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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Berto, Giuseppe

7 Novembre 2007

Il Brigante

“Il Brigante”

Einaudi, 1951, pagg. 248

Questo romanzo, avversato dalla critica (tra i più aspri Emilio Cecchi e Alberto Moravia), esce nel 1951 e viene dopo “Il cielo è rosso” del 1943 e prima di due romanzi che insieme con quello hanno dato notorietà all’autore: “Il male oscuro”, del 1964, vincitore dei premi Viareggio e Campiello, e “La cosa buffa”, del 1966. Nel 1971, rielaborandolo da un lavoro di sceneggiatura per il film omonimo diretto nel 1970 da Enrico Maria Salerno, uscirà un altro suo successo “Anonimo veneziano”. Anche “Il brigante” fu tradotto in film, con il titolo omonimo, da Renato Castellani, nel 1961.

Siamo intorno a Cosenza, in un paesino situato sul pendio della montagna; di lassù si domina la valle, si osservano le stagioni mutare colori e paesaggi. Il protagonista, Nino Savaglio, ricorda un periodo lontano, quand’era ancora un ragazzo. C’è una fontana intorno alla quale il paese si raduna per scambiarsi chiacchiere e novità: “Era bello andare alla fontana sulla strada. Era una fontana con una grande vasca per abbeverare i quadrupedi e altre vasche più piccole che servivano da pubblico lavatoio. Tutte le donne di Santo Stefano e di Guarna, che erano le frazioni più vicine, scendevano lì ad attingere acqua o a lavare i panni, ed era lì soprattutto che si potevano conoscere le novità del paese.” Questa descrizione, insieme con il bell’inizio, ci dà già il tono della scrittura di questo autore, matura, solida, ricca di quel gusto del narrare che distingue gli scrittori di razza. Quel giorno dalla “automotrice”, che fa la spola in su e giù per quei paesi di montagna, scende la solita gente: “Apparvero poco dopo dalla svolta della strada. Era, come ogni giorno, gente che tornava dal mercato. Uomini col cappello nero e il vestito della festa, e donne che tenevano in mano le scarpe con cui avevano camminato in città. La roba comprata la portavano in bilico sulla testa, dentro ceste o fagotti. […] Miliella si preparò la corona di stoffa sui capelli per caricarsi l’orcio. Poi improvvisamente ristette, ed io seguendo il senso del suo sguardo lo vidi che era già apparso dalla svolta.” Nino e la sorella Miliella (diminutivo di Emilia), quattordicenne, che si trovano anch’essi alla fontana, vedono arrivare, ossia, un uomo sconosciuto: “Veniva avanti un po’ curvo sotto lo zaino, solo in mezzo alla grande strada, col sole che gli batteva sulle spalle. Aveva la divisa del soldato coloniale, coi pantaloni chiusi alla caviglia e le scarpe gialle a gambaletto.” Nel 2005, Vincenzo Pardini, con il romanzo “Lettera a Dio”, ambientato negli “Anni di piombo”, ci ricorderà un po’ questo inizio.

Qui, siamo, invece, negli anni della Seconda guerra mondiale: “Ma non era uno di quei soldati di cui noi si potesse essere in attesa. Nessuno lo aveva mai visto prima di quel giorno. Tuttavia stavamo a guardarlo incuriositi e in silenzio, anche le donne che si trovavano a lavare.”, “Quel giorno egli non era che un soldato che veniva dalla guerra.” Ma c’era in lui “qualcosa di straordinario.” L’atmosfera di stupore, di curiosità ed anche di paura è resa con una qualità alta del ritmo e della scrittura.

Anche lo sconosciuto, come accadrà nel romanzo di Pardini, rivolge una domanda, che riguarda una frazione del posto: “Dov’è Grupa?”, e poi una famiglia: “Tu sai dov’è la casa della vedova Accursi?” Pure lui ha con sé un cane, Said: “Infine si voltò e prima di partire fece un richiamo al cane.”, e anche in lui le donne credono di intravedere il volto di una persona conosciuta: “Scommetto che quello è il figlio di Francesco Rende”. È lui, infatti, Michele Rende, che ritorna in licenza dalla guerra d’Africa e si reca da sua zia (sorella del padre defunto), rimasta vedova, e da sua sorella Lucia. È scontroso, non saluta nessuno, non alza gli occhi da terra. La gente che si era radunata intorno alla casa per accoglierlo, ci resta male, si sente offesa. Non alza gli occhi nemmeno sulla sorella Lucia che lo attende sulla soglia di casa. Sulla vedova Accursi e sulla ragazza, minorenne, tutti sanno che sono rimasti praticamente in miseria e ci si domanda dove trovino i soldi per tirare avanti. Tra il ragazzo e l’uomo nasce presto un’amicizia. L’uomo è ancora spavaldo, tuttavia, e approfitta del ragazzo per chiedergli di portare un messaggio ad una donna, Giulia Ricadi: “Dirai solo che Michele Rende è tornato e che stasera alle undici farà il richiamo del gufo, ripetuto tre volte.” Viene in mente “Messaggero d’amore”, il bel film di Joseph Losey, del 1971 (tratto dal romanzo del 1953 dell’inglese Leslie Poles Hartley “L’età incerta”), in cui è la donna, l’attrice Julie Christie, a servirsi di un ragazzo per comunicare con il suo amante. Berto descrive la montagna come un universo mitico, in cui si può essere felici. Il ragazzo sale lungo i sentieri verso la località di Acquamelo, dove vive Giulia, beandosi della bellezza di quei luoghi: “Più su la salita si faceva meno ripida, e faggi e querce cominciavano a mescolarsi ai castagni, ma il bosco era molto diradato, con ampie radure dove crescevano i cespugli dell’erica e del rosmarino. A tratti la grande montagna appariva in tutta la sua vastità.”

