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CINEMA: I MAESTRI: Come nacque il cinema

13 Febbraio 2008
[da: Vittorio Calvino, “Guida al cinema”. Prefazione di Vittorio De Sica, Nuova Accademia Editrice, 1954]

Pubblicheremo, con opportuni intervalli, una serie di articoli dedicati alla storia del cinema e ad alcuni dei suoi più celebri personaggi.

IL GALOPPO DEL BISONTE

Fin dai tempi più remoti l’uomo si ingegnò a riprodur ­re la vita quale appariva ai suoi occhi, non già ferma nel ­la immobilità assoluta di un quadro o di una statua, ma colta nel suo divenire dinamico, afferrata nei molteplici aspetti del suo continuo mutare. In poche parole, senza sa ­perlo, l’uomo primitivo aveva il desiderio del cinematogra ­fo. E che altro vuoi dire questa parola, cinematografo, se non « immagine in movimento »?
Un bel giorno, un giorno molto molto lontano, un no ­stro antenato probabilmente peloso, non bello e di profes ­sione cacciatore, disegnò sulle pareti scabre di una caverna, nella Spagna del Nord, una scena di caccia. Ma ritraendo, con i suoi rozzi graffiti, bisonti e cinghiali, volle dare l’im ­pressione che essi si movessero e non trovò di meglio che disegnare ad ogni animale tante gambette l’una accanto al ­l’altra, così che, osservando il lavoro, si avesse l’impressio ­ne che gli animali stessero correndo. Mentre attuava que ­sta idea, il genialissimo antenato era ben lungi dall’immaginare che egli sarebbe stato un giorno citato come un precursore, purtroppo anonimo, del cinematografo e, per essere più precisi, dei cartoni animati.
Doveva trascorrere molto tempo ancora, secoli e secoli, prima che a qualcuno venisse l’idea di applicare in pratica il noto principio della persistenza delle immagini nella reti ­na dell’occhio, principio sul quale è basato il cinematogra ­fo. Coloro che per i primi si dedicarono ad esperimenti del genere furono chiamati maghi e stregoni, e, dati i tempi invero poco favorevoli alla magia bianca o nera che fosse, minacciati di rapida e brutta morte se persistevano nei loro diabolici esperimenti. Verso la metà del 1600 girava in Eu ­ropa un danese, tale Thomas Walgenstein, il quale presen ­tava al pubblico visioni di una lanterna magica di sua invenzione, chiamata « lanterna terrorizzante », nome che pa ­reva fatto apposta per incoraggiare i solleciti Padri dell’In ­quisizione a mettere sottochiave l’incauto inventore. Non possiamo dirvi se il signor Walgenstein morisse nel suo let ­to piuttosto che su un rogo di legna ben stagionata: possia ­mo però assicurarvi che dovettero trascorrere circa centocinquant’anni prima che fossero compiuti sensibili passi sulla via del cinematografo. Esporvi tutte le fasi complicatissime attraverso le quali si giunse a realizzare compiutamente l’idea sarebbe arduo e, non è escluso, anche alquanto noio ­so. Vi basti sapere che, cessato il pericolo di finire strango ­lati per mano del boia e, alla meno peggio, nella buia cella di una segreta, gli scienziati si applicarono con zelo allo studio dei problemi relativi alla riproduzione delle imma ­gini in movimento. Occorse l’invenzione della fotografia, dovuta al signor Giuseppe Niceforo Niepce, e quindi quella della celluloide, e, finalmente, nel 1889, quella della pelli ­cola cinematografica vera e propria, larga 35 millimetri, a perforazioni laterali, tal quale come quella usata oggi. Nel corso degli studi, gli ostinati ricercatori, a costo di apparire un tantino stravaganti, si dedicarono a singolari esperienze. Un certo Muybridge, americano, per analizzare il movimen ­to delle gambe di un cavallo, collocò una serie di venti ­quattro macchine fotografiche equidistanti, le cui lastre venivano a mano a mano impressionate via via che il cavallo correndo strappava le ventiquattro cordicelle che facevano agire gli otturatori delle macchine fotografiche. Che pazien ­za, amici miei! Non solo, ma qualche anno dopo, un signore inventò il fucile fotografico che consentiva la ripresa di dodici fotografie al secondo. Con questo fucile egli si ap ­plicò ad esaminare il movimento degli arti di un uomo che camminava. Per essere sicuro di fare le cose a modo, il nostro inventore prese un ometto e gli fece indossare una specie di tuta nera, sulla quale aveva disegnato meticolosa ­mente le ossa di uno scheletro umano. In questo modo egli ritrasse, con soddisfacenti risultati, la passeggiata alquanto macabra di uno scheletro in marcia su uno sfondo nero.
Naturalmente ogni ricercatore si preoccupava di dare alla propria invenzione un nome originale. Per questa ra ­gione gli antenati del cinematografo si chiamarono via via Ruota vivente, Tamburo magico, Cinetoscopio, Zoetropio, Prassinoscopio, Coreutoscopio, Bio-fantascopio, Zooprassinoscopio (… cara, vogliamo andare allo Zooprassinoscopio, stasera?), Vitascopio, e, finalmente, Cinematografo, detto poi brevemente e confidenzialmente Cinema.
L’atto di nascita ufficiale del cinematografo porta la da ­ta del 15 febbraio 1895, giorno in cui i fratelli Luigi e Au ­gusto Lumière ottennero il brevetto per la loro invenzione. Quel giorno l’anima del nostro antenato peloso si fregò le mani soddisfatta e, finalmente, se ne andò a riposare in pa ­ce. Il bisonte poteva galoppare davvero.
Ma con la nascita ufficiale dell’apparecchio cinemato ­grafico, soltanto una parte del programma era stata realiz ­zata. Perché il cinema diventasse quello che oggi è, occorre ­va che uscisse dal chiuso dei laboratori e fosse presentato al pubblico. Occorreva, in altre parole, che diventasse spetta ­colo. E ciò accadde, per essere esatti, la sera del 28 dicem ­bre 1895, in una sala di Parigi. Da quel giorno ha inizio la storia del cinema, ed è per questo che a tanto memora ­bile avvenimento dedicheremo il prossimo capitolo.

