CINEMA: I film visti da Franco Pecori31 Maggio 2008  Sangue pazzoSangue pazzo Pensava  di fare finalmente  il film che non gli era mai riuscito di fare, Sanguepazzo, ma il sogno restò tale. Nato a Costantinopoli, nel 1906, da un commerciante palermitano e da una ricca libanese, il tenente della  Decima Mas Osvaldo Valenti fu  “giustiziato” a Milano dai partigiani,  all’alba del  30 aprile 1945,  cinque giorni dopo la Liberazione, insieme alla sua amante,  Luisa Ferida. Era stato un attore famoso negli anni del fascismo, scelto da registi come Bonnard, Palermi, Blasetti, Gallone, Mattoli, Chiarini. Aveva condotto una vita dissoluta, da giocatore  cocainomane e morfinomane. Aveva aderito  alla Repubblica di Salò. La Ferida ne aveva condiviso  da attrice diva la fama e da donna “perversa”  le sorti private. Giordana,  a 5 anni  dal premio ottenuto a Cannes per  La meglio gioventù (sezione Un certain regard), continua a “indagare” diversi aspetti della nostra  realtà storica e si presenta per la terza volta sulla Costa Azzurra (nel 2005, Quando sei nato non puoi più nasconderti). Il carattere di indagine/denuncia, andato progressivamente attenuandosi dopo I cento passi (2000), in quest’ultimo lavoro ha lasciato il posto ad una specie di imbarazzo compromissorio, che spalma sui personaggi come un velo di turbamento ideologico, annacquandone la forza espressiva e confondendone le motivazioni. La complessità situazionale (il momento di trapasso dal fascismo alla Liberazione) non riesce ad entrare nel film e vale solo per chi già la conosce. Sicché i due protagonisti risultano prigionieri di un ruolo imposto, che non prende corpo. La Bellucci attenua i toni del divismo e della sregolatezza fino ad azzerarsi in un sussurro persino sbrigativo. Zingaretti si salva “di mestiere” da un impaccio esterno alla sua bravura di attore. E la regìa di Giordana si dilunga in estenuati prolungamenti dei tempi nel vano tentativo di costruire una metafora. Non basta l’amara ironia finale di Lo Cascio («Abbiamo fatto giustizia »), il partigiano che ha eseguito gli ordini ed ha  posto il cartello «giustiziati » accanto ai corpi di Valenti e Ferida  crivellati di colpi, non basta a recuperare il senso, né della tragica fine di una coppia di divi “pazzi” espressione di un’era, né dello spettacolo misero di un’era che se ne va. Il divoIl divo Un altro “amico di famiglia”?  Il paragone ci può stare, fatte le debite differenze e proporzioni tra il precedente film di Sorrentino, L’amico di famiglia appunto (2006), e questa sarcastica e, in diverso modo,  surreale “biografia” di Giulio Andreotti.  Se l’usuraio Geremia (il bravo Giacomo Rizzo) riteneva,  perfino con una punta di esistenzialismo,  di svolgere nell’Agro Pontino  un’attività socialmente utile, Andreotti (il bravissimo Toni Servillo), fermo e chiuso nel suo potere “divino” (poté dire a Papa Wojtyla: «Se permette, Santità ,  Lei non conosce il Vaticano ») sembra recitare – e forse ne è convinto – il ruolo di  chi, per la salvezza del suo Paese (salvezza dal comunismo, progressivamente incombente dal dopoguerra all’assassinio di Moro), sopporta su di sé l’enorme peso del Male necessario. Assediato da quotidiane emicranie, il Divo  si fa forza con una serie infinita di battute di spirito, che vanno via via a formare un cumulo di spunti riflessivi, tanto efficaci nella funzione impermeabilizzante verso l’orpello politico (la sostanza  è invece il suo vero nutrimento) quanto inconsistenti, forse, nel loro effettivo portato filosofico.  L’ambiguità è insopprimibile, pena la caduta del mito:  favola della quotidianità assunta nel cielo degli affari e degli intrecci di sopravvivenza, scambiati per  strategie di Stato. Il regista costruisce la figura del Divo in chiave simbolica non tralasciando di assisterne la fisicità , con una carica di provocazione insistita fino al rischio della contaminazione universale.  