Il ragazzo si è fatta già un’idea di Michele e lo crede una persona destinata a fare grandi cose: “Era come se già sapessi che soltanto da uomini come lui potevano venire le grandi cose del mondo.” Egli immagina che in quelle sperdute zone di montagna, dove la terra è arida e si vive soprattutto di pastorizia, allevando capre, sia capitato un uomo singolare, destinato ad illuminarle. La fantasia del ragazzo si esalta, dunque, e dentro di sé ha già trasformato la realtà nel sogno e nel mito: “Perché non c’era dubbio che egli fosse l’uomo più perfettamente corrispondente ai miei ideali che io avessi mai incontrato, quello simile al quale io avrei voluto essere.”

La scrittura di Berto si aureola, anche quando si limita a narrare gli avvenimenti della storia o i paesaggi del suo ambiente, di un arricchimento interiore che promana direttamente dall’io narrante, il quale proprio da quelli ha maturato i suoi sentimenti e la sua crescita: “E fuori non c’è niente. L’aria è fresca e limpida nell’ora che precede il sorgere del sole, e le cime degli ulivi nel podere sono immobili e sembrano rivestite di luce. Più lontano la grande montagna si sta liberando dai vapori della notte.” Descrizione che non si limita, come si vede, al solo sguardo, ma vi partecipano la parte più segreta e il cuore e la mente del ragazzo. Un altro esempio, ancora più esplicito: “Come possono le cose darci la pace se il nostro animo è incapace di riceverla? E se sono belle per se stesse, e se noi abbiamo affidato loro una memoria, non fanno altro che farci sentire più acuta la mancanza di ciò che ci manca, e ci si accorge di essere sperduti. Allora uno può girare come disperato pei campi ad aspettare che arrivi la sera, e poi tornare alla tavola di ogni giorno, e intorno c’è il padre e la madre e una sorella, e sempre si sente sperduto.”

La sera di Pasqua Michele Rende, alquanto ubriaco, litiga all’osteria con un uomo ricco, temuto e rispettato del paese, e il mattino dopo i carabinieri si recano a casa sua, a Grupa, per arrestarlo. La gente segue i carabinieri fino alla frazione di Guarda, dove si trova la caserma, sentono il maresciallo Boffa fargli la ramanzina, parlare adirato con lui ma, contrariamente a quanto tutti pensavano, Michele esce subito dopo libero. La folla si apre al suo passaggio e il piccolo Nino, tredicenne, osserva: “Lo odiavano e lo disprezzavano, ma gli fecero largo perché passasse.” E aggiunge: “Ed io ebbi il coraggio di mettermi al suo fianco. Le gambe mi tremavano, tuttavia mi misi accanto a lui senza pensiero di ciò che i miei amici e tutto il paese avrebbe potuto dire.” Il ragazzo maturerà per Michele un “desiderio di dedizione che poi durò sempre, fino alla fine. Perché vi era bontà e semplice commozione in fondo ai suoi occhi, soltanto questo, non durezza né disprezzo.” Questa che segue è la frase che dà senso al romanzo, pensata dal ragazzo allorché sente in paese che tutti parlano male di Michele e gli pronosticano un cattivo avvenire: “prima di condannare un uomo bisogna conoscerlo, e nessuno di loro aveva tentato di far questo”.

Quando Natale Aprici, il ricco e despota signore del paese con cui aveva litigato la sera di Pasqua, viene assassinato, è di lui che si sospetta e lo si mette in carcere, tra gli insulti della folla che lo giudica colpevole. Morto colui di cui avevano soggezione, le lingue cominciano a sciogliersi e Nino apprende, così, che la sorella quattordicenne di Michele era stata l’amante di Natale Aprici, che la mandava a chiamare di notte due volte per settimana, e quando il padre di Michele, Francesco Rende, era morto, “Natale Aprici si era preoccupato di mandare soldi e regali alle due donne.” Nino si spiega, ora, perché Michele, nell’arrivare in paese, non abbia degnato di un solo sguardo la sorella. Qualcuno doveva aver fatto la spia. Dunque: “Era nel suo diritto uccidere.” Pensano tutti così, in paese. Invece Michele si proclama innocente e sostiene che la notte del delitto si trovava con la sua fidanzata Giulia Ricadi, la quale, interrogata, smentisce, precisando che non era più fidanzata con Michele da quando era partito soldato. Il maresciallo Boffa dice di lui: “Michele Rende è un delinquente nato.” Facile, quindi, pervenire alla condanna: tredici anni di carcere.

