Candida, Marco24 Ottobre 2008 Il diario dei sogni Il diario dei sogniLas Vegas, 2008. Dopo “La mania dell’alfabetoâ€, del 2007, Candida torna, a distanza di un anno, con questo “Il diario dei sogni“, edizioni Las Vegas, e con “Domani avrò trent’anniâ€, editore Eusmewil. Ci sono persone che ti vogliono fare la festa è un’espressione presente nel diario, scritta a caratteri rovesciati come in uno specchio (il sogno non è forse uno specchio di ciò che siamo?) ed è significativa del modo antagonistico in cui l’autore pone il se stesso protagonista di fronte alla realtà . La mania per l’alfabetoSironi, 2007. Iniziato nei primi mesi del 2004 e terminato nel gennaio del 2006, il romanzo vede la luce poco più di un anno dopo, e rappresenta l’esordio di questo giovane narratore di Tortona, classe 1978. Ho conosciuto Marco Candida a Roma, il 16 novembre 2006, e l’ho incontrato di nuovo a Milano circa un mese dopo, sempre in occasione di conferenze organizzate dall’inarrestabile Giulio Mozzi, inventore e animatore di tante iniziative, tra cui quella importante di vibrisselibri, una agenzia letteraria che incorpora una vera e propria struttura editoriale costituita da volontari – tra cui molti professionisti del settore – la quale mette in rete, scaricabili gratuitamente, i libri selezionati e nello stesso tempo li pubblicizza alla ricerca di un editore cartaceo. Marco è, nell’aspetto, ancora più giovanile dei suoi 28 anni; taciturno, è più un attento ascoltatore che un parlatore. Nel romanzo troveremo scritto: “Michele parla poco perché parlare è mostrare la parte nera, dove sta il diavolo”. Ma attenzione: dietro quelle lenti che gli conferiscono un’aria da intellettuale trasognato, si scorgono certi occhi mobilissimi, che frugano intorno con una curiosità tanto avida quanto sorniona, proprio come succede nelle molte pagine di questa storia. Guai ad approfittarsi, perciò, della sua placida e serena mansuetudine. Le parole di Umberto Galimberti che troviamo nell’esergo (seguite da quelle di Kandinsky) paiono poste all’ingresso di una porta simile a quella che si parò innanzi al sommo Poeta prima di entrare nell’Inferno. Possono spaventare, infatti, perché ci avvisano che entreremo in una specie di “città dolente” dominata da una “mente (phrén) scissa (schÃÂzo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indicibile quale dei due sia il mondo vero.” Noi faremo come Dante, però, e non ci tireremo indietro, curiosi di penetrare una scrittura che si prefigge una meta tanto ambiziosa. Le chiavi di quella porta fantastica non sono poi così lontane, si trovano addirittura a portata di mano giacché sono le lettere che stanno sulla tastiera di un personal computer (“Per lui accendere il computer è come accendere i pensieri.”), alcune delle quali compaiono spesso tra un capitolo e l’altro, a ricordare la loro importanza: talune aprono addirittura le varie sezioni in cui il libro è diviso: sono, infatti, le lettere dell’alfabeto le sole che riescono ad aprire a Michele Astrini, il protagonista, la porta del suo mondo: “il suo mondo, pensa, sta tutto lì.” Quando scrive, il ticchettio “regolare” di quella tastiera ha il potere di far addormentare Savemi (Emi), la sua fidanzata, che, sdraiata sul letto, “con indosso solo il reggiseno e le mutandine”, gli tiene compagnia, lamentandosi un po’ perché lui non la porta mai “da nessuna parte”. Si può dire che quella magica tastiera, dunque, apre le porte di due mondi, quello che visiteremo di Michele e quello, ignoto, di Savemi (un mondo, quest’ultimo, che il romanzo non ci farà conoscere se non attraverso minuti spiragli: “la laurea resterà il suo fantasma e determinerà tutto quanto il suo mondo.”), una Savemi immersa nei suoi sogni di