LA SERA DEL 28 DICEMBRE

II signor Clément Maurice, l’uomo che si era assunto l’impegno di organizzare la prima serata cinematografica, guardò l’orologio. Il momento d’iniziare lo spettacolo era giunto e, tuttavia, molti posti, dei centocinquanta disponi ­bili nella sala, erano ancora vuoti. Nonostante il cartellone esposto all’esterno del Grand Café, al numero 14 del Bou ­levard des Capucines, pochi spettatori s’erano lasciati in ­durre a scendere nel « Salone indiano », al seminterrato, do ­ve i signori Augusto e Luigi Lumière presentavano per la prima volta al pubblico la loro creatura, il cinematografo.
Il proprietario del caffè, che dopo tante insistenze s’era deciso a concedere l’uso della sala, gettò un’occhiata e cal ­colò dal numero dei posti venduti, l’incasso della serata, e in cor suo si rallegrò. « L’unico che ha fatto un buon af ­fare sono stato io! », disse a se stesso. Infatti, nonostante le argomentazioni del signor Lumière e del Maurice, egli non aveva ceduto un centesimo. Figurarsi : il signor Lumière gli aveva offerto il venti per cento degli incassi.
– No, no: – aveva detto il furbo proprietario, pri ­mo esemplare umano della specie degli esercenti di cine ­matografi – niente percentuale. Perché dovrei rischiare, io? Datemi trenta franchi al giorno d’affitto, e avrete il mio « Salone indiano » a disposizione. Trenta franchi, prezzo fisso, non un centesimo di meno…
La sera del 28 dicembre 1895, il signor Luigi Lumière, all’inizio del primo spettacolo, aveva incassato trentacinque franchi. Il proprietario del caffè che aveva avuto ragione di congratularsi con se stesso, soddisfatto, prese posto nell’ul ­tima fila delle sedie. La sala si fece buia, la proiezione cominciò.
In mancanza di didascalie, lo stesso signor Lumière pre ­sentava ad alta voce i suoi film: L’innaffiatore innaffiato, L’arrivo d’un treno in stazione, II fabbro, La pesca dei pe ­sci rossi, La demolizione di un muro, La via della Repub ­blica di Lione, La colazione di Bebè, II mare in tempestai La distruzione delle erbacce, II signor Lumière e il gioco ­liere Trewey giocano alle carte, L’uscita degli operai dalle officine Lumière. Ogni film era lungo circa diciassette me ­tri e la proiezione completa non durava più di venticinque minuti.
Gli spettatori, dapprima perplessi, poi meravigliati e in ­fine conquistati, vollero congratularsi con gli inventori. Lo spettacolo era stato davvero stupefacente. Specialmente il mare in tempesta, con quelle onde impressionanti che sem ­bravano vere. Ma già: erano vere. Vero era il treno che entrava nella stazione, con i viaggiatori che scendevano dal ­le vetture, vero era il fabbro che batteva la mazza sul ferro incandescente, vero era il comicissimo innaffiatore, che, vit ­tima d’uno scherzo, rimaneva innaffiato… Un prodigio insomma, quale nessuno in quel secolo, che pure aveva visto nascere le più sensazionali invenzioni, avrebbe osato im ­maginare. La sola cosa, ecco, che non convinceva molto, era il nome un po’ difficile a pronunziarsi col quale era stato battezzato il prodigio: « cinematografo ». Che diavo ­lo voleva dire?
Due giorni dopo tutta Parigi non parlava che del cine ­matografo. La gente ne diceva mirabilia, i giornali ne tessevano le lodi definendolo « una meraviglia fotografica ». E centinaia di persone si diressero verso il Grand Café al Boulevards des Capucines, tanto che, a un certo punto, la polizia dovette stabilire un servizio d’ordine. Fu allora che il signor Maurice, organizzatore degli spettacoli, co ­minciò a rallegrarsi: le proiezioni continuate permetteva ­no l’ingresso a 2.000 – 2.500 spettatori al giorno. A venti soldi a biglietto, detratti i trenta franchi per l’affitto della sala, restava un discreto margine. Però, chi sa per quale motivo, il proprietario del caffè aveva perduto il suo buon umore.
