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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Ciabatti, Teresa

21 Novembre 2008

Adelmo, torna da me
I giorni felici

“Adelmo, torna da me”

Einaudi, pagg. 224. Euro 8,50

Alcuni famiglie benestanti che vivono a Roma, si ritrovano insieme ogni anno a trascorrere le vacanze d’estate nella zona dell’Argentario, per la precisione Santo Stefano, Porto Ercole e Orbetello, dove possiedono ville lussuose. Così i figli possono proseguire lì la loro frequentazione e i loro amori.
E anche i grandi.
Un mondo un po’ annoiato, un po’ eccentrico, un po’ nevrotico, un po’ in fermento, che ci ricorda situazioni che già abbiamo vissuto nel cinema e in altri romanzi. “La Dolce vita”, “Gli indifferenti”, sono i riferimenti più noti che vengono alla mente.
Ma ci si inganna. Non si tratta di una scopiazzatura di ambienti e avvenimenti già noti e consolidati. L’autrice scannerizza con l’occhio di oggi una umanità che non è più la stessa degli anni ’60 e ne coglie le nuove fratture psicologiche assai più profonde e devastanti rispetto al passato. L’ambiente alto borghese ha sempre dato motivi sufficienti per essere scandagliato, e lo si è fatto molto più a lungo che dell’ambiente proletario, spesso trascurato dai grandi narratori, e la Ciabatti appartiene a quella categoria di scrittori a cui piace rinvenire nei cosiddetti ricchi e benpensanti le tracce delle loro ataviche aberrazioni, certamente più sottili e contorte, nascoste e camuffate che nell’ambiente di ceto meno elevato. È una sottile sfida in atto che si avverte tra lei e questo mondo balordo. Una ricerca di disvelamento e umiliazione, nella quale ci sentiamo trascinati con una specie di piacere sadico, stimolato da una trasparente e a volte molto spassosa ironia. L’accorgimento che qui viene trovato per far esplodere la fragilità di questo ambiente a cui appartiene la quattordicenne protagonista, Camilla, è il contatto con l’altro mondo, quello che fa da motore alla realtà, che come un rullo compressore passa sopra, perché non ha il tempo di avvertirle, alle nevrosi e alle pazzie di un modo diverso di vivere, ottuso e sbilenco, e che e tuttavia esiste e col quale si deve fare sempri conti.
La storia si affolla di personaggi che si alternano sulla scena, s’incastrano e compongono un mosaico, da cui restano fuori alcune tessere che, si capisce, dovranno costituire una sorpresa: una di queste è rappresentata dalla sconosciuta ragazzina che al Telefono azzurro, al quale si rivolge ripetutamente, con la stessa denuncia, non vuole rivelare nulla di sé, lasciando a lungo il suo atto di accusa vuoto di ogni possibilità di intervento. O anche taluni fatti e personaggi misteriosi che compaiono e vengono immediatamente lasciati in sospeso, coi quali si intuisce che dovremo fare i conti in un tempo che va oltre quello del romanzo. Attraverso queste piccole tessere, le situazioni si configurano in una lenta, lentissima evoluzione, nella