ragazza, come è per ciascuno di noi. È lei che, ogni volta che Michele ha finito di scrivere (Michele ha iniziato a scrivere a 12 anni, il 16 gennaio 1990, ma il fantasma si è inferocito dentro di lui a partire dai ventidue anni, “anche se la prima volta è stata a undici”, nonostante la famiglia vi si opponesse), si accorge che non c’è alcuna “attinenza tra quello che sta intorno a lei e quello che lui ha appena fatto.” Ossia Michele è migrato per tutto quel tempo in un altro mondo (più avanti preciserà : “non cerco di eliminare le contraddizioni, le incongruenze, a volte le mostruosità , re-inventando un mondo ideale dove tutto funzioni, ma cerco solo di inventariare questo. Ecco anche per cosa voglio scrivere il libro.”, nel quale gli strumenti di penetrazione che contano sono quelli che Michele chiama “la parte bianca”, ossia tutto ciò che sta fuori di lui (“il suo viso, la sua pelle, l’esterno del suo corpo, le azioni e altro”; “il sesso, le mani, i denti e altro”) e “la parte nera”, ossia tutto ciò che “sta dentro e che da dentro a volte esce fuori” (“i pensieri, le parole, il fiato, la saliva e altro”; “il cuore, il cervello, lo stomaco e altro”). “La parte bianca è l’angelo, la parte nera il diavolo.” Il suo sogno è scrivere un libro, anzi “il libro”, per lui un vero e proprio “oggetto sacro”, e poiché il libro ancora non esiste (è “il fantasma”) Savemi non ha alcuno strumento adatto a contrapporvisi. Il fantasma (il libro non ancora scritto) la perseguita, perché sta mutando il suo ragazzo e lei non può fare niente: “Il fantasma è l’oggetto senza forma che determina tutte le azioni e tutto il mondo di Michele.”; “la scrittura è un demone e davanti un demone non si può fare molto.” Il quale Michele sta diventando maniacale nei confronti della scrittura e anche della parola orale: è attento, meticoloso, si sente “infastidito” dagli amici che non sanno usarla in modo appropriato: “stava anche elaborando di giorno in giorno un modo di parlare tutto suo”. Ci troviamo di fronte, in modo esplicito, ad un particolare romanzo di formazione, in cui la materia prima destinata a calarsi in noi e con cui dobbiamo fare i conti per maturare e crescere non risiede intorno a noi, ma sta tutta nascosta e compressa nella parola, la quale diventa non più un mero strumento di comunicazione bensì la linfa vitale dell’individuo, condizione primaria e imprescindibile, ossia, per continuare a vivere: “anche solo in una parola può esserci dentro tutto il mondo. In certe popolazioni ci sono parole che non esistono – non sono concepite – e questo fa sì che quelle popolazioni non conoscano il mondo che la sola esistenza di quella parola configura.” Ci viene in mente lo stupendo libro dell’autore lucchese Guglielmo Petroni, “Il nome delle parole” (1984), in cui, rievocando la sua vita, proprio la parola è messa al centro di una profonda riflessione: “Avevo circa quattordici anni. Ora sapevo soffrire soltanto delle cose a cui potevo dare un nome”. E ancora Petroni, che non fece studi regolari, e fu un autodidatta, dotato di una sensibilità e di una acutezza del tutto speciali: “nelle ore morte leggevo, sapevo appena leggere, ma mi accorsi che in una sola ora di lettura mi appropriavo rapidamente di tutti gli accorgimenti necessari a quest’arte; m’aiutava forse essere nato in quella Toscana, in quella Lucca dove le variabili delle parole scritte capivo di averle avute a portata di mano fin dalla nascita.” Poi: “finalmente cominciavo a impossessarmi del nome delle parole.” Anche in Petroni, come in Candida, la scrittura rievoca l’immagine del deserto: “Lo sgomento, nel comprendere lentamente che quanto più esploravo in quello spazio che mi sembrava concluso e decisivo, tanto più l’orizzonte