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ARTE: Metafisica: I MAESTRI: I destini della Metafisica #4/6

29 Gennaio 2010

di Patrick Waldberg

[da: Massimo Carrà: “Metafisica”, Mazzotta, 1968]

Se ci si attiene allo stretto significato nominativo, la Scuola Metafisica, in pittura, è nata nel 1917, a Ferrara, dall’incontro di Giorgio De Chirico con Carlo Carrà ed è finita nel 1920, data della loro separazione. Tutta ­via, in verità, la pittura metafisica esisteva già prima di questa scuola, così come la sua diffusione continuò molto dopo la separazione dei due fondatori. L’aspetto insolito, enigmatico di questa pittura, il carattere proprio della sua innaturalità erano già chiaramente evidenti nelle com ­posizioni di De Chirico fin dal 1910, come ne\V Enigma dell’autunno o nell’Enigma dell’Oracolo (ili. 47). Guillaume Apollinaire, colpito dalla par ­tecipazione di De Chirico al Salon des Independants, lo esalta nel Paris Journal del 15 luglio 1914, e vi trascrive un brano dell’articolo che Ardengo Soffici aveva già dedicato al pittore: « La pittura di De Chirico non è certo pittura nel senso che si da oggi al termine. Si potrebbe definirla scrittura di sogno. Giustapponendo fughe pressoché infinite d’arcate e di facciate, di lunghe linee rette; di masse immanenti di semplice co ­lore, di chiaro-scuro quasi funerari, riesce ad esprimere in effetti quelle sensazioni di vastità, di solitudine, d’immobilità, di estasi che a volte producono l’immagine del ricordo della nostra anima quando s’assopi ­sce ». Soffici che fu un precursore e le cui opere ebbero tra il 1910 e 1913 una sicura influenza su De Chirico, esprime in questo pezzo in ter ­mini altamente poetici l’atmosfera propria della pittura metafisica così come il Maestro degli Enigmi ne ha delimitato l’ambito. Cosa vediamo infatti se ci riportiamo agli anni 1911-15, che sono le date del primo soggiorno parigino di De Chirico? Mai l’arte era stata oggetto di così profondi sconvolgimenti. Tutte le regole tradizionali crollano. La fiaccola che gli artisti si passano da una generazione all’altra ha infuo ­cato le tele. Fauves, futuristi, cubisti, orfici, supermatisti, vorticisti e tutti gli altri si contendono la pericolosa gioia di portare alle ultime con ­seguenze la certezza di aver ragione. In quest’orgia sperimentale, qual ­che capolavoro si salva, mentre tutto il resto ha assunto l’aria polverosa e modesta delle tele tristemente appese nei corridoi di accesso alle sale nobili dei grandi musei.

Bisogna dunque riconoscere che in mezzo a tutta questa monotonia â— eccezione fatta per quei pochi capolavori di cui ho parlato â— l’opera di De Chirico emerge, oggi, trionfante. Mi sia permesso a questo proposito, di citare una mia esperienza personale. Frequento da molti anni la casa della Viscontessa di N., a Parigi, dove è possibile ammirare una delle più prestigiose collezioni di dipinti di ogni epoca. Un locale, in partico ­lare, una piccola sala da pranzo, accoglie sui suoi muri un certo numero d’opere di maestri, da Watteau fino a Gustave Moreau, attraverso Magnasco, Gericault, Delacroix, Bonington e molti altri ancora: tra l’altro c’è anche una riproduzione in scala ridotta delle Anime del Purgatorio di Bellini fatta da Degas. Completamente circondata da queste vestigia gloriose, emerge, insolita tanto per il suo formato fuori misura quanto per la fantomatica agressività del suo colore e del suo tema, la tela di De Chirico, alta e stretta, datata 1914 e intitolata La passeggiata del Filosofo. Cento volte mi è capitato di soffermarmi in questa stan ­za, incantato da una decina di meraviglie, ma alla fine vengo sempre at ­tratto dal De Chirico, sul quale lo sguardo si ferma lasciandosi affasci ­nare. Allora è come se la conversazione che continua intorno a me si allontanasse sempre più mentre i quadri appesi tutt’intorno si sfumano e si annebbiano, ad eccezione del Degas-Bellini che possiede anch’es ­so, per quanto derivato da un’ispirazione tutta diversa, il medesimo po ­tere crepuscolare e silenzioso.