Berto ha fatto di tutto per lasciarci nel dubbio circa la colpevolezza di Michele Rende. Ha creato intorno a lui coincidenze, ipotesi e sospetti tali da indurci a concordare con la sentenza del giudice, ma nello stesso tempo ci ha fatto sapere che Nino non crede che egli abbia potuto commettere il delitto ed è convinto che Giulia Ricadi sia una mentitrice.

Mentre Michele è in carcere, la guerra passa dal paese, inaspettata perché “Noi eravamo così fuori del mondo, che non avremmo mai immaginato che la guerra sarebbe passata sotto i nostri occhi.” Sono i tedeschi che si ritirano verso il Nord, “colonne interminabili di cannoni e macchine e autocarri carichi di soldati bianchi di polvere o sporchi di fango, che passavano indifferenti per il nostro paese e non sembravano nemmeno uomini vivi.” Poi è il momento del passaggio dei nostri soldati che, dopo l’8 settembre 1943, fuggono per tornare alle loro case: “il nostro esercito si era sbandato nelle prime giornate di settembre e i soldati potevano comportarsi come volevano, così che avevano abbandonato le armi e ciascuno non pensava che a tornare alla sua casa. Molti passando venivano a bussare alle nostre porte in cerca di cibo, e qualcuno chiedeva anche un vestito borghese, perché aveva paura di essere fatto prigioniero dai tedeschi o dagli altri eserciti che stavano per arrivare.” Bastano queste poche descrizioni a Berto per dare l’immagine di quei tragici momenti. La guerra stordisce, umilia, imbarbarisce: “c’erano di quelli che pretendevano più del giusto, che approfittavano del disordine per rubare o minacciare le donne, e noi dovevamo difenderci da soli perché ormai non c’era più alcun controllo da parte dei carabinieri.” Quando anche gli Alleati passano dal paese “non ci fecero male. Forse compresero che eravamo perduti in una civiltà troppo antica perché la guerra potesse avere un qualsiasi significato per noi.” Ma la guerra, se condanna tutti, ancora di più condanna i poveri: “I nostri poveri non hanno mai avuto altra forza che quella della rassegnazione.” Accade in una di quelle sere che Michele Rende bussa alla casa di Nino. È fuggito dal carcere, approfittando della “confusione dei bombardamenti e della guerra”; “Portava in mano uno di quei corti fucili mitragliatori che noi chiamavamo mitra.”

La presenza altera di Michele in quella casa e l’atmosfera di confronto tra lui e il padre, da cui pretende il fucile da caccia, dànno vita ad alcune tra le pagine più belle del romanzo. Nino assiste, insieme con la sorella, nascosti, alle poche parole scambiate tra i due, alla presenza della madre. Probabilmente – immagina il ragazzo – Michele vuole il fucile da caccia per uccidere Giulia, che davanti al giudice ha giurato il falso, ma Miliella intuisce qualcosa di più: “Io penso che lui dev’essere così perché è solo. Se qualcuno gli fosse vicino, non avrebbe più voglia di fare del male.” Nino decide di andare a trovarlo nella stalla, dove Michele passerà la notte; vuole capire perché ha trattato lui e la sua famiglia con quell’alterigia e quella prepotenza che non meritavano, proprio perché Nino era sempre stato dalla sua parte, e, incontratolo, arriva a conclusioni simili a quelle della sorella: “Aveva paura, ecco quello che aveva. Paura di accettare il bene che andavo ad offrirgli, e paura che qualcuno gli leggesse nell’animo la sua sofferenza e ne provasse compassione.”

Al mattino, nessuno vede Michele lasciare la stalla e sparire “sotto gli ulivi.”, però qualcosa è successo in lui, giacché il fucile da caccia è rimasto lì: “Se n’era andato senza fucile.” Non gli ci vuole molto a scoprire che Miliella di notte è andata da lui a convincerlo di rinunciare alla vendetta. “Non ho commesso male. È stato solo per aiutarlo.”, dichiara a Nino. Trascorre del tempo, Nino lo ha quasi dimenticato, allorché, mentre si trova a pascolare le capre, insieme con il cane Said, ecco che compare davanti a lui Michele, uguale a prima nel fisico, ma “nel modo di fare era cambiato, senza più durezza, e sorrideva sempre, soltanto che non si capiva se ciò fosse sincerità o sforzo per vincere la mia diffidenza.” Infatti, Nino, divenuto più grandicello, non ha più, nei confronti di Michele, lo stesso atteggiamento di accondiscendenza: il rapporto tra i due è mutato. Lo ha mutato Nino, soprattutto: “Questa volta non ero disposto a fare per lui cose che non avessi voglia di fare.”

Berto sa tessere assai bene la sua trama. Mentre Nino torna a casa con il suo gregge e Michele lo accompagna, c’è una domanda di lui che colpisce il ragazzo e riguarda Giulia: “E com’è, Giulia Ricadi”. Nino risponde: “Non è più tanto bella. Sembra diventata vecchia.” “Non si è mica sposata, vero?” Berto lascia volutamente irrisolti alcuni interrogativi del lettore: il primo riguarda il tipo di rapporto che si è stabilito fra Michele e Miliella; il secondo se egli ami ancora Giulia Ricadi; e il terzo se intenda vendicarsi di lei.