E tuttavia non fermandosi all’indicazione “personale”, per andare invece al di là di Andreotti Giulio, oltre i nomi e i fatti, che pure  l’agenda segnala in rosso scrivendo sullo schermo annotazioni  per un vero e proprio “ripasso” di 50 anni di storia. Al di là , non perché la figura dell’uomo politico italiano  «più importante  dell’ultimo mezzo secolo » debba dissolversi nell’orizzonte grigio dei  silenzi mortali  e delle feroci  invenzioni machiavelliche, ma piuttosto per un respiro stilistico (non sembri una parolaccia), che sappia dare alla rappresentazione la sua forma più degna, di metafora della sofferenza sociale e culturale, cui è costretto tutto un popolo inconsapevole e credente. Da questo profondo dolore nasce lo sbigottimento  per un film che certo non va preso per “neorealistico” – basti pensare alla fotografia di Luca Bigazzi, niente di più lontano dalla (falsa) tradizione “documentaria” del nostro nobilissimo cinema d’autore del dopoguerra.  Il divo  si offre invece  come thriller del mutismo. Quell’uomo, stretto nelle sue spallucce e soffocato dalla montagna di faldoni del suo archivio, è in realtà un oggetto il cui mistero attende di essere indagato, la cui scorza durissima chiede, forse, di venire infranta al di là delle 26 “archiviazioni” della Giustizia ordinaria. Pur nell’orribile sequela di misfatti accadutigli attorno, il Divo  denuncia la propria essenza in forma di mutismo storico, ben oltre le battute di spirito. Ed è questa sensazione terribile che Sorrentino riesce a trasmetterci. Sex and the citySex and the city Contrazione di una serie televisiva (l’omonima Sex and the city, creata da Darren Star). Operazione non semplice. Primo tra tutti il problema della durata delle situazioni. Se diluito in una serie infinita di puntate, il racconto crea, sulla base della fedeltà all’ascolto, partecipazione convinta ai “valori-guida” della storia, ai modelli di comportamento (ammirati o detestati, ha poca importanza) dei personaggi, al loro “destino”, rapportato alla “quotidianità ” della fruizione. Relativamente alla durata può decisamente cambiare il senso complessivo, dell’opera e della “risposta” (feedback) del pubblico. Ridotto a 145 minuti e proiettato in una sala cinematografica, il discorso prende la piega di una vera aggressione, “simpatica” ma non meno invasiva. Fatta salva la bravura delle  quattro protagoniste (Parker/Carrie, Cattrall/Samantha, Davis/Charlotte, Nixon/Miranda) e del regista nel valorizzarne il “fascino” con una continua e spettacolare messa in primo piano della loro presenza schermica, singola e di squadra, in un gioco ammirevole di intescambio situazionale, resta il sincretismo atomico della confezione, l’impatto  deflagrante del prodotto contro universi/platea non necessariamente omogenei. Arriva su di noi, noi italiani noi europei (limitiamoci a distanze più facili da calcolare), una commedia/bomba con un’etichetta inequivocabile, su cui è scritto:  «Contiene “ogni tipo di donna newyorkese” ». Che meraviglia! Vi potete fare un’idea precisa di come si vive nel cuore del mondo progredito! E quindi potete decidere se andare a vivere là o se aspettare che loro, le donne newyorkesi, vengano qui. Ma non sono già qui? Ma la moda di Vogue non è arrivata da noi?  Carrie, che  la frequenta addirittura  da scrittrice, può trovare senz’altro amiche interlocutrici già da ora, che prenda un aereo o che soltanto digiti sul cellulare. Fate attenzione, se il film vi dovesse “prendere” da non lasciarvi più riflettere, a un certo punto verrete avvertiti che «Sì, è una presa in giro! » – già , perché i responsabili del film (lo sapete, il cinema è un lavoro collettivo) non sono così ingenui da credere di poter far passare il giochetto per semplice  realtà . A loro basta che stiate al gioco. D’altronde, pensate se la possibilità della  «presa in giro »  non ci fosse. Insomma, tranquilli e tranquille: chi si deve sposare si sposerà , chi deve avere un figlio lo avrà , chi vorrà coltivare la sua sessualità matura lo potrà fare, ecc. Infatti, l’unica password che non passa mai di moda è ancora una parolina: love. Un film per tutti, da prima serata. Uno spettacolo di benessere. OnceOnce Al suo terzo lungometraggio (November Afternoon, 1977, On The Edge, 2001), l’irlandese Carney accentua la sua scelta di metodo nel senso del cinema d’autore dalle tipiche caratteristiche “indipendenti”, nella concezione e nella fattura. Sceneggiatura tenue e quasi inesistente a vantaggio di un’autonomia dello svolgimento filmico, che di momento in momento produce il proprio senso in funzione di ciò che davanti al cineocchio accade