Cosa contiene dunque quest’opera, per spiegare la forza ipnotizzante che emana? A prima vista, niente di particolare. Un busto di Giove in gesso e due carciofi appoggiati su un piano inclinato che è la faccia superiore di un parallelepipedo rettangolo che potrebbe essere una pie ­tra da taglio, o qualche baule misterioso. Questo basamento posto obli ­quamente lascia vedere una parte di una delle facce laterali dove sono disegnate delle ombre geometriche e il tratteggio di un asintoto. In fon ­do, molto lontano, un cielo dai lugubri colori dove si erge l’alta cimi ­niera di un’officina, mentre sulla destra, in prospettiva, l’angolo di un palazzo sprofonda nella notte. La luce di un sole al tramonto batte da destra e marca violentemente le ombre del busto e dei due carciofi ai quali la luce livida conferisce un’aria fantomatica, come se si attendes ­sero da un momento all’altro di sparire nelle tenebre da cui qualche misterioso sortilegio li aveva fatti uscire. Il tutto è immerso in quello che Soffici definisce «massa immanente di semplice colore »: in questo caso il verde pallido, un verde che non si può accostare a nulla che sia conosciuto in natura, che si potrebbe dire lunare, se la luna non avesse perso oggi tutto il suo mistero, per cui è forse ancora meglio usare il termine di ultraterreno. Un sottile strato di colore, un disegno dal tratto netto, quasi schematico, una tonalità uniforme, un’impaginazione in cui la solidità degli oggetti raffigurati viene quasi smentita dalla inclina ­zione anormale del piano su cui riposano e dal quale dovrebbero, inve ­ce, secondo la logica, scivolare e cadere, tutti questi elementi possono aiutarci a spiegare la natura del fascino che quest’opera sprigiona. Tre elementi convergono e si rinforzano l’un l’altro a disorientare la mente per giungere a una densità spirituale che colpisce tanto più pro ­fondamente quanto più i mezzi usati per esteriorizzarla sono semplici e diretti. Il mondo antico (Giove) e il mondo moderno (la ciminiera) coe ­sistono pateticamente in quest’istante dell’anima che il pittore ha fissato per sempre. Inoltre la giustapposizione del busto di gesso, antiquato accessorio di giochi accademici, con i due carciofi, banali oggetti di consumo quotidiano, ci obbliga a guardare ciascuna di queste cose come se non le avessimo mai viste e conferisce loro un potere « apparizionale » che le strappa dalla loro meschina sorte. Infine la staticità profonda della composizione, contraddetta dalla vio ­lenta inclinazione del piano, mi sembra proporre, senza per altro insi ­stervi troppo, una dialettica tra la quiete e la vertigine, tra il tempo ed il suo scorrere. Se mi sono soffermato un poco su questa Passeggiata del filosofo, non è solo perché conosco questo quadro meglio di ogni altro, ma anche perché mi sembra contenga, in essenza, tutto ciò che sarà poi l’affascinante messaggio della metafisica. Si tratta già di quel al di là della pittura sul quale Max Ernst più tardi, ha basato il suo mondo; di questa ambivalenza tra stabilità e crollo, tra vicinanza e lon ­tananza dalla quale trarranno il loro pregio gli affiches de Cassandre tra il 1925 e la guerra. Non è per caso, d’altronde, che viene in mente il nome di Cassandra poiché più che un pittore, Giorgio de Chirico mi è sempre sembrato, per lo meno per quanto riguarda la sua pittura meta ­fisica, un grande cartellonista dell’immaginario.

Dopo così eminenti saggisti come Giorgio Castelfranco, Raffaele Car ­rieri, James Thrall Soby, Massimo Carrà, non ho intenzione di rifare la storia di questa scuola, dove questioni di precedenza, di presenza e d’importanza reciproca furono oggetto di interminabili controversie. In ­dicherò semplicemente quale fu la sorte della pittura metafisica nel mondo, la sua diffusione e la sua influenza sull’arte contemporanea. Per prima cosa bisogna sottolineare un fatto: e attraverso la pittura di Giorgio de Chirico che ha avuto origine il termine di pittura metafisica. Per Carré, Morandi, Sironi e per tutti quei pittori che in quegli anni subirono l’influenza di questa pittura, la metafisica fu un episodio rela ­tivamente breve, e la loro fama si formò attraverso il loro lavoro poste ­riore. Per la verità, Carré, che già era stato tra i primi futuristi, fu l’unico ad eguagliare, per un breve periodo, De Chirico sul suo terreno. In ultima analisi è però a Parigi che si formò attorno al solo De Chirico, in tre differenti periodi, la leggenda metafisica.