si allargava; la sensazione che il deserto in cui si esiste non ha fine, arrivò dopo.” Nel romanzo di Candida, infatti, si trova, nel “dodicesimo post-it” (il post-it è quel foglietto adesivo rimovibile – si veda il “trentaduesimo post-it” – su cui prendiamo appunti: ne troveremo ben 158), un riferimento significativo al deserto; lo pone Savemi: “Scrivere, nell’immagine di Savemi, equivaleva a trovarsi davanti ad un deserto. Nel deserto si hanno davanti tutte le direzioni, ma se lo si vuole attraversare è necessario scegliere una direzione sola. Lo stesso è per la scrittura. Scrivere è scegliere una direzione che escluda tutte le altre”. Ho trovato sorprendente che l’attenzione che, pur in un diverso contesto, lo scrittore lucchese pone sulla scrittura e sulla parola, abbia trovato in un giovane di oggi, a distanza di molti anni, una eco tanto spontanea quanto confermativa. Ma i riferimenti letterari sono numerosi, a partire da “Le parole e le cose” di Michel Foucault (1966), a “Il correttore” (1992) di George Steiner (“L’esattezza. La santità dell’esattezza”; “Non capisce quanto disprezzo ci sia in un accento sbagliato o in un trattino fuori posto? Come se lei sputasse su un altro essere umano.”), a Stevenson, a Swift (il capitolo dei folletti, verso la fine: “quando li ho visti li ho presi tutti e due e li ho posati a terra con tutti gli altri”), a Mary Shelley, a Hoffmann, a Poe, a Wilde (addirittura c’è un racconto – “una carabattola” -, quello di Pigi, nel “quarantatreesimo post-it, che li assorbe tutti insieme, conditi da un po’ di divertimento e ironia), e non mancano nemmeno Kafka e il grande pittore fiammingo Hieronymus Bosch: “a volte Michele vede le cose uscire dalla bocca delle persone che gli parlano. Le cose escono in fila e rimangono sospese nell’aria il tempo di un battere di ciglia prima di scomparire. Ad alcuni escono di bocca baffi di gatto, code di pipistrello, aghi di porcospino. Ad altri riccioli di polvere, rotoli di filo da cucito (rosso), coperchi di scatole per fiammiferi (gialli o blu). Ad altri ancora escono di bocca gnomi verdi, piccole salamandre, gelatine di brodo.” Per non parlare del fumetto e del cinema. La macabra visione del giocoliere Jof, quasi al termine de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, è presente in qualche modo nel racconto di Riccardo che con gli amici visita un cimitero di notte, nel “quarantaquattresimo post-it”. Ci sono anche richiami a taluni film del genere horror. E ciò non tanto per l’incontro frequente di visioni paradossali e assurde, schizoidi (si veda il “ventesimo post-it, ad esempio), piuttosto per una affinità spirituale che trova nella scrittura e nella stessa struttura del romanzo la sua frammentazione allucinatoria. Lo stile di Candida è semplice, quasi diaristico, e accompagna il lettore su di un terreno psicologicamente impervio e complesso con la naturalezza di chi ci narra una “favola di Perrault”, addirittura una storia normale in cui non sembrerebbe difficile riconoscerci, e, invece, si aprono all’improvviso voragini, spazi bui, dentro i quali avvertiamo vertigini e paure; smarrimento e obnubilazione. È il mondo che esplora Candida, il suo mondo, “il mondo del fantasma”. Indubbiamente, ci troviamo di fronte ad un romanzo anomalo in cui siamo chiamati a seguire le tortuosità , anche minimali, di un giovane perseguitato dall’ossessione della scrittura, che sta consumando ciò che noi chiamiamo vita, e addirittura ciò che ne costituisce l’essenza più sublime, l’amore, e l’amore per una donna, ma nello stesso tempo una tale ossessione, non disgiunta da un’angoscia esistenziale, nasconde il germe di una dolorosa gestazione che potrebbe anche condurre alla fuga e alla libertà . Ma