Tutto il paese viene a sapere che Michele Rende è tornato “e che gli avevano fatto la grazia perché aveva combattuto valorosamente contro i tedeschi.” Siamo di nuovo vicino a Pasqua, come la prima volta che Michele comparve in paese. Ora va a casa di Nino per chiedere al padre di cedergli un suo pezzo di terra difficile da coltivare, e si accordano sulla parola per una specie di affitto. Pare di leggere Giuseppe Dessì quando racconta di Michele Boschino nel romanzo omonimo, uscito nel 1942. Nino è comandato dal padre di aiutare Michele nel ripulire il terreno e prepararlo per la semina di primavera, così in quei giorni ha modo di rendersi conto che Michele è veramente cambiato. Vuol diventare “un uomo giusto”, non solo, ma c’è anche un’altra ragione che non confida ancora: “te la dirò più tardi, quando saremo riusciti.” Nino intuisce che, rispetto a suo padre, nel lavorare la terra “Michele Rende aveva qualcosa in più, una fede che andava oltre il raccolto e il guadagno che ne sarebbe venuto.” Non è difficile rinvenire in questa figura un po’ torva, chiusa in se stessa, ed ora accanita nel perseguire un mutamento, il segno di una forza e di una speranza scaturite da una guerra che era stata capace solo di seminare distruzione e morte: “Non parlava mai del carcere né della guerra in Africa. La guerra per lui era quella che aveva fatta alla fine, sulle montagne, dopo che aveva capito lo scopo di combattere. Perché non era giusto combattere senza uno scopo, o semplicemente perché vincesse l’uno o l’altro degli eserciti che facevano la guerra. La guerra in se stessa era un male, per il solo fatto che gli uomini si ammazzavano fra di loro. Ma se vi era uno scopo giusto, allora era giusto anche combattere e ammazzare. E lui e i suoi compagni avevano combattuto per la giustizia che sarebbe venuta dopo, quando ognuno si sarebbe preso il suo pezzo di terra e ogni uomo avrebbe avuto un giusto lavoro e un giusto compenso.” È questo il viaggio, quello interiore, che egli ha percorso, dunque, dal giorno della sua fuga dalla stalla, al suo ritorno per chiedere al padre di Nino un pezzo di terra. Non vi è dubbio che Berto parla anche di sé attraverso Michele Rende e vi ricerchi e imprima, con quell’insistenza sui temi della giustizia e della speranza, il sigillo di una sua fede ritrovata. Ricordate il film di Howard Hawks del 1941: “Il sergente York”? Gary Cooper vi interpreta la parte di Alvin C. York, uno scontroso contadino che si converte alla giustizia e al bene. I registri che Berto utilizza in questa parte del romanzo lo ricordano molto da vicino. Nino ora ha di nuovo fiducia in Michele: “Mi sentivo come allora pronto a fare qualsiasi cosa lui mi avesse richiesto, soltanto che ora ero certo che non mi avrebbe chiesto se non delle cose giuste.”; “Diceva che per questo lui aveva voluto che il nostro podere di Lauzara non restasse incolto, per mostrare che su ogni pezzo della nostra terra potevano crescere le messi quando l’uomo gliele domandava con buona volontà.”

Discutendo a tavola con il padre di Nino, che incolpava i poveri di indolenza, Michele risponde che “quella indolenza era frutto stesso della miseria, perché quando la miseria dura da secoli, sempre eguale e sempre senza speranza, allora uno arriva a un limite in cui si lascia andare e non ha neanche più la voglia di tirarsene fuori. Ma era forse questo un motivo giusto per lasciare le cose come stavano?” Abbiamo ricordato Dessì, ma nel 1955, ossia quattro anni dopo il romanzo di Berto, uscirà il “Metello” di Vasco Pratolini, ispirato dagli stessi ideali di riscatto e di giustizia.