quale hanno gioco anche episodi di ordinaria vita quotidiana, o personaggi non marginali e inquietanti come Mino, Gerry, la stessa Maddalena, la tata deforme della protagonista (per la quale di tanto in tanto vengono spese parole bellissime, come alle pagine 129 e 147), non fini a se stessi, come sembrerebbe, ma tali da arricchire i punti di riferimento di una borghesia malata e soffocata in se stessa, che può trovare nelle curiosità di una Camilla Randone (a differenza della madre Giovanna) una delle poche chance per riagganciarsi alla vita. Ad un certo punto, così pensa Camilla: “Tu, ragazzo povero, mi devi baciare, tu devi avere una storia con me. Non te ne andare, ti prego portami con te in moto, io non ho niente da fare, non mi lasciare qui.” E anche: “Non volevo vedere Adelmo vestito da cameriere.”
Uno degli aspetti interessanti della storia è proprio questa rappresentazione della psicologia femminile in generale (ossia che non riguarda solo la protagonista, ma, ad esempio, anche Lavinia, Claudia, Giovanna), e in particolare di una ragazza, la protagonista Camilla, che si accinge a conquistare il giovane Adelmo di cui è innamorata. Vi sono tocchi, minuzie e levità tutte da gustare. Un esempio è dato, nella prima parte (il libro è diviso in due parti), dal paragrafo 52, una vera chicca. Ma se ne potrebbero citare altri ugualmente perspicaci, frizzanti e graziosi, che rendono la freschezza, l’ingenuità, la malizia, il candore, la spontaneità, i tremori, le attese, le illusioni, le bugie, le ansie, gli umori scostanti e improvvisi, di una quattordicenne che non vuole lasciar passare davanti a sé la propria età senza viverla. Di cui ci si può anche innamorare quando la sentiamo formare pensieri come questi, così liberi, così spontanei, o immaginare se stessa ammirata e bella perfino a un funerale:
(Maddalena) “è quella che quando ti svegli e ti affacci in finestra per renderti conto che ore sono perché non hai orologi in camera, è quella che vedi passare per andare a ritirare i panni, e sai che è mattina.” E anche, allorché il suo pensiero si riferisce al giovane Giuseppe Siracusa: “Quella grande casa che hai modo di vedere da casa tua, quella rossa, la più grande di tutte, che puoi capire che c’è una piscina perché sicuramente vedi spesso degli spruzzi salire in alto, che poi sono io e la mia famiglia che mi tuffo, ebbene quella casa è la mia.” E ancora: “Ci sarebbe stata tanta gente al funerale (…omissis…) E lei bellissima, con i capelli lunghi raccolti in una coda, camminava a testa alta, gli occhi appena velati. Allora sulla porta della chiesa sarebbe comparso un ragazzo bellissimo. Uno che si vedeva che aveva corso per arrivare lì.”
Un personaggio bello, vero, vivo, ricco di poesia, Camilla, e una storia non scontata, raccontata abilmente da una scrittrice esordiente dalla quale questa opera lascia intendere di doversi aspettare molto e presto.
Una storia in qualche momento aspra, cinica, che ti prende e si fa amare.