il libro che vuole scrivere altro non è che il fantasma che si appropria della mente di tutti i giovani di ogni tempo nel momento in cui guardano dentro se stessi e si interrogano proiettandosi verso il futuro insicuro e ignoto. Le qualità di narratore di Candida si palesano e si confermano nella serie di racconti sparsi a partire dal “trentasettesimo post-it”: è una scrittura imperlata di un sentimento raffinato e cerebrale, minuto, sottile, di una leggerezza trasparente, timida addirittura; è simile ad un filo di seta che scorra e tenga insieme le parole. La struttura del romanzo si avvale di una libertà assoluta, che si serve dei racconti per affermarla ed affermarsi: una libertà di impronta sterniana, dentro la quale il racconto che ogni tanto si inanella sulle parole si configura come una specie di elegante sutura affermativa di una robusta identità di narratore. Sembra che Candida voglia rispondere con questi particolari racconti – alcuni autentici cammei (ma ci sono anche varie e-mail), taluni addirittura incorniciati e conservati nella casa di Savemi e in quella di Michele – alle domande che il lettore desidererebbe porgli – se potesse interloquire con lui – circa la sua provocazione letteraria. La lettera alla mamma che trovate nel “trentottesimo post-it” e “Il racconto d’inchiostro verde” che si trova nel “centoquarantaquattresimo post-it” riassumono in modo esemplare le qualità stilistiche, inventive e innovative di questo giovane narratore. Quello di Michele si conferma sempre più come un cammino faticoso di ricerca che ha nei frequenti momenti di indagine e di riflessione le sue tappe più significative e dolenti (viene in mente lo scrittore Giulio Mozzi, con cui l’autore ha più di un contatto nella conduzione ostinata e in crescendo delle analisi affidate al protagonista). Scrive a Savemi: “Purtroppo, per me, è tutto un po’ più complicato; però trovo un po’ di consolazione nel vedere almeno te un po’ felice.” Infatti, la formazione del suo carattere passa attraverso alternanze di certezze che non sono mai acquisite una volta per tutte. Perfino riguardo al libro che desidera scrivere: “Che cosa importa se scrivo per me stesso o per centomila persone, che cosa importa se i miei scritti finiranno per sempre in un cassetto oppure nelle pagine di un libro stampato, rilegato e distribuito nelle librerie. Per me l’importante è scrivere – e tutto quello che faccio, lo faccio perché sono attratto da quel tipo di azione.” Candida, nonostante che questa sia la sua prima vera esperienza narrativa, si mostra molto abile e fa esplodere quello che può apparire come un versante nuovo della sua storia, e che invece vi sta al centro sin dal principio: ossia, la forza dell’amore, se esso sia, cioè, così sincero e intensamente corrisposto quale è parso finora tra i due personaggi principali. La prova di quanto la mania del protagonista possa incidere su di un tale legame si pone di prepotenza al centro del romanzo, illuminandolo e spostando per la prima volta all’esterno le conseguenze di una formazione che stava nutrendosi, da “almeno quattordici anni”, solo e unicamente in virtù di una totale assenza – o presunta tale – dei rapporti con l’esterno, ivi compresa Emi. La risposta di Michele: ” Emi, tu non puoi lasciarmi” appare come un risveglio che ancora non sappiamo quanto duraturo e pervasivo. L’accusa di Emi è esplicita: Michele è incoerente (“una incoerenza totale”), non riesce a portare a termine mai niente di ciò che si propone (” sei un inconcludente”; “Non riesci neanche a concludere una serata come questa”; “non riesci neanche a finire le frasi che pronunci!”). Si ha l’impressione che la complessa fragilità del protagonista stia per andare in mille pezzi, e Savemi