Nino sorprende, una sera, Michele e Miliella mentre si baciano. Prova gelosia, si arrabbia con Michele e gli grida di andarsene e di non mettere più piede a casa sua. Si accorge di essere ad una svolta della sua vita: “Non avevo mai pensato che lei potesse essere di un uomo, lei che tante volte mi aveva detto che saremmo stati insieme, sempre, e che aveva la bocca e gli occhi puri di una bambina. Faceva male al cuore accorgersi così all’improvviso che la nostra fanciullezza era finita, che eravamo cresciuti fino a diventare uomo e donna, e ognuno di noi aveva il diritto di scegliersi una sua strada nella vita.” Berto traccia le linee di una divisione tra esperienze personali e esperienze collettive uscite immiserite dalla guerra. Se Michele e Nino provano sentimenti individuali loro propri da non spartire con altri, questi, ora che c’è da ricostruire una società distrutta e rassegnata, devono far posto a quei sentimenti capaci di far resuscitare la speranza con un’opera di ricostruzione grazie alla quale la giustizia assicuri anche ai poveri una vita dignitosa, non più condizionata dalla mancanza di lavoro e dalla fame. Michele, se pensa al suo amore per Miliella, pensa ancora di più a questa umanità che ha bisogno di qualcuno che la scuota e la liberi dalla rassegnazione. Va in giro a predicare la giustizia e ad accusare i latifondisti di affamare il popolo. A poco a poco riesce a fare un varco nelle coscienze: “Accadde che due o tre volte i poveri si riunirono e si lasciarono guidare fin nella piazza di Santo Stefano, dove sorgeva il palazzo del comune. E là si misero a gridare che avevano fame e volevano lavoro. E tutte le volte qualcuno si affacciò e disse loro parole qualsiasi, che bisognava avere pazienza, che la guerra era appena finita, che tra non molto le cose si sarebbero messe a posto da sole.” Berto riprende, dunque, con una scelta di continuità, i motivi che prima della guerra avevano ispirato scrittori come Riccardo Bacchelli (“Il mulino del Po”, 1938-40) e Ignazio Silone (“Fontamara”, 1933). Quando la gente si accorge che gridare non serve a nulla, perché i signori sanno solo promettere a parole, ecco che si fa avanti l’idea di agire: “si cominciò a parlare dell’occupazione delle terre incolte.” Viene in mente, a questo proposito e in tutta questa vicenda, il film di Bernardo Bertolucci, “Novecento”, del 1976. Berto fa della rivolta dei contadini per il possesso della terra, storicamente avvenuto tra gli ultimi mesi del 1949 e i primi del 1950, il punto centrale del suo romanzo; ci dice che essa si è propagata in tutta Italia e che “Per la prima volta gli uomini sentivano pesare come una vergogna l’inerzia delle braccia senza lavoro.” Dimentichiamo, così, l’amore di Michele per Miliella, o quell’interrogativo che ci eravamo posti sulle sorti della ricca e algida Giulia Ricadi, poiché Berto, attraversate le esperienze dei singoli, ci mette a confronto con una esperienza ancora più grande che sta maturando nella società uscita massacrata dalla guerra. La coralità che sorge nel popolo minuto dalla constatazione della propria miseria e dalla impossibilità di credere alle promesse dei ricchi, prende vigore lentamente e Berto evidenzia questa sotterranea maturazione, che è osservata con scetticismo ed anche con diffidenza da quei coloni che possono sfamarsi, pure se a malapena, con il proprio lavoro. Berto ci dà la misura della eroicità dello scontro e della consapevolezza presente nei rivoltosi: “Era un passo definitivo, quello che stavano per fare. Sapevano che poi, se mai avessero voluto tornare indietro, non avrebbero più trovato posto. C’erano già tanti altri che aspettavano per prendere il posto vuoto. E i padroni di quei tuguri erano pur sempre i signori, non li avrebbero accettati indietro.” Scrive ancora l’autore, a sottolineare la forza e la drammaticità di quegli avvenimenti: “Non erano tutti. Molti mancavano, anche di quelli che avevano più animatamente discusso e preso decisioni nelle riunioni dei giorni prima.” Si noti che non appare nessun protagonista in questo momento, non si fanno nomi, nemmeno quello di Michele Rende, giacché è il movimento corale, collettivo, quello che ha significato. La presa di coscienza, ossia, di una ingiustizia che deve essere sradicata, sebbene ancora molti non abbiano il coraggio di agire: “Gli altri comunque li aspettarono, per molto tempo ancora. […] Era inutile aspettare dell’altro tempo. I poveri si contarono. Erano più di cinquanta famiglie, forse trecento persone. Raccolsero da terra i loro carichi e cominciarono ad andare, senza grida né canti. Vi era tutto il resto del paese a guardarli, gente ammassata in gruppi all’ombra degli alberi lungo la strada. Avevano aspettato delle ore per vedere i poveri ribellarsi. Li guardarono passare in silenzio, e non si riusciva a indovinare cosa ci fosse in loro, se ansietà o paura o meraviglia.” Le pagine della rivolta, così come si forma e così come è seguita dai più restii, sono, anch’esse, tra le più belle ed emozionanti del romanzo, e resta difficile capire come la critica più accreditata del tempo non abbia saputo coglierne la grandezza. Sono questi, sembra sottolineare l’autore, i piccoli fatti che, non creduti capaci di sortire alcun effetto, in realtà modificano la Storia: “essi furono soli sulla strada che lentamente saliva verso le terre di Cellia.” Giunti che furono, trovano schierati i carabinieri che li invitano a tornare indietro. Essi sfondano la linea ed entrano nelle terre, quando, all’improvviso, si odono provenire degli spari dalla boscaglia: sono “le guardie armate di fucile.” I contadini “Si disposero su di un fronte largo, che occupava tutta la radura. […] Erano più di cinquanta uomini, e contro di loro le guardie armate erano almeno venti. Sapevano che forse adesso sarebbe stato necessario morire.” Ha inizio la tragedia. Le guardie sparano e un contadino è colpito a morte. Allora sono le donne a difendere gli uomini e a pararsi davanti ai fucili delle guardie, che sono costrette a retrocedere: “Nessuno li avrebbe più cacciati dalla Cellia, né le guardie che si erano ritirate nel bosco, né i carabinieri che erano restati a guardare dalla strada.” Sappiamo solo ora, quando le famiglie si sono accampate sulle nuove terre, che in mezzo a loro c’è Michele Rende. Lo sappiamo giacché quella stessa notte giungono i carabinieri e lo arrestano: “Aveva i polsi chiusi nelle manette, e gli altri erano cinque contro di lui. Non protestò né fece resistenza. Non chiamò in aiuto i compagni addormentati. Se avesse chiamato aiuto sarebbero successi disordini, e forse era appunto questo che i carabinieri andavano cercando. Si lasciò portar via senza parlare.” Invece gli uomini se ne accorgono e si precipitano incontro ai carabinieri per liberarlo, ma vengono a sapere la verità: che non ha affatto avuto la grazia, ma è evaso dalla prigione e su di lui pende un ordine di arresto. Che fare? È stato Michele Rende a dar loro il coraggio di occupare le terre, possono mai abbandonarlo? Infine, decidono di non intervenire, e i carabinieri restano a sorvegliargli, e così Michele Rende, condotto in caserma dall’appuntato Fimiani e da un carabiniere, riesce di nuovo, sguarnita com’è la prigione, a fuggire “quella notte stessa.” Si pensa che qualcuno lo abbia aiutato. Si incolpa l’appuntato Fimiani di negligenza e lo si sospenderà dal Corpo. I carabinieri mandano a chiamare Miliella. Vogliono sapere “se io sono l’amante di Michele Rende.” La storia riattraversa ora la vita dei singoli. Partita da essi, confluita nella coralità delle lotte sociali, torna a dare voce agli individui, e coloro che già incontrammo prendono di nuovo il loro posto sulla scena. Ritornano ad essere i protagonisti: “senza di lui i poveri che avevano occupato le terre furono dispersi in poco tempo.”; “La terra rimase scalfita qua e là dalla zappa, ma erano segni che non sarebbero durati a lungo. Di quella ribellione era bene che fosse annullato perfino il ricordo. I signori avevano ancora una volta vinto.”

