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CINEMA: I film visti da Franco Pecori

10 Maggio 2008


[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Slipstream – Nella mente oscura di H.

Slipstream
Anthony Hopkins, 2007
Anthony Hopkins, Stella Arroyane, Christian Slater, John Turturro, Michael Clarke Duncan, Lisa Pepper, Christipher Lawford, Kevin McCarthy, Aaron Tucker.

La questione della  natura del cinema, della sua consistenza specifica nasce, se vogliamo, prima ancora del cinema. E non è un “prima temporale”, almeno non nel senso del tempo lineare (sostanziale attesa del futuro)  “invetato” da Agostino da Ippona. È la questione della definizione teoretica del passaggio dalle immagini prodotte dalla percezione al linguaggio e alle sue figure. In sintesi, è la distanza tra “realtà” ed espressione a produrre gli insiemi di significati a cui diamo, di volta in volta, il senso in funzione delle nostre capacità/possibilità. Proprio pensando al cinema, alla sua nascita, già nel 1971 Jean-Louis Comolli sviluppava sui Cahiers du cinéma una riflessione in sei puntate, intitolata Technique et idéologie, che “smascherava” il fondamento ideologico della “prospettiva” quattrocentesca (Brunelleschi), falso principio sulla base del quale si arriva fino  allo “sguardo” fotografico e quindi cinematografico. Quindi smontaggio del realismo con tutto ciò che ne consegue. Per esempio, la riconsiderazione critica del cinema americano, dei generi classici, della relazione di essi con l’opera degli “autori”. Dal punto di vista espressivo,  si può  fissare convenzionalmente lo svolgimento del  tema in diversi modi, a partire dalla doppia faccia Lumière/Méliès fino a provocazioni più  spiccate, “americane”, come l’Empire di Andy Warhol (8 ore di inquadratura fissa dell’Empire State Building di New York), che nel 1964 esemplificava nella durata della proiezione il problema della cattura della “realtà” e del suo rapporto con l’immaginario. E via dicendo, si pensi alle varianti che i diversi modi del montaggio possono determinare sulle variazioni del senso. Più ci si inoltra nell’esemplificazione più si scopre, per paradosso, che si ritorna al punto di partenza, o meglio a quella partenza che non c’è: la natura del cinema appartiene alla natura del linguaggio e non è specifica, non tanto da poter essere fissata una volta per tutte. Il film di Hopkins è molto più semplice e in-genuo di quel che può sembrare. E’ frutto di uno  sfogo “primitivo”. Non è “oscuro” come l’Hannibal di Jonathan Demme o di Ridley Scott. Lì l’oscurità restava interna alla metafora  del personaggio, non era mostrata (non avrebbe potuto mostrarsi senza perdersi!). Hopkins, da regista, dimentica la complessità di Hannibal e tenta di farci vedere direttamente, di getto,  il mistero della realtà, l’illusione della vita, del sogno, come se fosse la prima volta per il cinema. Ma così la complessità si riduce a complicazione. La metafora è sfondata e in-sensata. Il protagonista, lo sceneggiatore Felix (Hopkins) che va in crisi quando si accorge che i suoi  personaggi gli entrano nella vita e che non riesce più a governare lo scorrere del tempo, vorrebbe trasferirci la sua “eccezionale” esperienza, ma inevitabilmente, proprio per la natura del cinema, non riesce che a  compilare la confusione, a tradurla in stile (montaggio frammentato, flash ed ellissi, fluidità e segmentazione). Sicché l’ipotesi più personale si traduce in stereotipo dell’eccezione.

Mongol

Mongol
Sergei Bodrov, 2007
Tadanobu Asano, Honglei Sun, Khulan Chuluun, Odnyam Odsuren, Aliya, Ba Sen, Amadu, Mamadakov, Ba Yin, He Qi, Sun Ben Hou, Ji Ri Mu Tu.

Com’è buono Genghis Khan! Il  siberiano Bodrov  – Il prigioniero del Caucaso (1997), Decisione rapida (2001),  Il bacio dell’orso (2002) –  ha realizzato le riprese nelle sterminate steppe e nelle foreste dove vissero le primitive  tribù mongole, in Cina, in Kazakhstan e  nell’attuale Mongolia, prima di venire riunite in un unico impero dal  khan Temujin (1162-1227); ha studiato la vera storia dei mongoli che non aveva potuto conoscere da ragazzo, nelle scuole dell’Unione Sovietica; è andato a Ulan Bator, la capitale della Mongolia, a chiedere  al capo  sciamano il permesso di fare il film; ha dato il ruolo del protagonista al giapponese Tadanobu Asano perché è un grande attore (Zatí´ichi)  e perché i giapponesi credono, come anche i Kazaki e i coreani, che Genghis Khan sia stato in realtà  uno di loro; ha rispettato le usanze e le credenze della gente ancora nomade  nei più sperduti  territori; ha  ottenuto la collaborazione di centinaia di “comparse” per le scene di battaglia a cavallo; ha “catturato” le voci di un complesso folk (curiosa l’assonanza con certi cori dell’antica Sardegna) per la suggestiva  colonna composta poi dal finlandese Tuomas Kantelinen. Insomma, è stata  seria l’intenzione di restituire alla fama del grande condottiero, dipinto dai russi dominati per due secoli come il più feroce dei conquistatori, una più  giusta dimensione  storica.  E  la contaminazione  della primaria  fonte d’autore ignoto, il poema in versi La storia segreta dei Mongoli ritrovato in Cina nel XIX secolo, con lo  studio dell’illustre  storico Lev Gumilev (il suo libro La leggenda della freccia nera attenuava la “ferocia” di Genghis Khan)  sembra essere avvenuto in maniera indolore, preservando cioè  al film la dignità di una verosimiglianza progressiva. Nulla a che vedere con “cose” come Gengis Khan il conquistatore (Henry Levin, 1965, con Omar Sharif) e   simili  – una ventina di approssimazioni spettacolari dagli anni ‘50 ad oggi. Nella superproduzione (Germania/Kazakhstan/Russia/Mongolia – 15 milioni di euro)  che racconta la mitica ascesa al potere  di Temujin  a partire dall’età di 9 anni e dal contrasto paterno con la tribù rivale dei Merkit, l’elemento spettacolare non manca certo, ma Bodrov  attenua  il rischio  di un cedimento troppo marcato  verso tipologie post-western (i grandi spazi, i cavalli, gli scontri anche rallentati quasi alla Peckinpah) con una tensione antropologica nello sviluppo della sceneggiatura e nel tratteggio dei caratteri. L’amore per Borte (l’esordiente Khulan Chuluun), la donna che ha scelto fin da bambino  come sua moglie, porterà Temujin a combattere per riconquistarla, trasgredendo princìpi che affondano nella tradizione: «Non dire a nessuno che andiamo in guerra per una donna », lo avverte Jamukha (Honglei Sun, uno degli attori cinesi preferiti di Zhang Yimou), suo fratello di sangue e poi nemico acerrimo. L’amore è centrale nella vita del futuro Gran Khan, il quale, con Borte,  arriva a scoprirsi in accenti “romantici” del tipo: «Senza te non posso vivere ».   Ma ancora più importante, dal punto di vista storico, è l’idea di dare a tutti i  mongoli una sola legge,  regole più “umane” in battaglia, rispetto per le famiglie, proibizione della tortura. Il film è stato già nel programma della  Festa del cinema di Roma 2007.


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Bart