CINEMA: I film visti da Franco Pecori19 Gennaio 2013 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Cercasi amore per la fine del mondoSeeking a Friend for the End of the World La fine del mondo prima o poi arriverà , resta da stabilire il modo e il quando. Nonostante siamo certissimi che non toccherà a noi di assistere all’evento (i Maya non ci fanno caldo né freddo), l’idea che un bel giorno dai mezzi di comunicazione di massa venissimo a sapere che mancherebbero 21 giorni all’impatto di un asteroide largo 110 km col nostro Pianeta non ci metterebbe allegria. E infatti, saputa la notizia, il povero Dodge (Steve Carell –  A cena con un cretino,  Notte folle a Manhattan,  Crazy, Stupid, Love), agente assicurativo mai stato brillante e ora anche in procinto di essere mollato dalla moglie, mostra un’espressione piuttosto attonita. Mentre d’attorno la gente si scatena in atti di ultimativa insensatezza, il destino si mostra sorprendentemente benevolo proprio con Dodge. A risarcirlo della più grigia e incombente infelicità gli piombano addosso due occasioni positive, l’una in forma di lettera e l’altra in carne e ossa. A scrivergli è nientemeno che Olivia, la ragazza di cui s’innamorò ai tempi della scuola: non gli rimane che precipitarsi a rintracciarla. Ma la seconda occasione è già bella e presente, è Penny, la vicina di casa, ventisettenne alquanto vivace (Keira Knightley –  Orgoglio e pregiudizio,Espiazione,  Seta,  A Dangerous Method). Basterà aiutarla a raggiungere la famiglia prima che sia troppo tardi. Sceneggiatrice drammaturga e cantautrice, Lorene Scafaria, americana del New Jersey, conduce il racconto con grazia e umorismo, quasi mostrandosi ella stessa “sorpresa†dalla straordinarietà dell’evento, perfino imbarazzata in certi momenti dal non poter offrire allo spettatore una soluzione accettabile. La fine dei giorni si avvicina e ai protagonisti non si può regalare che un’ultima soddisfazione, di riconoscere finalmente se stessi, le proprie inclinazioni, le proprie sincerità . Apprezzabile la recitazione “sottotonoâ€, mentre il racconto soffre a tratti di qualche lungaggine. Giusta la chiusura, che non riveliamo e che, trattandosi di commedia, non è del tutto scontata. Django UnchainedDjango Unchained Quentin Tarantino ha detto che non saprebbe scegliere tra Sergio Leone e Sergio Corbucci. Forse nemmeno noi. E non oseremmo proporgli una scelta tra Antonioni e Fellini. Ma forse il regista, appassionato estimatore del “western spaghettiâ€, ha voluto scherzare, chi lo potrà sapere? E però sarebbe interessante se si potesse essere sicuri che dicesse sul serio. A vedere i suoi film, specialmente quest’ultimo  Django, sembrerebbe proprio di sì. Infatti, l’amore per l’oggetto di partenza (il popolare film di Corbucci – 1965 – e tutto ciò che ne consegue, cioè la preferenza per il manierismo di second’ordine) si rivela “falsoâ€, proprio di quel tanto ch’è dimostrato dall’impegno intellettuale necessario alla costruzione del “divertimentoâ€, della comicità passando per il sarcasmo, per esempio. Si sa che il comico, non meno del drammatico e meno che mai al cinema, non scaturisce certo direttamente – come potrebbe? Vale per Chaplin e vale per Franchi-Ingrassia. Quanto alla “popolarità â€, è categoria tutta da analizzare, benché spesso se ne faccia vanto più di un autore di successo – vogliamo dire un giocattolo da smontare e pieno di probabilissime sorprese. Il sospetto è che Tarantino sia un intellettuale sul serio, nonostante il popcorn abbia ormai fatto ingresso in sala perfino alla proiezione per giornalisti e critici del settore. Se n’è avvertito l’inconfondibile grunch-grunch proprio mentre Christoph Waltz faceva senza mezzi termini capire che il nome della negretta Broomhilda (Kerry Washington), non avrebbe mai potuto richiamare alla mente di Leonardo DiCaprio le gesta di una certa valchiria, né tantomeno di Brunilde, virtuosa e dotta figliola del re dei Visigoti, pace a l’anima loro (roba di 1500 anni fa). Serietà , dunque, però segnata da un ritardo, giacché un certo antirazzismo nel western ebbe a far capolino fin dagli ultimi fasti del marchio Ford (John), camminando con i Cheyenne lungo ilGrande Sentiero  nel 1964. Django, si dirà , non è un pellerossa. Già , c’è antirazzismo e antirazzismo. Visto da un nigger del Texas alle soglie della guerra (civile) di secessione (1861-1865), il problema della scarsa considerazione degli schiavi da parte dei padroni terrieri bianchi poteva avere, in effetti, qualche sfumatura violenta in più rispetto alle nostre perduranti (civili) discussioni “avanzateâ€. Quindi Tarantino ritiene di doverci tornare su con buone possibilità di consenso. Dal punto di vista estetico, però, il regista non vede il fondo dell’esagerazione e punta al bagno di sangue spettacolare. A Django è stata sottratta la moglie Broomhilda in una vendita si schiavi. Egli in catene ha la fortuna di incontrare il Dott. Schultz, aggirantesi per paesi e campagne texane alla caccia di assassini per ricavarne taglie. Libertà a Django se lo aiuterà nel mestiere. Due dei ricercati, in particolare, possono portarlo a ritrovare e liberare Broomhilda. La santa/perversa alleanza dei due si orna di facezie salottiere