Primo periodo, Guillaume Apollinaire scopre Giorgio De Chirico: De Chirico espose al Salon d’Automne nel 1912 e nel 1913, poi al Salon des Independants nel 1913 e 1914. Le principali opere esposte furo ­no: L’enigma dell’oracolo, La Torre rosa, Melanconia della partenza, L’enigma dell’Ora, La nostalgia dell’Infinito, Gioia e Enigma di un’ora strana. La nobiltà poetica dei titoli coincide esattamente con la singo ­lare bellezza delle opere, cariche di un « lirismo solitario e profondo » secondo le parole dello stesso De Chirico. Non era infatti certo il manie ­rismo che poteva, in quegli anni di rivoluzione formale, attirare l’atten ­zione. Quello di De Chirico è arcaizzante cioè « accademico » e non tiene in nessun conto i problemi che si ponevano all’epoca gli astrattori dello spazio. In lui che conta è solo il contenuto, il potere dell’imma ­gine, la sua facoltà di condurre lo spirito fuori dei sentieri del quoti ­diano, verso le rive del paese d’Hypnos. Apollinaire, che seguiva con occhio attento ogni innovazione riconosce immediatamente in Giorgio De Chirico un fratello in poesia. Gli interventi in suo favore avranno un grandissimo peso su quella giovane élite che l’Incantatore affascina col suo irresistibile charme. Ne Les Soireés de Paris (15 novembre 1913 – 15 marzo 1914), nell‘lntransigent (28 febbraio – 3 marzo 1914), nel Paris Journal (23 giugno – 14 luglio – 23 luglio – 1 agosto 1914), Apolli ­naire, con autorità profetica, colloca De Chirico al suo giusto rango, tra i più importanti artisti del tempo. Nel frattempo De Chirico frequenta i « sabati del poeta », boulevard Saint Germain, dove incontra Picasso, Marie Laurencin, Brancusi, Derain, Max Jacob e molti altri artisti e scrit ­tori che rappresentano le punte dell’avanguardia intellettuale. Non c’è alcun dubbio quindi che questa comunità elettiva, ristretta nel numero ma molto influente, sia stata un trampolino di lancio per la fama di De Chirico e per la diffusione della tematica metafisica. Sulle pareti di casa Apollinaire sono appese due opere di De Chirico; una è il celebre ritratto, dove il poeta è raffigurato di profilo con di fronte un bersaglio, il cui centro corrisponde alla tempia; quadro pre ­monitore,     inquietante,     insolito,   dato   che   due   anni   dopo,   Apollinaire, ricevette,   nello stesso punto la ferita che doveva, alla fine, portarlo alla morte. È più o meno in questo periodo, credo, che Jean Paulhan, succedendo a Ungaretti come inquilino dell’atelier di   rue Campagne Première, che a quel tempo era occupato anche da De Chirico, acquistò due opere che ancora possiede, La Statua Silenziosa e Arianna, ambe ­due dello stesso anno della Passeggiata del filosofo, di cui ho già par ­lato e a questa molto vicine stilisticamente. Jean Paulhan, che sono convinto sarebbe stato uno dei Tredici se Balzac fosse nostro contem ­poraneo, esercitò nel mondo delle lettere e a volte anche in quello delle arti figurative, un potere occulto di lunga durata. Agli occhi di un pittore, avere dei quadri nella sua collezione, era più importante che essere in un museo. Come si vede, Giorgio De Chirico era stato apprez ­zato all’epoca del suo soggiorno parigino, dalle personalità più attente e attive, che seppero anche dare grande prestigio alla pittura metafisica. Un altro elemento importante per la diffusione della pittura metafisica fu la pubblicazione, da parte di Mario Broglio, a Roma, della Rivista Valori Plastici,   che   durò   dal     novembre   1918   all’ottobre   1921.     Valori Plastici oltre a delle eccellenti illustrazioni, conteneva importanti scritti di De Chirico, Carrà, Soffici ed altri, e si può affermare che questa pic ­cola rivista, dalla clientela limitata ma scelta e dalla fama internazionale, fu il veicolo delle idee metafisiche nell’immediato dopoguerra. È noto, ad esempio, che fu su Valori Plastici che Georg Grosz e Max Ernst vi ­dero per la prima volta dei quadri metafisici di De Chirico e Carrà. Quello che io definisco il secondo periodo dell’espansione metafisica si colloca intorno al 1921 con l’intervento di coloro che divennero qual ­che tempo dopo, i surrealisti. Andre Breton e Paul Eluard, stimolati dal favore di Apollinaire, di cui riconoscevano le qualità di scopritore, furono immediatamente affascinati dalla pittura di De Chirico, che rispondeva meglio di ogni altra alle loro esigenze di impegno. Più tardi, in Genèse et Perspectives artistiques du Surréalisme Breton ha riassunto ciò che la metafisica aveva rappresentato per sé e per i suoi amici, non appena ne erano venuti a contatto: « L’evoluzione di De Chirico, nei quattro anni in cui l’ispirazione l’ha favorito come nessun altro, non è meno irruente, non assume un aspetto meno fatale e meno drammatico di quello rappresentato dall’opera, altrettanto breve, di Rinbaud. Questo fissare luoghi eterni, che diventano spettrali (fantasmi, oroscopi), dove l’oggetto non è più valutabile se non in funzione del suo valore sim ­bolico ed enigmatico (periodo delle arcate e delle torri), assegna imme ­diatamente ali’uomo una struttura che esclude ogni carattere indivi ­duale, lo riduce ad una armatura e ad una maschera (periodo dei mani ­chini). Poi questa stessa armatura si dissolve: l’essere vivente sparisce e viene evocato solo da oggetti inanimati che sono in rapporto alla sua funzione (di re, di generale, di marinaio, ecc.). Infine questi oggetti stessi entrano in composizione con degli strumenti di misura, e non hanno più con la vita umana alcun evidente rapporto se non tramite il simbolo di quell’alimento facilmente conservabile a lungo che è il bi ­scotto secco; il grande ciclo dechirichiano si completa così col periodo degli interni metafisici ».