Comincia la caccia all’uomo e i carabinieri stanno sempre intorno al podere di Lauzara e alla casa di Nino, sperando che vi capiti Michele. Nino ha vergogna delle maldicenze che si diffondono in paese sul conto della sorella: “Non potemmo più liberarci dal sospetto che ci pesava intorno.”; “Mio padre forse aveva saputo di Miliella e di ciò che le avevano chiesto, e non parlava più.”

Non si sa più nulla di Michele, finché non cominciano a prendere fuoco case, magazzini, fienili che appartengono ai signori. Si pensa subito a lui e si comincia “a chiamarlo il brigante.” Nino desidera di vederlo arrivare una notte a casa sua. Lascia sempre la finestra aperta: “Oh, ne passavano di stelle davanti alla mia finestra, prima che potessi addormentarmi! E dopo venivano i sogni. Lo sognavo come uno degli antichi briganti dei racconti intorno al focolare, col lungo mantello di velluto e il fucile damaschinato e il pugnale dall’elsa d’argento.” Michele, che già aveva impressionato il ragazzo la prima volta che si erano incontrati alla fontana, è diventato, dopo l’occupazione delle terre, una figura avvolta nel mito, e per Nino non ha più importanza se egli abbia davvero ucciso Natale Aprici la notte di Pasqua di anni prima, e nemmeno se sia evaso dal carcere. Egli è ora entrato in quel suggestivo universo delle leggende, in cui gli eroi non hanno colpe: “era un brigante buono, uno di quelli che si erano dati alla montagna per farsi vendicatori del popolo oppresso”. Ma una notte sente un rumore, si alza e scopre che nella sua camera Miliella non c’è. Tornano la gelosia e la rabbia, si fa dare una pistola da un compagno e vuole ucciderli entrambi e poi uccidersi. Invece non ha il coraggio e ogni notte sente, ad ore diverse, gli stessi rumori: “Miliella diventava ogni giorno più pallida e magra, gli occhi sembravano enormi sul suo viso, con le palpebre arrossate per tutte le lacrime che piangeva di nascosto.” La capacità di raccontare di Berto è superlativa e si avvale di un linguaggio semplice con il quale riesce ad irretire il lettore. Ci si domanda, non solo come vada a finire la vicenda umana di Michele, ma che cosa possa succedere a Miliella, posseduta da un amore segreto che avrebbe provocato, se scoperto, l’ira e l’umiliazione dei genitori. E di Giulia Ricadi, che con la sua falsa testimonianza aveva dato il via ai guai di Michele, possibile che non se ne sappia più niente? Si rivelano, per questo tramite, non solo l’abilità dell’autore, ma anche la sua naturale inclinazione al racconto. Il romanzo ha tuffato i protagonisti nella grande Storia, ne ha per un attimo cancellato le identità, ed ora torna a segnare la loro vita con i drammi che appartengono a tutti noi, giacché sono i drammi di ogni esistenza: Michele Rende “era diventato un incubo per l’intero paese”. Lo è diventato in particolare per i genitori di Miliella che sono venuti a sapere e non le parlano più: “fuori, tra le gente, non c’era posto per noi.” In questo dramma sta crescendo la figura di Miliella, che si è posta al centro del racconto, mentre Michele e le sue gesta restano sullo sfondo. Berto vuole mostrarci con Miliella anche la tenacia e il dolore di un amore intenso e sfortunato. È il momento in cui Nino la comprende: “la stringevo e l’accarezzavo, e capivo che tutto – la solitudine e la vergogna e il rancore – tutto non era stato che amore per lei, perché lei era la mia sorella che io amavo.” Nel protagonista l’amore prende il posto dell’odio; se fa soffrire, resta tuttavia, ancora, l’unico tramite per accettare la vita. Lo sa bene anche Miliella che dice a Nino che lei deve andare da Michele, e non tornerà più a casa. Si è messa il vestito più bello, e gli racconta di quella notte nella stalla: “Non abbiamo parlato d’amore, quella notte, ma ci siamo conosciuti, e lui disse che se non fosse morto in guerra sarebbe tornato. Ed è tornato proprio per me, capisci?” Dice anche che Michele le ha rivelato che quando è andato in guerra ha confessato ai superiori di essere evaso dal carcere, dove era stato rinchiuso ingiustamente, e “il suo comandante gli aveva assicurato che non importava, che combattevano appunto perché le cose cambiassero e ci fosse giustizia per tutti.”, e ancora: “lui non immaginava che si sarebbe trovato così.” Berto costruisce anche in questo addio tra Miliella e Nino pagine bellissime, con una scrittura attenta, controllata: “Poi io mi fermai, ed essa continuò ad andare avanti sulla strada dell’altopiano, verso Michele Rende, col suo vestito bello e le scarpe della domenica. E il mio cuore andava con lei, non importava dove. Poi mi sedetti sul margine della strada ad aspettare la sera.”