“I giorni felici”

Mondadori, pagg. 320. Euro 12.  

Sono molto contento di poter leggere questo secondo romanzo di Teresa Ciabatti, che fa seguito a “Adelmo, torna da me” (Einaudi 2002), pubblicato da una casa editrice prestigiosa, come Mondadori.
Nonostante le aspre critiche che assalirono l’autrice, fatte, secondo me, più di malevolenza che di verità, il libro di esordio mi piacque molto e ne scrissi assai compiaciuto. Ne è stato tratto un film da Carlo Virzì,”L’estate del mio primo bacio”, e ricordo con piacere e anche con un po’ di commozione l’invito che l’autrice mi rivolse di prendere parte alla proiezione della “prima” del film. Pigro come sono declinai, ma non dimenticherò mai l’attenzione e la cortesia che mi furono riservate, rare ai nostri tempi. Oggi la Ciabatti scrive con successo anche per il cinema.
Ma incamminiamoci ora all’interno di questa seconda prova, avvertendo che sono la vanità e il mondo dello spettacolo soprattutto al centro dell’attenzione dell’autrice, e chi ha qualche anno come me, ricorda molto bene gli attori che sono nominati, di maggiore o minore fama poco importa, di cui, in calce ai capitoli che li riguardano, vengono tracciate brevi biografie. Esse arricchiscono, con i successi e gli insuccessi conseguiti, con la celebrità e poi la polvere della dimenticanza, la visione di un mondo in realtà vacuo e caduco. Tali biografie, frutto di ricerche personali e di aggiornamenti, costituiscono, tanto sono dotate di interesse speciale, un libro a sé.
Siamo a Roma, fine anni ‘70. Una bambina di sei anni, Sabrina Mannucci, dagli “occhioni celesti” e “talmente bella che la gente si fermava per strada a guardarla”, è dotata di una intelligenza singolare: a quell’età, sa fare di conto con operazioni anche complesse, scrive e legge come e forse meglio dei grandi (“leggo solo romanzi di mille pagine”), sa cantare, riesce perfino, concentrandosi, ad indovinare che tempo farà il giorno dopo. Ha perfino sognato la Madonna che le ha detto: “Tu Sabrina, sei la più brava del mondo”. Si distingue nettamente da sua sorella Barbara, piuttosto bruttina e grassoccia, e da suo fratello Roberto, una specie di demonietto. Il padre, Riccardo, è bello come Sabrina, la figlia prediletta, e abbastanza ricco. Lavora in televisione in una posizione di rilievo, e conosce molti personaggi, così racconta ai figli. È stato lui a scoprire nuovi talenti dello spettacolo, come, ad esempio, Rita Pavone. La madre somiglia a Barbara, bruttina anche lei.
Sabrina sa di essere speciale, da qui la sua vanità e il desiderio fortissimo di mettersi in mostra, incoraggiata soprattutto dal padre, che pensa di fare di lei una nuova Shirley Temple. Già qui l’autrice mette il primo dei tanti tasselli che concorrono a descrivere e a determinare il destino della protagonista: la seduzione del mondo dello spettacolo, e della televisione in particolare, allunga i suoi tentacoli verso la piccola Sabrina, sicura di afferrarla, complici le ambizioni e le vanità personali.
Sabrina, oltre che vanitosa, è anche un po’ crudele, come lo sono spesso i bambini (infatti, pure la sorella Barbara non ne è immune). Davide è un bambino ritardato. Gli sono stati pronosticati altri due anni di vita. Sabrina non vede l’ora che muoia per poter appendere una sua foto nella propria camera e dire alla sorella e alle compagne che quello è stato il suo migliore amico. È un terreno di indagine già percorso da altri scrittori, prima fra tutti Simona Vinci, ma anche Eraldo Baldini, e dalla stessa Ciabatti con Camilla, la protagonista del romanzo d’esordio. La Ciabatti vi si inoltra, tuttavia, con una speciale penetrazione e delicatezza. Lo si era già notato con Camilla, e anche qui, a Sabrina concede tutta la libertà di muoversi, così che la sua natura si esponga spontaneamente allo sguardo dell’autrice e dei lettori. L’operazione della Ciabatti non è quella di costruire il personaggio, ma di farlo muovere così come lo ha osservato nella realtà. Guardate anche voi, sembra dirci, ci sono tanti bambini come Sabrina, generati e moltiplicati dalla modernità. Fate attenzione a cosa Sabrina dice, a cosa pensa, a come si muove: oggi i bambini sono come lei: dentro ciascuno di loro, anche quando non appare, c’è una Sabrina. Il nostro tempo, rimasto pressoché senza valori,  è destinato a perpetuarli.