Non si potrebbe riassumere con maggior precisione l’evoluzione della pittura metafisica, così come si manifestò in De Chirico tra il 1910 e il 1917 (Breton commette un piccolo errore datando l’inizio nel 1912). In oltre Breton nota giustamente, che senza tener conto di questa pittura e della sua dinamica interna, « verrebbe a mancare la base storica per comprendere a fondo il significato e tutta la portata delle rivendicazioni surrealiste nelle arti figurative.

Si sa che dei conflitti personali hanno interrotto le relazioni tra De Chi ­rico e i surrealisti e che questi hanno sempre acremente attaccato l’opera del pittore posteriore al 1917. Da parte sua De Chirico ha rifiu ­tato l’interpretazione che i surrealisti davano della sua pittura metafisica nella quale egli ha sempre voluto minimizzare il fattore poetico e pre ­freudiano. Mi guarderò bene dall’entrare in questa questione o peggio ancora dal volerne essere arbitro. Non si può tuttavia evitare di consta ­tare che i destini della pittura metafisica passano per il surrealismo che ne fu, da allora ad oggi, il più potente mezzo di diffusione. Non si tenne mai dopo gli anni ’20, un’esposizione surrealista di qualche im ­portanza, in cui De Chirico non figurasse come il principale precursore. In oltre l’influenza della pittura metafisica fu determinante su alcuni dei pittori più importanti del movimento.

