada (indovinello serio) e di sciamano (grave sinistro esorcizza Âtore). Il finanziatore era il padre di quel Baargeld al cui Ventilatore Ernst aveva collaborato con poesie e disegni. Baargeld padre, ricco banchiere (così mi raccontava Arp il quale a quel tempo soggiornava appunto a Colonia e suonava insieme a Ernst la suddetta Schamma Âde), era gravemente preoccupato per suo figlio il quale, a quanto si diceva, nutriva un’eccessiva inclinazione per il comunismo. Arp e Ernst illuminarono dunque il giovane Baargeld sul fatto che il Dada si spin Âgeva ben più lontano del comunismo e che poteva liberare il mondo grazie a una nuova libertà inferiore e con la potenza dei mezzi espres Âsivi, sia di quelli artistici che di quelli provocatori: a ciascuno una per Âsonalità con Dada! Allorché il vecchio Baargeld venne a sapere che il figlio aveva intenzione di barattare il suo interesse per il comunismo con uno attivo per il Dada, fu così felice che strinse tra le sue brac Âcia, sia in senso affettivo che finanziario, Arp e Ernst; da questa circo Âstanza scaturì appunto denaro a sufficienza per la fondazione e il finan Âziamento della Schammade. Ben presto comparvero nella Schammade tra i nomi dei collaboratori anche quelli dei poeti francesi Breton, Eluard, Aragon ecc. che avevamo trovato già negli ultimi numeri del Dada di Zurigo tra il 1918 e il 1919. Questo fatto potrebbe forse far pensare che in origine esistessero contatti tra Colonia, a mezza strada tra Berlino e Parigi, e il virulento movimento Dada parigino di allora. Al contrario i rapporti tra Berlino e Parigi rimasero invece molto deboli. L’atteggiamento mentale di Ernst era di tale natura che, se Parigi non fosse esistita, se ne sarebbe dovuta edificare una per lui. E infatti nel 1921 egli vi si trasferì.
Il movimento Dada di Colonia attraversò tuttavia un momento burra Âscoso. «La prima manifestazione Dada » del 20 aprile 1920, con Arp, Baargeld, e Ernst, era sì stata annunciata ma non potè aver luogo per Âché la polizia era stata messa in guardia contro i dadaisti che si diceva fossero peggiori dei comunisti. Le autorità di pubblica sicurezza non esi Âtarono a proibire lo spettacolo. La ragione di ciò era questo: l’accesso alla mostra passava attraverso le toilettes di una birreria frequentata da ignari bevitori di birra. Attratti dal chiasso che veniva da oltre le toi Âlettes i visitatori di queste si trovavano inaspettatamente in una mostra Dada.
Questa mostra Dada ridondava dei più svariati e suggestivi oggetti, di collages e di fotomontaggi. Furono recitate poesie nelle quali la fanta Âsia dell’ascoltatore poteva sbizzarrirsi nelle più pazze associazioni. I frequentatori della birreria ne rimanevano così impressionati e sorpresi che si lasciavano andare a manifestazioni di disordine: queste richiama Ârono l’attenzione della polizia la quale chiuse la mostra ritenendola più o meno faccenda di omosessuali. Tuttavia a un’ispezione più accurata risultò che l’unico oggetto moralmente criticabile era opera di un certo Albrecht Dürer… e dopo questo fatto la mostra fu riaperta. Il mondo degli spiriti e delle tenebre di Max Ernst fu molto probabilmente l’elemento fecondatore per le mostruosità e per le anormalità del Dada più tardo. Una forza addirittura irresistibile Max Ernst la esercitò su alcune pittrici surrealiste, come Leonor Fini, Leonore Carrington, Dorothea Tanning, Meret Oppenheim ecc. Esse possono venir tutte derivate da Max Ernst e dimostrano quanto sia stretto il rapporto tra questi feno Âmeni di un mondo primitivo o irreale, evocati da Ernst, e le « madri » e come questi fenomeni spingano la donna a trame interpretazioni valide per la sua sfera di vita. Inoltre queste figure stanno a dimostrare quanto di distruttivo e di donnesco vi sia nell’arte di Max Ernst. Le sue sinistre visioni hanno origine dall’arte tedesca medioevale e romantica. Esse abbracciano la vastità e la profondità sconfinate di uno Schonguaer e di Dürer, il romanticismo delicato, spesso sentimentale, di Caspar David Friedrich e l’allegoria profusa fino a sconfinare nel fal Âso, di un Böcklin e di un Klinger. Nell’arte di Max Ernst questi elementi frammentar! della tradizione si aggrovigliano a formare figure spettrali: qui appare vivisezionato lo sfondo e il sottofondo diabolico dell’anima tedesca.