Il cinematografo, dunque, era ufficialmente nato. Ma, come succede sovente in simili casi, nessuno e forse nem ­meno il premuroso genitore, si rendeva conto degli sviluppi che avrebbe avuto l’invenzione. Per i primi tempi il cinema fu considerato uno spettacolo degno dei baracconi da fiera, come la donna barbuta e l’uomo serpente, una specie di me ­raviglia da pubblico di periferia, quel pubblico credulone e facile agli entusiasmi che non si stancava mai di ridere alla disavventura dell’innaffiatore innaffiato.
La sola preoccupazione del signor Luigi Lumière fu quella di rinnovare rapidamente l’assortimento delle sue pellicole. E per questo egli, dopo aver sfruttato per quan ­to possibile gli argomenti che aveva a portata di mano, spe ­dì un suo operatore in Spagna, con l’incarico di cogliere le più interessanti scene dal vero. Primo operatore cinemato ­grafico viaggiante, fu il signor A. Promio, un collaborato ­re di Lumière.
Egli partì, con la sua brava macchina da presa, un po’ commosso e insieme preoccupato, nei primi giorni del 1896. Ma il telegramma che gli giunse da Lione, dove Lumière aveva sviluppato i primi rotoli di pellicola, gli dette fidu ­cia e coraggio. E Promio proseguì con zelo il suo lavoro, perché il pubblico impaziente, a Parigi, reclamava nuove storie e sempre nuove storie.
A Madrid, come Promio raccontò poi nelle sue memorie, il cinema fu la causa indiretta d’una piccola rivoluzio ­ne a Palazzo Reale.
L’operatore aveva chiesto alla regina reggente il permesso di riprendere nelle caserme e sui campi di manovra alcune scene di evoluzioni di reparti di fanteria e cavalle ­ria. Il permesso gli fu graziosamente concesso. Ma quando si trattò di riprendere l’artiglieria, Promio chiese a un ufficiale superiore di far sparare i cannoni. Sarebbe stato un pezzo magnifico. Ma l’ufficiale, scandalizzato, disse che mai avrebbe osato trasmettere alla sovrana una richiesta del ge ­nere. Il bravo operatore non si sgomentò e insistè a tal pun ­to che, due giorni dopo, la regina fece mettere a sua dispo ­sizione una batteria di sei cannoni che avrebbero sparato a salve solo per lui. Gli ufficiali spagnoli che dovettero ese ­guire l’ordine si domandavano con stupore quale poteva es ­sere la ragione d’una così aperta violazione alle tradizioni II cinematografo, insomma, aveva una grande influenza sui sovrani.
Il bravo Promio continuò il suo giro del mondo: fu a Londra, dove riprese i funerali della regina Vittoria, a Stoccolma, a Bruxelles, in Turchia, dove la sospettosa polizia del feroce Abdul-Hamid minacciò di rovinargli il lavoro, fu in Italia, dove, a Venezia, lasciandosi trasportare dolcemente   dalla gondola,   gli venne per la prima volta l’idea della fotografia panoramica in movimento… Ma la più curiosa delle avventure fu certamente quella che gli capitò a Brema, in Germania.
Una domenica, nel pomeriggio, Promio si trovò nella necessità di caricare il suo apparecchio da presa. I foto ­grafi erano chiusi ed egli non disponeva d’una camera oscura. Che fare? Finalmente notò un negozio aperto, quello d’un fabbricante di bare, che, evidentemente, non rispettava il riposo festivo. Promio ebbe un’idea magnifica: senza perdere tempo corse all’albergo, prese la pellicola vergine e tornò dal negoziante di bare. Spiegata la sua situazione, ot ­tenne dal volonteroso negoziante il permesso di usare, qua ­le camera oscura, una bara di notevoli proporzioni. Cori ­catosi sul fianco sinistro, nell’interno della cassa, fece ap ­plicare il coperchio. E in quella camera oscura improvvisata il cambio della pellicola ebbe luogo nel migliore dei modi.