sia in procinto di diventare la sutura di una spaccatura (“Il tuo è un blocco”) che sta profilandosi all’orizzonte di Michele e che non appare tuttavia ancora del tutto scongiurata: “fra un po’ sono sicura che non le comincerai nemmeno le cose!” (Vedremo che nel finale si acquisirà anche un tale risultato). Michele affida ad un suo racconto la risposta (si tratta di un altro testo di ottima e significativa scrittura: “Lo scritto di Luce Argentina: per il mio funerale – di Luce Argentina”): “il senso del mio mondo è dato dalla mia presenza: tutte le cose che ci sono possono stare insieme perché ci sono io che do loro il senso: e questo anche quando tutte queste cose assieme sembrino apparentemente insensate.” È una risposta forte, che mette al centro dell’esistenza la comprensione e il rispetto della persona. Possono mai confliggere con l’amore?: “qualunque vita ha senso per il fatto di essere vita e va rispettata anche quando ci sembra che manchi del senso comune e viva in un mondo altro da quello comune.” Ma Savemi insiste: “La scrittura, sono certa, ti causerà anche altri problemi: non solo me che ti lascio.” A proposito dei racconti che intervengono nel romanzo, tutti ci presentano dei personaggi che altro non sono che sfaccettature di una poliedricità enigmatica quale quella che caratterizza Michele. La stessa Luce Argentina, come in seguito Francesco, sono esempi illuminanti. È, quella con gli altri, una relazione facile? No, anzi: “c’era qualcosa nel suo modo, quella sua esattezza grammaticale e sintattica, che creava distanze.” Scomparsa Savemi dal proscenio (sappiamo che i due continuano a incontrarsi), Michele sta affrontando il mondo da solo, e deve fare i conti con quella sua onnivora ossessione, che induce gli altri a considerarlo addirittura un “diverso”: “Per un periodo La Ditta lo aveva considerato frocio”; poi, a seguire, uno sciupafemmine, un genio, un ritardato mentale: “Agli inizi Michele era stato tutto un errore.” Però il lavoro, nonostante ciò, gli piace: “ci mette tutto se stesso.”; “Michele pensa che il lavoro sia un bene prezioso: qualunque lavoro, e questo lo fa sentire fortunato.” Non è facile trovare nella narrativa, non esplicitamente autobiografica, una aderenza così piena al pensiero e ai sentimenti del loro autore e avvertita da noi in tutto il suo fremito giovanile. È disegnato un cerchio su cui si inanella il percorso formativo di Michele: “È la scrittura la sofferenza: è la scrittura la diversità .”; “Non lo sanno che la scrittura non è una cosa buona e che non fa diventare più buoni, ma, al contrario, inasprisce e indurisce.” Ma anche: “È per questo che si scrive, no? Per questo scriviamo, tutti quanti. Per aggiustare le cose.”; “Oppure le distrugge”. E infine: “Quando scriviamo, le parole non si riferiscono alle cose che stanno nella realtà , ma si riferiscono alle cose che stanno dentro la nostra testa”. Ma anche: “Sul foglio si possono scrivere solo le cose che possono succedere e le cose che ci sono”. La formazione di Michele, dunque, torna ad incentrarsi sulla scrittura, alla ricerca di quel “foglio a esagoni” “in grado di fare quel che gli altri fogli non possono fare.” È, insomma, solo attraverso la sofferenza che promana dalla scrittura che si può maturare e crescere, si possono, ossia, “cambiare le cose.” Che cosa sono i post-it che Michele si porta nelle tasche strapiene o sparge dappertutto, sulle pareti, sul pavimento, dentro i cassetti, sul letto? Michele pensa che siano i suoi demoni “con ali di pipistrello” che “gli stanno attorno, appiccicati ai muri, di notte come di giorno, e lo seguono, ma non come pipistrelli, ma farfalle, si posano sul lato del monitor del computer, finiscono nel cassetto della scrivania, sui