In mezzo alle sgargianti luci dello spettacolo, ai nomi altisonanti che ricorrono, ai maneggi per arrivare al successo, noi dovremo cercare di non perdere di vista l’indagine psicologica che l’autrice svolge con il suo personaggio. Dunque, Sabrina, ancora piccola, è destinata al mondo abbagliante dello spettacolo. È il padre che lo vuole, ma è soprattutto la bambina che considera il successo come cosa dovuta al proprio talento e perciò scontata. Sabrina esige una vita eccezionale, da prima donna.
Sebbene abbiano finalità diverse (nel romanzo la bambina ha la spiccata vivacità di una protagonista, la quale, seppure influenzata dal ridicolo padre, ha una propria fisionomia dominante; nei film invece i bambini patiscono l’influenza dei grandi), la storia fa pensare al film “Bellissima” di Luchino Visconti, del 1951, con Anna Magnani e la piccola Tina Apicella, e anche a “Bravissimo”, il film di Luigi Filippo D’Amico del 1955, con Alberto Sordi e il piccolo Giancarlo Scarfati.
Quando il padre la conduce da Corrado affinché la prenda sotto la sua protezione, il noto presentatore le dedica appena un minuto, la considera molto brava, ma dice chiaramente al padre che lui non può fare niente. Sabrina si aspettava tutt’altro esito, almeno un tripudio di ammirazione, un’esclamazione di meraviglia per le sue doti, tanto decantate dal padre. E invece… Ne è delusa. Con la sorella, che desidera sapere dell’incontro, è riservata, non vuole parlare. Però la notte, va a cercarla e le chiede di poter dormire nel suo letto. È il primo impatto con la realtà.
Tuttavia Sabrina non è facile a piegarsi. L’autrice mostra assai bene una tale resistenza volitiva, una determinazione spronata e tenuta in piedi dalla vanità congiunta ad una invidia che ha la forza di trasformare gli altri – perfino il fratello Roberto e la sorella Barbara – in esseri ridicoli, stupidi e spregevoli. Per innalzarsi, occorre spesso abbassare gli altri, sembra suggerirci l’autrice, e nel mondo dei bambini ciò avviene in modo tutto speciale. Sabrina è una distruttrice, ancora non se n’è resa conto. Vuole il mondo tutto per sé, e che cosa fa? Lo disgrega con la sua ambizione aggressiva, che si porta dietro, come spesso accade, una buona dose di cattiveria. Ad ogni delusione, anche quelle che riguardano il padre (che davanti ai figli si vanta di un’importanza in azienda che invece non ha), Sabrina, tutte le volte, dopo aver accusato il colpo (“Io… – mormorò lei tra le lacrime – non voglio più venire da nessuna parte.”), reagisce con caparbietà ed è in quel momento che si carica di una violenza ancora maggiore.
Il padre è il primo a pagarne le conseguenze. Sabrina lo sacrifica presto alla sua vanità, lo colloca molto al di sotto di lei. Se ne allontana. Il suo diventa amore-odio. Arriva a vergognarsi di lui (“perché doveva capitare proprio a lei un padre così?”; “papà, perché non muori?”). Convinta della propria superiorità su tutti, la vita continua però a negarle ancora le sue ambizioni. A sedici anni, bella, occhi celesti, nasino all’insù, fisico slanciato, fa ogni tanto la hostess presso una società che organizza convegni di medici. È stato il padre a farle accettare quel posto, dove avrebbe potuto incontrare la famosa attrice Carol André, ritiratasi dal cinema e diventata una imprenditrice che intrattiene rapporti anche con l’azienda in cui lavora. Forse avrebbe potuto incontrarla e chissà… È un nuovo impatto deludente, un altro tassello di disgregazione: mai avrebbe immaginato di trovarsi un giorno a fare la hostess per provvedere agli sciocchi bisogni altrui.
La sua vanità perdura, tuttavia, è davvero tenace, perfino sorprendente. Continuano a farne le spese i fratelli. Barbara è sposata, ha dei figli; lo è anche Roberto che è diventato avvocato, ha 39 anni, ha successo nel lavoro, sua moglie aspetta un figlio, ma Sabrina continua a pensare di lui: “si possono avere anche tre lauree, ma se non si ha questo, il cervello, c’è poco da fare.”
L’autrice non la perde di vista, la vede crescere, sa che si tratta sì di una ragazza speciale, ma anche di un esempio, meglio ancora di una lezione per tutti. La sua vanità è diventata acida, non ha più le ali di un tempo. Dice di lei a Roberto la madre Mariolina: “Roberto, porta pazienza, sta soffrendo.” Queste poche parole riassumono mirabilmente il doloroso percorso fatto da Sabrina fino a quel momento (si trovano in ospedale dove è stato ricoverato il padre, malato gravemente), che ora insegna al Conservatorio musicale di Frosinone, dove un allievo, nel corso di una animata discussione, le risponde: “E lei è una fallita”.
