CINEMA: I MAESTRI: Da dove provengono i registi?
20 Maggio 2008
[da: Vittorio Calvino, “Guida al cinema”. Prefazione di Vittorio De Sica, Nuova Accademia Editrice, 1954]
Da dove provengono i registi? Il lettore meticoloso, che sa da quali scuole e istituti e accademie escono a ranghi serrati pittori e architetti, scultori e compositori, certamen Âte non ignora che in molti paesi esistono parimenti scuole ed istituti (in Italia il Centro Sperimentale di Cinemato Âgrafia) in cui si possono seguire corsi di regìa. Ma occorre subito precisare che, all’atto pratico, pochissimi sono i re Âgisti che lavorano avendo tra le carte personali un regolare diploma con bolli e timbri. Ad essi non si chiede, in gene Âre, che una sola cosa : che conoscano il « mestiere », ovve Âro, per dirla con le parole di Frank Capra, che possiedano « the story telling faculty », la capacità di raccontare una storia.
Ciò spiega la ragione per cui troverete tra i registi uo Âmini che provengono dalle più diverse professioni ed espe Ârienze e che pure hanno dato un buon apporto alla fabbrica dei sogni. Non si può negare, ad esempio, che Clarence Brown, il regista di Cucciolo, per citare un film, possa considerarsi fra questi. Eppure egli non ebbe mai un diploma in regola, né pensò di procurarselo, quando, per dedicarsi al cinema, abbandonò la grande fabbrica di automobili nella quale lavorava come ingegnere.
E nemmeno ebbero bisogno di diplomi Alfred Hitchcok che, al pari di Karl Ritter, si occupava di pubblicità , né Victor Saville, che era gerente di un cinema, né Frank Ca Âpra, che cominciò a lavorare facendo l’elettricista e il trova Ârobe, né Luis Trenker, che prima di affrontare la macchina da presa era guida alpina e maestro di sci.
Tutte le strade conducono alla regìa, ciò è assiomatico. Non v’è dubbio, però, che le strade migliori sono quelle che, per un verso o per l’altro, si snodano entro i confini di Cinelandia. Ecco perché i più numerosi sono, tra i registi, coloro che provengono dalle fila degli attori, come Erich von Stroheim, come Charlie Chaplin, Lloyd Bacon, Wil Âliam Wellmann, Willy Forst, Veit Harlan, Mario Bonnard, John Cromwell, Gregory Rataff, Conway, Vittorio De Sica, Orson Welles, Julien Duvivier, Frank Borzage, Raoul Walsh, Sam Wood, Ernst Lubitsch e Jacques Feyder. Quest’ultimo, morto nel 1948, apparteneva a una ricca fami Âglia borghese di Bruxelles e il manifestarsi della sua pas Âsione per il cinema aveva suscitato grande scandalo nel Âl’ambiente in cui era stato allevato. Da attore divenne aiuto regista e poi, finalmente, regista.
Innegabilmente l’aver recitato davanti alla macchina da presa ha favorito moltissimo la formazione professionale di quanti sentivano di possedere la rara facoltà di narrare con le immagini, e la forza spirituale e il prestigio necessa Âri a guidare gli altri sul difficile sentiero della recitazione. Questo è il caso di Vittorio De Sica: chi ha potuto seguire il suo lavoro, e osservare con quanta pazienza puntigliosa, con quanto amore, con quanto calore, egli crea i suoi per Âsonaggi modellandoli uno per uno, guidandoli passo passo, non può non sentire che tutto ciò è frutto della sua ricca esperienza maturata in vent’anni di palcoscenico e di teatro di posa.
Il cinema accoglie anche, e non di rado, registi teatrali provati e collaudati dal successo. Appartengono a questa categoria Victor Sjöström, Robert Siodmak, Luchino Vi Âsconti, Rouben Mamoulian, Hebert Maisch, Robert Z. Leonard, per limitarci a pochi nomi.