corpi dell’armadio, ma non sono farfalle, sono sanguisughe, che subito quando si posano, gonfiano e anneriscono, finiscono per risucchiare tutto quello che possono.” Ma possono essere anche, e congiuntamente (ricordate la parte bianca e la parte nera?), le piccole e fragili ali della sua mente, materializzatesi nel tentativo di volare incontro al suo sogno: “Michele si guarda attorno come se si accorgesse dell’invasione dei post-it per la prima volta.” Molti dei post-it appiccicati dappertutto, infatti, contengono parole, a volte, anzi spesso, una sola parola, come parte di un mosaico che si sta componendo in un testo “sacro”, ossia nel suo libro: “La risposta alla domanda se riuscirà a togliersi dalla situazione che adesso lo blocca è che no, non ci riuscirà , almeno non fin quando non avrà trovato se stesso. Michele raccoglie i fogli dall’angolo della stanza” È un’immagine, quest’ultima, significativa che ci trasmette il senso della ricerca condotta attraverso prima la frammentazione non eludibile della sua personalità (ribadita – ma nel senso di un rischioso appiattimento da mettere in conto – nel personaggio di Desideria, che appare ne “Il racconto dei fogli in disordine”) e poi attraverso una faticosa, lenta ricomposizione. Il personaggio di Desideria è un altro snodo della narrazione. Leggete qui cosa pensa di se stessa: “ha come il sospetto che questa faccenda sia molto più grossa di quel che lei si può permettere di affrontare. Via di questo passo ha come l’impressione che presto le sembrerà di potersi rappresentare soltanto come una specie di grosso mostro fatto di pezzetti o micro-pezzetti di tutte quante le persone che ha incontrato, e questi pezzetti fanno tutta la persona, e senza questi pezzetti la sua persona non ci sarebbe, e questo a Desideria non sembra accettabile, o pensa che per questo non ci sia una soluzione accettabile. Forse cercare di essere uniformi e omogenei il più possibile è la soluzione? Ma si può fare? Non sarebbe diventare ancora più mostruosi?” Desideria, dunque, è una possibilità , rappresenta l’inconscio e il mistero che si trasformano in paura, e senza dubbio è il punto di contatto più vicino tra l’autore e il suo personaggio Michele e tra Michele ed uno dei personaggi dei suoi racconti, Desideria appunto, così da distendere un marcato trait d’union che, congiungendoli, illumina il percorso formativo tracciato nel romanzo e ne avvia la conclusione attraverso la bellissima immagine che compare ne “L’epilogo del computer”, nel “centocinquantaquattresimo post-it”, dei tubicini che collegano ogni parola “con la cosa che la parola nomina”, brano che mostra, ancora una volta la fervida fantasia e l’abilità stilistica dell’autore, il quale giganteggia, lui quanto Michele, come il personaggio che attraversa il libro in un’immagine fissa e trasparente, fermo davanti alla tastiera, intento a cercare le esatte parole per costruire il suo mondo, in cui sentirsi vivo. Quando, subito dopo, all’immagine della tastiera segue quella degli “esserini ritorti e gommosi” che escono dalla torretta del computer, Michele scrive: “Ho visto un esserino tutto azzurro farsi largo tra i foglietti sul pavimento. Prendeva un foglietto e lo arrotolava tutto oppure lo sollevava e se lo toglieva dai piedi.” Che è un altro interessante punto di contatto tra la parte bianca e la parte nera del protagonista nel momento che la sua ricerca sta raggiungendo il suo punto più alto, e forse estremo, in cui bisogna diradare la nebbia di una confusione e di una ossessione che stanno rinserrate nella mente, a metà strada tra la ragione e la follia: “ogni esserino stava cercando di arrivare ad un foglietto appiccicato nella stanza. Non un foglietto qualsiasi, però, ma