Si notino la bellezza, la dolcezza e la sobrietà di questo periodo: “Così Miliella se ne andò dalla nostra casa. Pareva tanto poco importante, negli ultimi tempi era diventata come una cosa, e dopo che se ne fu andata ci venne freddo nel cuore, per sempre.” La sua partenza è un duro colpo per il padre, che non vuole più sentirla nominare in casa sua; considera Miliella la vergogna della sua famiglia: “per lui era come se fosse morta.” Si chiude in se stesso, si sfoga con il lavoro nei campi. La madre si siede “sulla panca fuori dalla porta di cucina e stava lì a guardare il sentiero sotto gli ulivi, fissa e senza luce negli occhi, come una statua cieca.”, “si metteva sulla panca a guardare così, per non far morire del tutto la speranza che tornasse.” Il suo pensiero fisso, quando parla con Nino, è: “Lei è lassù, Nino. Deve vivere rintanata nel bosco come i lupi.” Comincia una vita difficile per Nino, fatto oggetto di scherni dai compagni e anche di violenze. Perfino un carabiniere gli dà uno schiaffo per vendicare il ferimento di un commilitone da parte di Michele Rende: “Era che avevo tutto il male del mondo contro di me, la perfidia e l’odio e l’ingiustizia, ed io mi trovavo solo a sopportare tutto quel male, e desolato. E non c’era modo di combattere il male, nessuna via, all’infuori della rivolta. Sarei diventato anch’io un ribelle. Sarei andato sulla montagna a fare il brigante insieme a Michele Rende.” Dunque, è un romanzo di dolore, questo. Il dolore ha colpito prima Michele, poi Miliella ed ora Nino. Berto ha spostato ogni volta l’attenzione su questo o quello dei personaggi maggiori, ma al centro è rimasto il dolore, e con il dolore, il desiderio di rivolta. Sono personaggi mossi tutti da un ideale, sia esso l’amore, o la giustizia, o la solidarietà, e si trovano a farne le spese per colpa di una società organizzata sulle differenze sociali e sulla ingiustizia: “C’era sempre posto sulla montagna, per i forti che non tolleravano né oppressioni né angherie.” Nino sceglie di coltivare il campo che era stato affittato da suo padre a Michele, e a poco a poco si sente ritornare il ragazzo che era prima, voglioso di serenità e di pace. Ha sedici anni. Ne sono passati tre dal giorno in cui arrivò in paese Michele.

Una notte bussano alla finestra. È un uomo che lui non conosce, ha portato con sé Miliella. Berto di nuovo fa di questo incontro con Nino e poi con la madre, e poi con il padre, un altro superbo esempio di come la scrittura possa rendere i sentimenti senza fragore, senza ridondanze, ma con il candore e la tenerezza che meritano. Ci sono molte pagine in questo romanzo che rappresentano ottimi esempi di come la scrittura possa mettersi al servizio di un’arte che, oltrepassate le contingenze, fissi per sempre la perfezione di un linguaggio che si è fatto quintessenza del sentimento, e che va ben oltre i personaggi che ne sono in quel momento espressione. Mentre Nino e Miliella stanno parlando, sentono che qualcuno si è fermato sulla porta delle scale. È la madre: “Vide Miliella e si fermò, immobile e come smarrita. Non c’era niente sul suo viso. Forse la sofferenza lo aveva talmente segnato che ora non poteva più prendere altra espressione. Ma Miliella aveva paura, stringeva la mia mano sempre più forte, e non voleva muoversi. Fui io che la spinsi in avanti. Allora essa camminò verso la madre, lenta e incerta, fino a quando non le arrivò vicina. La madre non si era staccata dalla porta. La rigidezza del suo viso si disfece a poco a poco. Dapprima piegò la bocca con dolore, e poi fu tutta una smorfia, e poi finalmente poté piangere.” Non sarà così con il padre, rimasto irremovibile, anche se Miliella è venuta a dire che si sposerà con Michele. Solo Nino e la madre vanno, quella stessa notte, ad assistere alla cerimonia, che si svolge in una vecchia chiesa. Dopo la cerimonia, Nino chiama in disparte Michele e gli chiede di prenderlo con sé, sa che è una vita dura, ma sente di potercela fare. “Un giorno verrai a trovarci. Ti manderò a prendere io.”, gli risponde Michele.