L’elemento dolce e familiare accompagnato a quello orrorifico si tra Âsforma in elemento malefico… ma grazie a ciò esso cessa di apparte Ânere a una qualsiasi sfera artistica convenzionale e diventa accusa o profezia.
Il pensiero, che certamente accompagnava C. G. Jung, era che noi ab Âbiamo cacciato il demonio dal mondo delle nostre esperienze, e che così facendo ci siamo messi alla sua mercé nel nostro inconscio. Ed era appunto questo pensiero che Ernst illustrava con la sua pittura. Egli non dipingeva Satana con le corna, il piede equino e la coda bensì in mille travestimenti diversi, dotato di una spudoratezza e di una pericolosità perfettamente moderne. I suoi predecessori li possiamo già trovare tut Âtavia presso gli antichi Cinesi e i Greci: infatti, benché la tecnica del frottage sia una riscoperta di Max Ernst, essa era già nota sia nella Grecia che nella Cina antiche.
In Cina, nelle caverne e sulle pietre sepolcrali, nella Grecia classica, scene di dei, gesta di eroi e avvenimenti bellici venivano incisi sulla pie Âtra. Se con i colori si ricalcavano questi disegni su carta di riso o su pergamene, si poteva ottenere una copia di queste scene con il proce Âdimento inverso. Max Ernst sviluppò raffinandolo, questo procedimento e ne perfezionò altri per la riproduzione e la stampa, che debbono esse Âre considerati come suoi segreti professionali.
Accadeva anche che Baargeld e Ernst lavorassero insieme allo stesso quadro: questo metodo non era nuovo, essendo noto già nel medioevo e tornato di moda presso i cubisti. Quando Arp più tardi vide e ammirò i risultati fu chiamato anch’egli a questo lavoro collettivo. Nacque così una serie di collages intitolato Fatagagas che è un’abbrevia Âzione della spiegazione, altrettanto esauriente, « fabbricazione di qua Âdri garantiti gazometrici ». Ernst illustrò anche con dei collages il libro di poesie di Arp Se tu sai, colorisci di nero e disegnò una serie di lito Âgrafie per le poesie di Arp Fiat Modes.
Mentre l’opera di Arp non presenta si può dire alcun cambiamento da quando io lo conosco, ossia dal 1916, Max Ernst passava da un periodo all’altro trasformando spesso radicalmente la sua impostazione formale.
Quello che li accomuna è l’atmosfera sinistramente romantica, il conte Ânuto tenebroso che si riallaccia in maniera inconfondibile al romanti Âcismo tedesco. Arp era e rimase costantemente assoluto padrone del mondo delle forme, per lui si trattava essenzialmente di « lasciar che le cose seguissero in natura il loro corso ». Per Ernst si trattava di una visione inferiore, del sogno, dell’incubo, di far luce negli oscuri riposti Âgli dell’inconscio nei quali il demonio penetra a suo buon diritto, viene invocato e dimostra la sua esistenza senza accenti morali. E questo si osserva non solo nei suoi quadri, nei collages, nei frottages, nelle linoleografie e nei disegni bensì anche in quelle figure, di significato inquie Âtantemente chiaro, che egli murò nel cemento dapprima nel sud della Francia e poi a Sedona, nell’Arizona; oppure nelle sue « Figure a scac Âchi », di potere ipnotico, le cui teste a forma di sole e i cui corpi trian Âgolari appartengono all’al di là .
« Nessuno meglio di Max Ernst ha saputo rovesciare la tasche delle cose… », fa notare Tzara nel catalogo della mostra di Max Ernst tenuta a Brühl nel 1951. Max Ernst rovescia l’aspetto delle cose fino a intac Âcare il loro significato vero e proprio. Egli riduce in puri schemi passioni violente colte nel loro aspetto sociale abituale. La tecnica meccanica viene adottata, con ironia, per stigmatizzare la disumanizzazione del mondo dei fenomeni. Max Ernst ricorda all’uomo il suo ruolo di anello intermedio nella catena del determinismo storico, e la sua impotenza che caratterizza ogni suo desiderio di sottrarsi, almeno come singolo, e grazie alla forza del pensiero a questo ruolo.