Sono i frutti che sta raccogliendo la sua vanità. Ferite su ferite. Inquietudine e insicurezza, pessimismo e rabbia sono entrati dentro di lei. Comincia a frequentare (dopo che ha avuto altre avventure amorose), l’uomo di cui si è innamorata, Cristiano Perrone, che altri non è che il marito della sorella Barbara (“Barbara amava profondamente Cristiano”),   proprietario di giornali, il quale vorrebbe affidarle l’incarico di responsabile della cultura nella sua azienda, che Sabrina rifiuterà. Cristiano non è nemmeno bello: “era un ciccione di cento chili, i capelli ricci e lunghi fino a sotto le orecchie, sempre abbronzatissimo, un vero burino.” Amico di Roberto, Cristiano, molto ricco, coagula a poco a poco intorno a sé la vita dei tre fratelli.
Rispetto al romanzo di esordio, in cui presa in considerazione ed analizzata è una ragazza quattordicenne, Camilla, qui si va oltre. Anche Camilla, di famiglia benestante come Sabrina, ha una sua altezzosità, che però trova modo di addolcirsi, mentre in Sabrina il percorso che si intraprende è più lungo e complesso: Sabrina, al contrario di Camilla, diviene adulta, la sua vanità l’accompagna come un’altra pelle, con lei deve fare i conti. La vanità che da bambina la rendeva lusingata, ammirata e speciale, ora si è caricata di un peso e di un ingombro che sono sempre più difficili da sopportare. Sabrina sta per percepire, anzi forse lo ha già percepito, che quanto prima dovrà fare i conti con essa.
Sebbene l’autrice si affacci qua e là, e sempre più spesso nella parte finale, all’interno di altre vicende parallele (di Barbara, Roberto, Teresa sua moglie, Riccardo il padre, Cristiano, e così via) ci accorgiamo che noi stiamo assistendo allo svolgersi di una sola vita, quella di Sabrina. Pur nella sua modernità, Sabrina ha in sé la tragicità di altre eroine, perfino della stessa Emma Bovary, ad esempio. La sua vanità, la sua determinazione a distinguersi dagli altri come la migliore in tutto, nella intelligenza come nella bellezza, come nell’amore, contengono ormai l’amarezza di un desiderio che non si realizzerà mai. La caparbietà di Sabrina trasforma una tale amarezza in un tragico smarrirsi (lei sa bene della sofferenza di Barbara, che ha scoperto il tradimento del marito con la sorella), in una desolante, morbosa, malata solitudine. Ad un certo punto si arriva perfino a percepire l’assenza del tempo, quasi che Sabrina si allontani a poco a poco dalla vita degli altri per trasfigurarsi in una esistenza estranea. Si presenta, infatti, Greta, la bambina figlia di Barbara e di Cristiano, una spepina che potrebbe prendere il suo posto, perpetuare la specie, caricare su di sé la pena che la sta rendendo infelice. A tal proposito, ricordando i suoi rapporti col padre, penserà: “Quante bugie gli aveva detto solo per non deluderlo! Papà, non è colpa mia, è il sistema…”
Il mondo non è come immaginava: vi regnano disordine, confusione, ideologie paralizzanti, deficienze intellettuali, corruzione mafiosa e politica (su quest’ultima la Ciabatti insiste con forza). Lei si sente come chi si trovi a contatto con una palude di idee e sommovimenti cui manca la scintilla del genio. Lei è diversa, è quel genio che gli altri non hanno. Mozart – pensa – non era forse come lei? Da giovane, non era stato come lei emarginato?: “una voce fuori dal coro, tanto da non integrarsi mai veramente in società neanche nel suo periodo di maggior fama.”
Come Peter Pan, Sabrina non è mai veramente cresciuta. Voleva comandare, essere la migliore, e invece è restata bambina. L’unica vittoria della sua vita, infatti, l’unico successo che l’ha resa felice, è stato quello conseguito allo “Zecchino d’oro”, davanti al suo papà, seduto in prima fila e con le lacrime agli occhi. Sabrina non ha mai aggredito la vita, in realtà si è sempre difesa. Greta le assomiglia molto: ha le sue presunzioni, le sue bizzarrie, le sue ostinazioni, la sua cattiveria, la sua paura. Al termine, troveremo una significativa sorpresa: quasi che la Sabrina rimasta superba e vanitosa, ma anche umiliata e sconfitta, voglia liberarsi di se stessa, della sua non riuscita adultità, scomparire dalla scena e prendere il posto di lei, della piccola Greta: per provare a ricominciare tutto da capo.


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Bart