Quattro grandi iniziatori del surrealismo devono a Giorgio De Chirico la scoperta di un nuovo mondo onirico. Essi sono Max Ernst, Yves Tanguy, Rene Magritte e Salvador Dali. Max Ernst, durante un viaggio a Monaco del 1919, scoprì in un numero di Valori Plastici le riproduzioni di disegni e di dipinti metafisici. L’impressione che ne ricevette fu tale che il suo lavoro ne risentì immediatamente. Le stampe di Fiat Modes coi loro manichini ciechi, le grandi composizioni dal 1921 al 1923, tra cui La Revolution la Nuit, Oedipus Rex, fino allo straordinario quadro-montaggio Duex enfants sont menacés par un rossignol del 1924, por ­tano l’innegabile marchio di quest’influenza. Lo spirito dechirichiano è altrettanto presente anche nei romanzi visivi ottenuti col procedimento del collage, La Femme 100 Tètes (1929) Une Semaine de Bonté (1934) e Ríªve d’une petite fille qui voulait entrer au Carmel (1930). Il ricordo di De Chirico riappare nell’opera di Max Ernst in diversi momenti, anche molto più tardi, come nel 1942 e 1943 con i quadri nel quadro: Peinture pour jeunes, Le Jour et la Nuit; ed anche nel 1948 con il ritorno ai manichini: Le Regal des Dieux, Les Noces Chimiques. Per quanto rari siano questi riavvicinamenti nell’opera di Max Ernst, essi testimoniano evidentemente quanto l’influenza della metafisica fu da lui sentita e, negli anni venti, quanto questa contribuì alla nascita del suo mondo. Ancora più evidente fu l’importanza di De Chirico per il lavoro di Tan ­guy. Quando nel 1926 da Paul Guillaume fu organizzata una retrospettiva di De Chirico, Tanguy, vedendo il quadro esposto in vetrina saltò giù dall’autobus in corsa e passò la giornata in contemplazione. Nelle sue opere posteriori egli non dimenticherà mai il potere di suggestione delle « ombre portate », l’angosciante profondità delle prospettive fuggenti all’infinito e il colore crepuscolare, melanconico di cui è inondato uno scenario senza tempo.

René Magritte, all’incirca nello stesso periodo, esitava e brancolava, scontento del proprio lavoro in cui futurismo e cubismo si scontravano in modo poco convincente. Un giorno, un suo amico, il poeta Marcel Lecomte, gli portò una riproduzione del quadro di De Chirico, Il Canto d’Amore. L’emozione che egli ne provò fu tale che si mise a piangere. Si può dire che da allora tutta la pittura di Magritte si è inserita nella continuazione di quella di De Chirico. « Si tratta â— scrive Magritte â— di una nuova visione, dove lo spettatore ritrova il suo isolamento ed ascolta il silenzio del mondo ». Naturalmente è evidente che qui Magritte parla tanto per De Chirico che per se stesso. Magritte è l’unico pittore contemporaneo che avrebbe potuto rivendicare il titolo di pittore metafisico, se questa scuola fosse continuata e se non fosse stata ri ­pudiata dal suo stesso fondatore.