Il cinematografo, figlio di Lumière, era appena nato e compiva i primi passi, quando, poco lontano, in Italia, ap ­parve il primo concorrente. Fu un concorrente, è vero, sfor ­tunato, che non ebbe lunga vita. Ma la sua breve storia merita d’essere conosciuta, anche perché, a somiglianza di quanto aveva fatto Lumière, la prima pellicola italiana mo ­strò al pubblico attonito « L’arrivo del treno alla stazione ».
Fu il signor Italo Pacchioni, un fotografo di Milano, che, dopo aver visto nel 1895 a Parigi gli esperimenti di Lumière, tentato invano d’ottenere dall’inventore francese un apparecchio, se ne tornò a casa e, a memoria, con l’aiu ­to del fratello Enrico e del meccanico Veronelli, costruì un apparecchio da presa-proiezione e con quello si mise a gi ­rare i primi film. Fotografò l’arrivo del treno e c’è chi assicura che il risultato fu molto superiore a quello francese. Poi realizzò piccole scenette familiari, con cani, gatti e pap ­pagalli, e una Battaglia di palle di neve al Parco di Milano, che per poco non rischiò di rovinargli per sempre l’appa ­recchio. I suoi film, lunghi anche quaranta metri, cominciò a proiettarli in un baraccone della fiera di Porta Genova, una strana costruzione che sembrava una villetta campagnola, sulla quale un sorridente Meneghino additava uno stendardo bianco che recava scritto a lettere enormi: « Ci ­nematografo ».
Produttore,   operatore,   esercente,     il   signor Pacchioni era davvero uomo fertilissimo d’idee. Gridava i titoli dei suoi film da un finestrino praticato nella cabina, non solo, ma un giorno tentò anche di dare allo spettacolo un degno accompagnamento sonoro, mettendo insieme una piccola banda musicale composta di elementi raccogliticci.
Più che al genere documentario, Italo Pacchioni si de ­dicò alle scene comiche. Voleva far ridere gli spettatori, il pioniere del cinema italiano, convinto che valesse meglio ridere che piangere o star seri. Ma non ebbe fortuna. La genialità non gli faceva difetto: mancavano i mezzi, piut ­tosto. O forse gli mancava quello spirito d’avventura che gli altri possedevano e che pareva indispensabile a lievitare le imprese del cinema. Ed egli rimase fuori dalla grande competizione e fu presto dimenticato.
Il primo film di Lumière: L’arrivo del treno in stazione, fu proiettato in Italia, a Orvieto, nel 1901. L’esercente, non conoscendo altro mezzo, unì i vari pezzi di pellicola con spilli!