il foglietto dove stava scritta la parola che ognuno di loro pronunciava.” E poi, allorché l’esserino riesce a trovare il foglietto, lo arrotola in modo che appaia in bella evidenza la parola che vi sta scritta, arrotola gli angoli e ne fa un copricapo a punta “e a questo punto ho visto che se lo metteva sulla testa calva.”, che altro non è che un gesto di appropriazione e di agnizione. Quando poi si dispongono in più formazioni davanti a Michele (perché non ricordare anche Lewis Carroll e il suo “Alice nel paese delle meraviglie”?), di ogni parola scritta sul copricapo appare soltanto una lettera, diversa per ciascun folletto, così che ogni formazione mostra tutte le lettere contenute nella tastiera del computer. Quel che accade dopo spiega esemplarmente le ragioni particolari ed originali di questo romanzo. I folletti si sono polverizzati in “granelli multicolori e luminescenti” e “la polvere coloratissima prima si è raccolta in due grandi mezzelune che occupavano tutta la campata della mia stanza e poi, come coagulandosi e indurendosi per un momento, e poi sfilacciandosi subito, ha ripreso la forma dei foglietti che adesso girandolavano per tutti gli angoli della stanza”. Questi foglietti altro non sono che i post-it che abbiamo conosciuto; essi cominciano a riunirsi davanti a Michele, fino ad assumere l’aspetto di un drappo a forma di pera, con “due grossi buchi circolari tutti neri” nella parte alta, così che “ho capito di avere davanti a me il mio fantasma.” Ne ha paura, ma si domanda se si possa avere paura di una cosa “venuta fuori da me”. Così si avvicina. Tutto il minuto spezzettamento con cui ha coltivato la sua passione (i post- it; i racconti conservati nel cassetto), se appariva agli occhi degli altri come il segno della follia e della disperazione, ecco che si è trasformato in certezza e speranza, nella rivincita, ossia, di una ostinazione tesa ad assecondare la propria ragione e il proprio sentimento. La maturità – ossia quel mondo che sta tra l’essere e il niente – ha spalancato, dunque, dopo la prima porta dantesca – quella che ci ha fatto attraversare l’Inferno -, la porta tanto attesa di un nuovo percorso, avviato ormai senza più incertezze, verso la conoscenza di sé. Se ne rende conto, finalmente, la stessa Savemi. Quel suo gesto di spazzare via dalla spalla di Michele (e di abbracciarlo, invece) “qualche granello di polvere che, però, le sembra sabbia.”, altro non è, infatti, che la trasformazione dell’illusione e del sogno in realtà . Si tratta di un esordio estremamente interessante. La ricca ed estrosa fantasia, la scorrevolezza della scrittura, il coraggio di esporre una originalità tutta speciale, gli spunti, le riflessioni e i suggerimenti che sono offerti in misura copiosa, lasciano intuire che ci troviamo in presenza di un narratore da cui potremo attenderci molto. Incendio nel boscoNato a Tortona, in provincia di Alessandria, Candida, coi suoi 41 anni, si può definire ancora uno scrittore giovane, poiché giovane è la sua scrittura, la quale non è mai conforme, ma si fa ogni volta capricciosa e sorprendente. Difficile darle un corso diverso, visto che essa denota perfettamente la sua personalità sin dall’inizio del suo cammino letterario e che gli consente una versatilità capace di farlo passare con disinvolta piacevolezza dal romanzo, al racconto, al saggio, al reportage. La sua produzione è feconda, per non dire straripante. Della sua bravura di accorse uno degli scrittori che più amo, Giulio Mozzi, che lo fece esordire nel 2007 con il romanzo “La mania per l’alfabetoâ€, Sironi editore, e che ospita spesso i suoi scritti sulla prestigiosa rivista on line “Vibrisseâ€. Letto 3139 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||