Per Salvador Dalì l’influenza di De Chirico è evidente dal 1929 al 1938: muri ed archi in prospettiva, ombre smisurate, gran parte del repertorio metafisico è ripreso per una « snaturalizzazione » sistematica. Altret ­tanto si può dire per il primo periodo di Victor Brauner, fino al 1933 circa. Ed infine in Paul Delvaux l’influenza di De Chirico e di Magritte confluisce in un manierismo che ricorda quello degli Italiani post-Rinascimentali. Così, nonostante i conflitti, te denuncie reciproche, e le insinuazioni velenose, è innegabile tra la pittura metafisica e il surrea ­lismo un legame di sangue, extraindividuale, se così posso dire, che li unisce per sempre sul più elevato piano dello spirito, quello della poesia. Siamo giunti così a quello che chiamerò il terzo periodo del cammino della pittura metafisica: quello in cui Jean Cocteau fece entrare Gior ­gio De Chirico nella galleria dei suoi miti personali a fianco a Picasso e Stravinsky. Nel 1928 Cocteau pubblicò, illustrato da De Chirico, un piccolo libro intitolato Le Mystère laïc in cui esaltava il Maestro degli Enigmi: « Non si tratta di guardare senza capire e di gioire senza ragioni per un mero fascino decorativo. Si tratta di pagare caro e di capire con uno speciale senso: il senso del meraviglioso ». Con queste teorie, Cocteau non diceva niente di nuovo rispetto alle sfolgoranti formule con le quali Breton esaltava il modello interiore e il meraviglioso ad ogni costo. D’altronde egli liberava De Chirico dal cumulo di pietre che i surrealisti gli scagliavano continuamente: arrivava un po’ in ritardo, come gli capitava spesso. Ciò nonostante Cocteau aveva molto credito, un gran fascino e godeva la stima di un certo tipo di persone (e di parecchi ambienti) presso le quali i primi ammiratori del pittore non avevano accesso: ballettomani, teatrofili, nottambuli, professionisti della vita mondana e della moda. Era dotato di sufficiente acutezza per sen ­tire quello che di teatrale (nel senso pesante della parola) vi è in questa pittura, teatro di materializzazione di fantasmi, di desideri perduti, di ossessioni latenti, luoghi fuori dal tempo in cui convergono presente passato e futuro. « La morte è la sola rappresentazione che si muove liberamente in tutte le direzioni sulla scacchiera di De Chirico ». Siamo certi che la produzione propriamente metafisica di De Chirico si ferma nel 1917, così come lo hanno preteso i surrealisti? Per conto mio non sono d’accordo. Se è vero che egli ha ceduto alla tentazione di una pittura ispirata alla tradizione classica, vi si ritrova, in mí³lti mo ­menti, l’ispirazione favolatrice, snaturizzante e angosciosa che aveva prima. Per tardivi che siano: I Cavalli in riva al mare, Il ritorno del figliol prodigo, gli Archeologi, i Gladiatori, così come le composizioni di cabine balneari o dei mobili nella valle, rimangono cariche di un mistero sot ­tile. Bisogna tuttavia riconoscere che questa produzione più recente non ha esercitato sui contemporanei lo stesso fascino ipnotizzante degli Enigmi delle Nostalgie e delle Melanconie per i quali De Chirico si è imposto al mondo.

Si può dunque concludere affermando che la pittura metafisica, per mezzo dell’opera di De Chirico, si è imposta da prima come un’esplosione, di cui poeti e artisti da Apollinaire fino a Breton, Eluard, Max Ernst, Magritte e altri hanno profondamente risentito la portata. Poi, nei decenni seguenti il suo procedere si è fatto più sotterraneo, aiutato dagli artisti che a lui dovevano una parte del loro slancio, ma agendo in maniera più indiretta.

I suoi imitatori più evidenti, come per esempio Pierre Roy, l’hanno sfiacchita più che servita. La sua vera influenza è spirituale e l’insegnamento che se ne può trarre non è di ordine plastico, ma poetico. « L’arte â— scrive De Chirico â— è la rete fatale che prende al volo, come farfalle misteriose, quegli strani attimi sfuggiti all’innocenza e alla distrazione degli uomini comuni ». Nella grande confusione che governa oggi il destino delle arti, esiste qualche artista, generalmente solitario, che ha accettato questo programma. È grazie a costoro che il grande slancio che spinse De Chirico e i pittori metafisici tra il 1910 e il 1920 continua la sua corsa nella notte stellata.


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6 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 29 Gennaio 2010 @ 20:19

    Grande   scritto, Bart,  a De Chirico  è ispirata la copertina del mio romanzo Il naso di Pinocchio.
    Sull’artista e l’angoscia   senza sbocchi – la stimmung-  che filtra da suoi dipinti,  Eugenio Borgna ha scritto pagine indimenticabili nel suo saggio Il volto senza fine (Le Lettere, 2004).

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 29 Gennaio 2010 @ 23:17

    Ricordo il tuo bel romanzo, Carlo.
    Sono contento che questa scelta ti  sia piaciuta.  

  3. Commento by Carlo Capone — 30 Gennaio 2010 @ 12:01

    Grazie sempre per la tua precisa lettura.

    Carlo

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Gennaio 2010 @ 12:09

    Carlo, non è mio l’articolo. E’ di Patrick Waldberg. Sarebbe bello che fossi anch’io così bravo e competente di arte.

    Il mio merito, se mai, è di averlo scovato, scelto e pubblicato.

  5. Commento by Carlo Capone — 30 Gennaio 2010 @ 13:38

    No Bart, mi riferivo alla tua lettura del mio romanzo :-)

  6. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Gennaio 2010 @ 14:21

    Grazie, Carlo.

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