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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

ARTE: I MAESTRI: Il movimento Dadaista: Il futuro #3/3

13 Aprile 2008
[da: “Hans Richter: “Dada – Arte e antiarte”, Mazzotta, 1966]

Nell’ottobre dello scorso anno Duchamp attirò la mia attenzione verso i cosiddetti « Happenings » che avevano luogo a New York assai spesso nei luoghi più strani. L’happening che visitai ebbe luogo in un grandis ­simo cortile posteriore di un grattacielo, la più grande flop-house del mondo (il Mils Hotel) nel Village, composto di 1200 camere per i più poveri tra i più poveri: 50 centesimi per una notte si potevano sempre pagare. Al centro di questo cortile, di questo enorme pozzo, l’ideatore dello happening Alan Kaprow e i suoi aiutanti avevano costruito un’im ­palcatura gigantesca, alta circa cinque piani, con carta nera, cartone e sacchi e con due scale per salire sulla piattaforma superiore. Molti piani al di sopra di questa impalcatura, su in alto, pendeva, contro il cielo not ­turno, una cupola enorme rivestita di nero anch’essa. Circa 200 spettatori sostavano lungo le pareti di questa prigione di sogno dalla quale occhieggiavano verso di noi centinaia di finestrelle a grata, larghe appena 50 cm.
Ci vennero distribuite delle scope e il pubblico cominciò a scopare il pavimento coperto di giornali e di altri rifiuti. Quando tutto fu pulito, dal cielo piovvero ad un tratto brandelli di carta, bruciacchiata accompa ­gnati dall’ululare di sirene e squilli di trombe. Piovve ancora più carta, dal cielo scuro caddero sacchi vuoti e pezzi di cartone giù addosso a noi… quando la nostra attenzione fu rivolta verso un ciclista che peda ­lava lentissimamente attorno all’impalcatura, al centro e pedalava peda ­lava (ininterrottamente sino alla fine della serata). Una ruota di auto ­mobile lungo la fune metallica dondolò fuori da un angolo e fece cadere su di noi i grandi pezzi di cartone piovuti sulla sommità dell’impalcatura. Una Ofelia in veste bianca, seguendo la musica di una radiolina che te ­neva accostata all’orecchio, cominciò a danzare attorno all’impalcatura che ora faceva l’effetto di una ara per sacrifici. Dopo aver girato attorno per un po’, essa salì con le sue belle gambe sulla scala su per i cinque piani fino in cima. Terribili ululati di sirene. Essa venne subito inseguita da due fotografi che salirono su per le scale, uno a destra e uno a sini ­stra, dietro di lei il più velocemente possibile. Quando era ormai circa a metà, uno dei due perdette la macchina fotografica e dovette ridiscen ­dere a prenderla. Lassù Ofelia venne fotografata in pose eccitanti, ma dal basso si vedevano solo le gambe. Spaventosa pioggia di carta, brontolii di tuoni, ululati e strida… e la cupola in alto cominciò a abbas ­sarsi lentamente finché ebbe celato Ofelia, i fotografi, i cartoni e la ruo ­ta di un’automobile. Il sacrificio era compiuto.
Un rituale! Di composizione ritmica, spaziosa, cromatica, misurata nei movimenti, esso aveva qualcosa di terrificante, di commovente, grazie al « luogo » dell’avvenimento, anche se il significato di questa « azione » ben poco o niente offriva alla mente. Questa combinazione di rappresen ­tazione, composizione drammatica, colori e suoni, richiamava alla memo ­ria l’opera d’arte globale di Kandinsky, di Bali ecc. Essa esigeva che il pubblico prendesse parte.
Certo: gli happening non sono davvero dei quadri, eppure questo cui avevo assistito, era vicino all’arte, in senso tradizionale, e era anche una forma di Dada. Quello che vi è di imprevisto nell’ambito della forma pre ­stabilita, si agitava e agitava anche noi.
Più tardi parlai con Kaprow, al caffè. Ci intendevamo bene. Sei mesi più tardi mi scriveva in una lettera da New York: « La pop art è tuttora in pieno rigoglio e c’è anche qualcosa di buono, la maggioranza natural ­mente è roba da poco, come accade in tutti i cosiddetti movimenti, ma io penso che presto ne verrà fuori QUALCOSA DI DIVERSO, qualcosa di buono. Si vedrà ».
Anche il pessimismo nei riguardi della cultura, che ha condotto alla pop art, la rinunzia a sé stessi nel Nulla, non possono uccidere completa ­mente l’arte nel suo significato trascendente. L’uomo afferma sempre sé stesso: come artista egli continua a vivere qui in uomini come Alan Kaprow, come Tinguely, in questa mescolanza di uomo d’affari, clown da circo e genio, nelle composizioni numeriche, oggetto di meditazione, di Jasper John, in Higgins, in Bontecou, Dine, Rauschenberg, César, nei coltelli e nelle forchette di Arman e in qualche altro artista dotato e ricco di fantasia. Essi mantengono ancora un rapporto con i loro modelli anti-artistici del Dada, ispiratori talvolta di variazioni libere e feconde, talaltra invece vittime di saccheggi che arrivano sino alla pro ­fanazione del cadavere. Dall’Italia fino in Islanda, dalla Spagna al Giap ­pone, si notano gli stessi sintomi e si afferma la stessa necessità di questa problematica. Non giova affatto di invocare in aiuto gli antichi o i nuovi maestri. Quello che noi vediamo e viviamo, ciò siamo NOI Centocinquanta anni fa, Goethe fece stringere al suo Faust un patto col demonio con la condizione: « Se io potrò dire all’attimo, indugia, che sei così bello, allora mi potrai mettere in catene, allora mi perderò volen ­tieri ».
Oggi il demonio ha adempiuto al patto, ciò gli viene confermato dal ­l’estasi bella e disperata di un attimo di incantesimo, della pop art. Come ne usciremo è almeno problematico. Forse che alla fine, come il vecchio Faust cieco, affermeremo o troveremo confermata, in maniera trascendentale, la nostra umanità? A me sembra che, tutto ciò che possiamo fare è di rimanere coscienti di ciò: di quanto e in che direzione dobbia ­mo far avanzare o retrocedere i confini della nostra umanità: là dove per noi risiede « l’equilibrio tra il cielo e l’inferno ». Nella scienza si procede da un’ipotesi a un’altra, nell’arte di oggi invece sembra di barcollare da una ricetta per il successo a un’altra. E tuttavia questa è solo l’apparenza. « La creazione si conserva anche nei fram ­menti sotto le rovine di un mondo che può appena venire espresso ». (W. Weidlé in L’immortalité des Muses). Sotto la superficie la tensione permane: è il sacrificio del singolo in difesa di una convinzione intima che lo obbliga moralmente, sia pop art o arte classica. Nessuno può dire quando e dove e in quale punto di questo vuoto zampillerà fuori ancora una volta l’aspirazione, mai abbandonata dall’uomo, verso un’im ­magine pura di sé stesso. Ben volentieri vorrei credere che essa ritornerà alla superficie proprio nell’ambito di questa anti-arte.

(Fine)


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1 commento

  1. Pingback by ARTE Il movimento Dadaista Il futuro 3 | arte — 13 Aprile 2008 @ 07:40

    […] Original post by Bartolomeo Di Monaco […]

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Bart