Quando quel giorno arriva, Berto ci descrive il percorso che Nino fa sulla montagna, accompagnato da un amico di Michele, Giacomo De Luca, e noi riusciamo a godere la bellezza della montagna, attraversata di notte, in mezzo a boschi e a radure: “Il sentiero seguiva la valle del Roniche, passando continuamente da una sponda all’altra del torrente. Non c’era acqua, come avevo immaginato. Tutto il fianco della montagna era intaccato da quei piccoli corsi d’acqua, appena dei ruscelli, che si erano scavata la loro valle nel corso dei secoli.”; “Quando finalmente arrivammo sopra il ciglione, ci fermammo di nuovo per riposare. Là il vento aveva odore di muschio e di pino, ma ancora non si sentiva il vasto rumore della pineta. Guardando indietro si vedeva tutta la grande valle, con sulla costa della montagna i piccoli gruppi di lampadine tremolanti che segnavano i paesi, anche i più lontani perché la notte era serena, e si vedevano San Pietro e Celico e Spezzano, e poi Pedace e Pietrafitta, e infine il nostro, ben distinto nelle sue cinque frazioni.”

Allorché Michele, Miliella e Nino si incontrano nella casa di Immacolata, la fidanzata di De Luca, Michele porta il ragazzo fuori, all’aperto, e gli confida qualcosa del suo carattere, e cioè che egli, condannato ingiustamente, non è stato capace di sopportare l’ingiustizia: “Io sono figlio di questa terra, c’è in me un istinto primitivo di violenza che non posso controllare, e allora agisco come avrebbe agito uno della nostra gente cento o mille anni fa. Mi sembra che non sia mia la colpa. Io volevo essere un uomo come tutti gli altri e loro non mi hanno lasciato. Mi hanno cacciato qui sulla montagna e ancora mi perseguitano, e non avranno pace fino a quando non mi avranno preso.” Perciò vuole andarsene lontano con Miliella, ora che aspetta un figlio: “Mio figlio deve nascere come tutti gli altri bambini.”

Riconosce di aver fallito i suoi ideali e di aver illuso tutti, anche Nino: “La guerra è finita da un pezzo, e i poveri son più poveri di prima e i signori più potenti, e pare che le cose vadano sempre peggio.”, “Sono stato io a farli muovere, e non erano ancora maturi.” Tuttavia, non si considera uno sconfitto: “Ma intanto si sono mossi. Hanno imparato che quando vogliono una cosa la possono prendere, se sono uniti.”, “forse ci sarà da combattere per la giustizia anche nel posto dove mi capiterà di andare.” Anche le speranze non sono perdute: “Quando da loro verrà fuori qualcuno capace di guidarli, si muoveranno ancora. E forse saranno ancora sconfitti, ma non importa. L’umanità non finisce con noi o con la nostra generazione. I loro figli avranno una strada più facile.”

Dobbiamo ricordarci che queste cose vengono dette ad un ragazzo, il quale ha vissuto da vicino gli avvenimenti e conosce tanto l’entusiasmo degli ideali quanto la sofferenza della delusione. Sembra che Berto ci abbia ormai detto tutto sulla figura di Michele; la sua attenzione è rivolta a Nino. Che cosa accadrà di lui dopo una tale esperienza?, sembra volerci domandare. Come si vede, attraverso la pura narrazione di una storia, l’autore riesce a trasmetterci, senza alcuna sua interferenza, una quantità di suggestioni e di motivi tale da farne un romanzo in cui la piacevolezza della scrittura si accompagna ad una rigogliosa abbondanza di significati. Non è facile.

Improvvisamente accade un fatto gravissimo, del tutto inatteso, causato dalla fatalità. Riguarda Miliella, e riguarda subito dopo Giulia Ricadi e tutta la sua famiglia, e poi la famiglia di Immacolata. Che cosa succede a Michele Rende?, si domanda la gente. Si mormora che sia anche impazzito e vada urlando per i boschi della montagna. I carabinieri, che hanno chiamato rinforzi, lo stanno accerchiando e da un momento all’altro sono sicuri che l’ammazzeranno come un cane.

Il lettore leggerà da sé gli ultimi avvenimenti di questa immane tragedia, con la quale il destino si accanisce cinicamente contro un uomo che era stato pieno di speranze e di ideali, per castigarlo per sempre: “Ho fatto del male a tutti, benché non lo volessi.” Qui preme sottolineare, invece, a conclusione, che si tratta di un romanzo molto bello, che merita di essere riscoperto, anche per il doveroso omaggio che si deve ad un autore che recupera e rinnova nel suo modo di raccontare la poesia degli antichi cantastorie.


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Bart