L’elemento umano nell’opera di Max Ernst è anzitutto quel suo modo di giocare con gli stimoli che gli provengono da esperienze di qualsiasi natura, e poi la scoperta di un nuovo tipo di umorismo. Questo nasce dalla contrapposizione e dal confronto di due mondi opposti, ai quali viene negato ogni diritto di validità assoluta. L’umorismo si eleva al di sopra di entrambi allo scopo di rendere utile alle necessità vitali e allo sviluppo dell’umanità l’azione reciproca dei due mondi. E’ nel silenzio glaciale di uno spietato esame inferiore, nella situazione al limite tra il sogno e la realtà che l’attività poetica di Max Ernst ha potuto esplicarsi: dalla coscienza essa può venire considerata come un’ebrezza oppure come un contatto ininterrotto tra il mondo delle im Âmagini, che le si snodano davanti e una personalità nella quale esse possano riversarsi ».
Proveniente da Colonia, Max Ernst tenne la sua prima mostra a Parigi già il 2 maggio del 1921 (nella galleria Au Sans Pareil), in quella città che egli poi elesse a sua Patria. La presentazione fu scritta da Breton e ne parlerò più dettagliatamente nel capitolo dedicato al Dada pari Âgino. Parigi non lo lasciò più andare: gli riuscì è vero di fuggire da Pa Ârigi occupata dai nazisti riparando in America, ma non riuscì ad ambien Âtarsi.
Il suo spirito sin troppo tagliente non faceva presa sulla spontaneità americana. Della sua fantasia si notava soltanto il lato morboso e lo si rifiutava. Ernst si ritirò in Arizona nel cui paesaggio è ancora irrefuta Âbilmente vivo l’elemento indiano. Là dipinse favolose immagini del sole e paesaggi lunari, in parte di formato tascabile (« come microbi »). Cir Âcondò la sua casa di sculture spettrali, maligne… finché poté finalmente ritornare in Francia, ove fu accolto come si conviene a un figlio ritro Âvato. Soltanto allora New York si ricordò di lui e volle rendere onore a lui (o a sé stessa) con una grande mostra al Museum of Modern Art.
Fino al 1923 l’opera di Max Ernst fu definita, a ragione, dadaista, con convinzione e insistenza. Dal 1924 in poi essa fu trasformata in « surrea Âlista » dal magico potere della parola di Breton, ma in realtà essa non cambiò affatto. Anche esaminando in tutti i sensi le opere di questo periodo non vi si potrebbe registrare alcun cambiamento prima o dopo il 1924. Lo straordinario sortilegio operatovi è un fenomeno interessante al quale in seguito vorrei dedicarmi ancora in rapporto al sorgere del surrealismo.
Apparve chiaro anche nel caso di Ernst, che le tirate Dada contro l’arte seppure nate con serie intenzioni, erano poi praticamente utopistiche, in quanto la produzione artistica, quand’anche concepita in polemica con l’arte, si afferma come arte proprio in forza della sua natura. Il det Âto di Tzara « La distruzione dell’arte condotta con mezzi artistici » signi Âfica perciò «distruzione dell’arte per riedificarne una novella ». Ecco quanto accadde effettivamente. Questo vale non solo per artisti come Schwitters, Ernst, Eggeling, Arp, Janco e me, bensì anche per l’espo Ânente più radicale dell’arte « anti »: Picabia. Le sue opere d’arte « anti » sono ancor oggi un così ricco argomento di meditazione artistica che potrebbero benissimo essere uno stimolo per un’altra generazione an Âcora di artisti e tali esse sono tutt’oggi. Il Dada liberò lo spirito, stimolò i sensi e dette vita ovunque a opere d’arte che eran sue caratteristiche anche quando non fu possibile sta Âbilire un rapporto diretto o indiretto tra queste e le teorie ufficiali del Dada: molto spesso infatti le prime erano nate per combatter le seconde. Incontrai Max Ernst per la prima volta nel 1925 a Parigi nel suo atelier. A sinistra, su un divano, era seduto Eluard, a destra, su una sedia, Ma Ârie Berthe, sua moglie. Tra i due e tra i quadri grigioverdi, lucenti come muschio, Max Ernst si muoveva andando su e giù. Io andai a trovarlo per avere da lui un suo lavoro per la mia rivista G: ma la cosa andò in fumo, perché la rivista di lì a poco cessò.
Negli anni successivi riuscimmo però a lavorare insieme. A New York egli rappresentò e ispirò l’episodio Desir nel mio film Dream that money can buy, comunicando la sua fresca vitalità e la sua ricchezza di fanta Âsia come nessun’altra volta lo vidi fare, e con una tale vivacità di spirito che rendeva gioioso e divertente il nostro lavoro.
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