Tra i molti che avevano assistito con curiosità, magari non priva di una certa diffidenza, ai primi felici esperimenti del nuovo prodigio, c’era un giovanotto parigino che un giorno si recò dal signor Lumière e gli propose di acqui ­stare la sua « macchina » per ventimila franchi. Era una somma discreta, a quei tempi, ma il signor Lumière, per sue ragioni particolari, rifiutò. Non per questo l’intrapren ­dente giovanotto si arrese: quel giocattolo lo attirava stra ­ordinariamente ed egli non si dette pace finché non ne eb ­be uno. In pochi mesi spese la bellezza di centoventimila franchi per acquistare macchine, pellicole e accessori ed attrezzare un locale adatto a divenire un teatro di posa. Abbandonate di punto in bianco le sue precedenti occupazioni, il giovanotto si dedicò con entusiasmo alla nuova scoperta di cui nessuno poteva prevedere gli sviluppi.
Il giovanotto intraprendente ed entusiasta si chiamava Georges Méliès e, particolare non privo d’importanza, era molto ricco. Nato a Parigi nel 1861, figlio d’un grosso in ­dustriale di calzature, aveva fatto anche un buon matrimo ­nio e disponeva quindi d’un solido capitale in luigi d’oro. Ma, invece di dedicarsi alle scarpe paterne, cominciò ben presto ad occuparsi di arte e di meccanica, e, in modo par ­ticolare, d’illusionismo. Divenne impresario teatrale, e fu tanto abile e accorto da aumentare ancor più le sue ricchez ­ze. A questo punto, essendo apparso il cinematografo, egli si lanciò senza esitazioni verso la nuova scoperta che rivo ­luzionava l’arte dello spettacolo. Spiegando un’attività straordinaria, divenne produttore, attore, scenografo, foto ­grafo e produsse un grande numero di film, in diretta concorrenza con i fratelli Lumière. Ma la sua grande tro ­vata, quella che lo ha reso giustamente celebre, tanto da farlo considerare tra i pionieri del cinema, fu quella del trucco fotografico, per la prima volta applicato al cinema. Esperto illusionista e prestigiatore, egli adattava al film i segreti della sua magica scienza. Uno dei primi film di grande successo era quello in cui si vedeva la sparizione im ­provvisa e la ricomparsa di una signora che passeggiava in una piazza di Parigi. Era un trucco fotografico elementare, ma il merito di Méliès consisteva nell’averle ideato e pra ­ticato per la prima volta. Da quel momento si dedicò ai trucchi, e in pochi anni inventò tutti gli elementi della mo ­derna tecnica cinematografica, dalla sovraimpressione al fondù, alla dissolvenza, alla sostituzione. I suoi brevi film più famosi, che ancora oggi si possono vedere nelle mostre retrospettive, si intitolavano Magia diabolica, La caverna maledetta, II diavolo gigante, per giungere al celebre Viag ­gio alla Luna, il pezzo che gli procurò fama mondiale.
Ma col successo non vennero i lauti guadagni. Méliès era un uomo geniale ma non aveva il senso degli affari, tanto che, facendo i suoi conti, un giorno si accorse che ci rimetteva. E finì col rimetterci al punto da ridursi in asso ­luta povertà, lui, il milionario Méliès.
Molti anni più tardi, qualcuno scoprì che l’ometto gri ­gio e curvo, che vendeva giocattoli e dolciumi nella stazione parigina di Montparnasse, altri non era che il celebre Mé ­liès. Gli amatori del cinema vollero festeggiarlo e onorarlo come conveniva a un pioniere suo pari, e per un breve mo ­mento Georges Méliès uscì dall’oblio in cui la immeritata sfortuna lo aveva piombato. Ma fu un breve momento: egli era ormai vecchio e malato. Morì il 21 gennaio 1938 in un ospizio per vecchi indigenti, a Orly, presso Parigi.

Intanto il cinema di Lumière, preceduto dall’eco dei trionfali successi europei, aveva varcato l’Atlantico. Fu an ­cora l’infaticabile signor Promio colui che se ne andò, mu ­nito probabilmente delle benedizioni di Lumière, verso il Continente Nuovo, recando in una valigia il neonato pro ­digio. Sbarcato a New York trovò nugoli di giornalisti avidi di notizie, e siccome la pubblicità è l’anima del com ­mercio, Promio concesse interviste a chi le voleva, felice d’aver destato tanto interesse. I quotidiani recavano in pri ­ma pagina notizie e fotografie di colui che era chiamato « The manager of the Lumière’s Kinematograph ». Ma già, dietro il sorriso cordiale e aperto degli americani, si pro ­filava il volto duro e deciso della Concorrenza. E la lotta ebbe inizio senza indugio.


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Bart