di cultura austro/tedesca e, insieme, di promettenti prestazioni anticipatrici del nigger “liberatoâ€, compiaciuta l’adeguata struttura del prestante Jamie Foxx. Infine la “giusta vendetta†di Django (la D è muta) è una “legittima difesa†che si compie dopo un’attesa di due ore abbondanti, rispettando le esigenze di un pieno risarcimento dell’ovvietà , senza il minimo scrupolo di abbondanza, né di sputafuoco inesauribili, né di spruzzo rubicondo su volti e pareti, né di orripilanti sbranamenti dell’occhio (per occhio)  insaporiti in speziale “giustizia†. Ma niente disgusto, l’autore sta scherzando. Non vedete che lo schiavo negro si appoggia con raffinato vantaggio alle arguzie del compare tedesco, cacciatore di taglie ma anche e forse soprattutto spirito ironico di neutralità egoistica e di letteraria condiscendenza? Ci sono momenti di grande drammaturgia, è vero, dovuti all’entrata in scena di Leonardo DiCaprio. La dolce Broomhilda è nella casa bianca di Calvin Candie, orribile/normale proprietario di Candyland, appunto l’attore che riscatta il congegno di figure e trasforma il set in un luogo di personaggi. Ma è una fase destinata a passare. Tarantino riprende in mano la situazione e riconsegna il dominio della scena allo “scatenamento†del western, in un West che nessuno vorrebbe rivivere, certo, e che piace molto sgranocchiando il popcorn. Qualcosa nell’ariaAprès mai Ancora Trotsky? E Mao? Ancora? Dal Maggio ’68 i dubbi e le discussioni non hanno smesso di essere interessanti e intere biblioteche ne parlano. La Rivoluzione è sempre possibile, se a qualcuno pare. Pare a qualcuno oggi? L’impatto del lavoro di Assayas è principalmente proprio questo: il film va a cadere  nel mezzo di un disinteresse generale, dovuto a mille fattori che complessivamente vanno sotto l’etichetta del cambiamento necessario, delle condizioni troppo diverse che ormai sembrerebbero non confrontabili con quelle vissute dai giovani a cavallo degli anni ’60-’70 del secolo scorso. La questione non è liquidabile in maniera così stringata, ovvio. Ma in sostanza è probabile che proprio questa sia la ragione che porta alcuni autori a  rivisitare quel periodo in forme anche personali oltre che secondo visioni critiche le più articolate. Abbiamo visto, dieci anni fa, come un autore del valore di Bernardo Bertolucci abbia voluto mettere in gioco la propria memoria e il proprio talento artistico con i suoi “Sognatori†(The Dreamers). Ora anche il parigino Olivier Assayas (Contro il destino  1992,  L’eau froide  1994,  Irma Vep  1996,  Clean  2004), regista celebrato a Cannes e Venezia e grande estimatore del cinema orientale, ha sentito il bisogno di rivivere come un momento di autenticità culturale e politica i giorni mitici del Dopo-Maggio. Il merito di Assayas è di aver saputo filtrare le scorie ideologiche di quel periodo in funzione di un maggiore spazio alle tensioni individuali più autentiche, sentimenti e occasioni di vita, che non azzerano certo il referente contestuale ma lo usano con discreta ragionevolezza, soprattutto lasciando spazio alla poesia del vivere e del perseguire aspirazioni singole, legate alle storie dei protagonisti. Gilles (Clément Métayer) è un liceale che vorrà fare il pittore, la sua sensibilità va oltre l’impegno delle assemblee e dei collettivi, è personalità di spicco nel gruppo di compagni che si ritrovano dopo le lezioni (il professore legge Pascal) ma coltiva con passione anche le proprie istanze estetiche “informaliâ€. Laure (Carole Combes) è la ragazza che ne apprezza le qualità e che, pur avvertendo le contraddizioni tra le ragioni dell’arte e quelle della militanza politica, non rinuncia a soffrire in prima persona la confusione relativa, fino alla soluzione più radicale. Il film è popolato di varie figure, rappresentative delle tipiche posizioni, teoriche e pratiche, all’interno del movimento, si vedono azioni, si vivono riflessioni, ma con molta asciuttezza di linguaggio, senza compiacimenti. E dal tutto emerge l’importanza delle persone. I sette ragazzi del Dopo-Maggio hanno un respiro non didascalico e si offrono alla nostra “ricognizione†con spirito generoso, prendendosi i rischi di essere se stessi. Le loro parole, i loro gesti non sanno di falso, non sono “recitati†e anche nei momenti di più spiccato rischio di schematizzazione, come nei dubbi assembleari sulla collaborazione di altri gruppi o come le discussioni sul tipo di linguaggio artistico a fronte della novità delle idee, il montaggio dei tagli resta agile e antiretorico. Sicché, nel complesso, prevale la valenza autobiografica di una storia pur “vera†e riconducibile a fasi riscontrabili nell’esperienza di generazioni mature le quali ancor oggi sono chiamate a riflessioni serie su quel passato. Lo sguardo ambientale, i luoghi cittadini, francesi e italiani, il teatro delle azioni è vivibile con naturalezza, nessuna simbologia. Anche la musica rappresenta l’epoca con una certa discrezione – e per la verità con la “dimenticanza†un po’ grave segnata dall’assenza totale del jazz, specialmente del Free Jazz, che in quel periodo caratterizzò non poco il suono dell’underground da Parigi a Roma. Letto 2115 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||