Altri registi, del pari numerosi, vengono dalla gavetta, se così si può dire di coloro che impararono il mestiere mentre operavano con la macchina da presa (Victor Fle Âming, Gustav Ucicky) oppure dopo avere per anni paziente Âmente lavorato al tavolo di montaggio (Lewis Milestone, Ferdinando M. Poggioli, Leonida Moguy, ecc). Molti an Âcora fecero i primi passi nel cinema come autori di sogget Âti e sceneggiature: è il caso di Augusto Genina, di Howard Hawks, di Tay Garnett, di Renato Castellani, di Billy Wilder, di Helmut Kâuntner, di Luigi Zampa, di Ben Hecht e Mac Arthur, di Antonio Pietrangeli e Carlo Lizzani.
Il giornalismo che, secondo il noto aforisma, conduce a tutto a patto di uscirne, può condurre anche alla regia cinematografica. Non sono pochi, infatti, coloro che, prima d’incollare l’occhio al mirino della macchina da presa, si cimentarono nelle battaglie della penna. Qualche esem Âpio illustre: René Clair, Alessandro Blasetti, Henry Koster, Louis Daquin, Marcel Pagnol, Mario Soldati, Marcel L’Herbier, E. A. Dupont, Luigi Comencini, Giuseppe De Santis, ed infine Carl Theodor Dreyer, il grande regista danese il cui nome è legato a opere maestre del cinema mondiale.
Ciò peraltro non significa che, abbandonate di punto in bianco le primitive occupazioni, nel caso particolare abbandonata la macchina da scrivere o la stilografica, il candidato regista abbia messo subito in scena il suo primo film. Al pari dell’Apprendista Stregone, chi vuole impara Âre il mestiere deve pazientemente mettersi al fianco di un maestro e compiere il periodo di noviziato, talvolta lungo e sterile, sotto le spoglie dell’« aiuto-regista ». La pratica vale più della grammatica: il vecchio detto popolare è buono anche per il cinema.
Gli scenografi, gli architetti, i pittori, hanno dato an Âch’essi un buon contributo alla regìa. Citiamo fra i tanti Claude Autant-Lara, Roy Del Ruth, Fritz Lang, Jean Renoir, Alberto Lattuada, Alberto Cavalcanti, e, figura di grandissimo rilievo, Sergio Mihailovic Eisenstein, il regista russo di fama mondiale, scomparso nel 1948.
Figlio di un architetto, nato a Riga nel 1898, Eisenstein fu avviato dal padre allo studio dell’ingegneria, quando la rivoluzione lo colse in pieno fervore di studio. Abbandona Âta l’Università , si dedicò al teatro come scenografo dap Âprima e poi come regista. Passato al cinema con grande entusiasmo e smisurata fede, dopo alcuni notevoli saggi condusse a termine in tre mesi – tre mesi dalla stesura del soggetto alla prima visione – il film per il quale è universalmente conosciuto, L’incrociatore Potemkin, del 1925.
Eisenstein, al quale si devono alcune opere fondamen Âtali di teorica del cinema, è stato – con Vsévolod Pudovkin, con Alessandro Dovcenko, Sergio Guerassimof, Gregorio Alexandrof, Sergio Vassiliev – l’animatore del ci Ânema sovietico. Si debbono a lui, lavoratore formidabile, opere di grande significato e valore artistico, tra le quali citeremo Alessandro Newsk e Ivan il Terribile, grandiosa rievocazione dello zar leggendario, condotta a termine nel 1944 dopo due anni di lavoro, con un impiego imponente di uomini e di mezzi.
Sessantanni or sono nasceva a Bielefeld, una cittadina della Westfalia, in Germania, un poeta del cinema: Frie Âdrich Walter Murnau. Non è possibile chiudere questo ca Âpitolo senza ricordarlo. Con l’omaggio alla sua memoria, vogliamo rendere omaggio a tutti i registi, i morti e i vivi. Tutti li accomuniamo affettuosamente in questo ri Âcordo, coloro che hanno dato, che danno, che daranno intelligenza e anima, sincerità e passione, sensibilità e gu Âsto, alla fabbrica dei sogni. A coloro che furono fedeli al loro ideale, a coloro che non riuscirono a manifestarlo. A coloro che chiusero la carriera, a coloro che ardono dall’impazienza di iniziarla.