per una sola volta. E’ il mito della “cattura”, se non della “realtà ”, almeno del  “materiale profilmico” più o meno improvvisato e lasciato vivere di per sé. Qui il materiale è dato, essenzialmente, dalla musica (di qualità apprezzabile, tanto da meritare l’Oscar 2008 per la canzone originale) e dai sentimenti di due giovani, le cui storie intime sono colte nel momento del loro incontro casuale, per la strade di Dublino. Due delusioni d’amore che bruciano, due musicisti –  lui (Hansard) chitarra e canto, lei (Irglová)  pianoforte e canto  – che esprimono nella musica le proprie aspirazioni di vita, anche segrete. Lei si ferma ad ascoltare lui che canta  il suo tormento  ai passanti. Qualcosa li attira reciprocamente, una sensazione, una sensibilità artistica, una voglia di comunicare e condividere  la propria condizione. Lui invita lei a seguirlo in sala d’incisione per realizzare un “demo”, poi partirà per Londra in cerca di fortuna. Nulla succede eppure tutto succede, come per ciascuno in ogni momento della vita, unico. Il film è piaciuto molto al pubblico del Sundance Film Festival, che lo ha premiato. Il premio si capisce: in fondo, Once è un film vicino  al pubblico  proprio in senso esistenziale, avendo abbattuto il muro – così sembra – che in genere separa appunto lo spettatore  dalla “lavorazione” cinematografica. Il fatto che la storia sia in qualche misura “vera” non cambia di una virgola la valutazione del film. Conferma tuttavia la bravura di Geln Hansard, uno dei fondatori del gruppo rock irlandese The Frames. AlexandraAleksandra Nessuna prescrizione poetica ha, di per sé,  diritto  di cittadinanza estetica. Il trasferimento è teoreticamente arbitrario. Il russo Sokurov (Premio Bresson a Venezia 2008)  non può fare eccezione.  Al regista di Moloch,  Arca russa, Padre e figlio,  Il sole non piacciono i film sulla guerra: «L’orrore è inesprimibile ». Tuttavia di film sulla guerra se ne sono fatti anche di bellissimi. Nulla è vietato al cinema, come alla letteratura e a qualsiasi forma espressiva. Ciò premesso, la scelta di Sokurov di trattare il tema del conflitto in Cecenia attraverso una sorta di contaminazione “marziana” tra due mondi poeticamente incomunicanti dà risultati di intensissima poesia e di dolorosa denuncia. Alexandra va bene  al di là del riferimento contingente (il Caucaso) per sconfinare nel tema universale dei rapporti umani. Rapporti che non sono e non possono essere sempre uguali in ogni situazione, ma che, proprio mutando le situazioni, tendono ad attingere a quella sorta di “riserva” storica che li riattiva e li riattualizza secondo necessità . Il film è semplicissimo nella struttura. Alexandra (Galina Vishnevskaya, la grande  cantante lirica, vedova del  violoncellista Rostropovic), l’anziana nonna di Denis (Shetvtsov), ufficile dell’esercito russo, va a trovare il nipote nell’accampamento in Cecenia, dove il giovane è operativo. La guerra è a pochi chilometri, ma non si vede. I soldati  passano una loro quotidianità di sopravvivenza, compiendo atti e gesti “normali”. Ma  all’arrivo di  Alexandra tutto sembra divenire strano, incongruo, fantastico perfino. Si percepisce un’astrazione  connotabile non  in immagini “astratte” bensì nella minuzia caparbia dei movimenti e delle impressioni contenute della donna. Alexandra  porta con sé qualcosa di “esterno” in quell’accampamento che improvvisamente è assurdo, inessenziale.  La donna  si adatta a riposare in una baracca polverosa come fosse un rispettabile albergo, dice a Denis: « Sei sporco, lavati », esce dal recinto per andare al mercatino dove le altre donne mantengono vivi i sentimenti di sempre, torna dai soldati e alla loro giornata uguale e  indifferente. Poi Alexandra se ne rivà . La visita è finita in un momento qualsiasi di un giorno di guerra qualsiasi. Denis non è più il ragazzo di una volta. Lodevole la selezione che la società Movimento Film continua a fare nel senso della qualità . Alexandra, dopo  la partecipazione ai festival di  Cannes  e Torino 2007, esce nelle sale  con una distribuzione limitata ad alcune città : Roma, Milano,Torino, Bari, Lecce, Palermo, Padova. L’idea, giusta, è di estendere in seguito la lista. Letto 2314 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||