Laureato in lettere all’Università di Heidelberg, Mur Ânau si dedicò al teatro e divenne allievo prediletto del grande regista tedesco Max Reinhardt. Il cinema lo attrasse ben presto, come il solo mezzo che potesse permettergli di esprimere compiutamente il mondo di idee e di immagi Âni che gli ribolliva dentro. Nel 1921 realizzò il suo primo film notevole, un’opera agghiacciante, terrificante, Nosferatu il vampiro, nella quale dimostrò di saper usare in modo originale la tecnica del cinema. A questo film fece seguito L’ultimo uomo interpretato da Emil Jannings, satira amara dell’uomo-in-uniforme.
Non piacevano a Murnau i temi facili: egli voleva scavare, esplorare, scoprire. Gli uomini e i loro sentimenti lo attiravano, ed egli li osservava e li studiava col rigore del chirurgo e la sensibilità dell’artista, cercando di fissar Âne, attraverso le storie che raccontava, l’essenza intima de Âfinitiva.
Nascono così Tartufo e Faust, due tappe delle esperien Âze feconde del regista, due opere significative nella sua evoluzione artistica.
Nel 1926, quando il signor Mayer della Metro compi un viaggio in Europa, scoprì e si portò via alcuni tra i mi Âgliori elementi del cinema tedesco. Ebbe buon fiuto: co Âloro che partirono in quell’anno furono Greta Garbo, Mau Ârizio Stiller e F. W. Murnau.
In America Murnau realizzò Aurora. Tratto da una no Âvella di Sudermann, il film narrava la semplice vicenda di tre personaggi, un uomo e due donne. L’uomo incontra una fanciulla, se ne innamora e la sposa. Un’altra donna entra nella sua vita e irretisce l’uomo al punto da far sorgere in lui l’idea di sbarazzarsi della moglie, facendola annegare durante una gita in barca. Ma un temporale si scatena e l’uomo sente ridestarsi la tenerezza e l’amore per la moglie. L’aurora che sorge li trova nuovamente uniti. Janet Gaynor, George O’ Brien, Margaret Livingston furono gl’interpreti eccellenti di quest’opera, nella quale Murnau aveva, una volta ancora, compiuto una poetica analisi dei sen Âtimenti umani.
Dopo Aurora ecco I quattro diavoli e poi Nostro pane quotidiano, due film commerciali realizzati, sia pure con proprietà di linguaggio, per obbedire alle esigenze dei pro Âduttori. E finalmente: Tabù.
È il tempo, quello, della passione per le isole dei mari del Sud. La letteratura, la pittura, la musica e poi il cine Âma alimentano questa moda che trae le sue origini dalla fortuna dei libri di Melville e di Stevenson e dall’accesa curiosità per i quadri di Gauguin. Murnau, accompagnato da Flaherty, che era stato collaboratore di Van Dyck nella realizzazione di Moana, s’imbarca su un bianco veliero e parte alla ricerca di un’isola nuova ancora sconosciuta ai turisti, non contaminata da quella che si usa chiamare « civiltà ».
Dopo un lungo, avventuroso viaggio, il regista sbarca con i suoi tecnici a Bora-Bora, piccolo atollo dell’arcipela Âgo polinesiano. E lì, con pazienza e con amore, sceglie fra gl’indigeni i suoi interpreti, una fanciulla sedicenne, un giovane pescatore, un vecchio. E in sei mesi realizza il suo capolavoro: Tabù.
La sera del 14 marzo 1931, mentre esce dal teatro do Âve ha presentato in prima visione la sua opera e ancora l’aria risuona degli applausi calorosi, un’automobile lo travolge. Morto a quarant’anni, non ha ancora pace. La sua bara compie il viaggio di ritorno verso la Germania e vie Âne sbarcata nel porto di Amburgo, dove, a causa delle for Âmalità burocratiche, rimane sulla banchina per qualche giorno esposta alla pioggia, al cattivo tempo, nel luogo stesso in cui molti anni prima egli aveva girato, tra l’in Âfuriare della tempesta, le scene terrificanti di Nosferatu il Vampiro.
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