CINEMA: I film visti da Franco Pecori16 Marzo 2008
The Water Horse – La leggenda degli abissiThe Water Horse: The Legend of Deep Il mostro è buono. Siamo noi gli aggressivi che sparano cannonate contro tutto ciò che si muove, che amiamo essere sempre “in prima linea” contro un nemico da annientare. Per fortuna ci sono i bambini, disponibili ad accogliere ogni segnale di bontà , anche il più fantasioso, senza pregiudizi. La leggenda è quella del lago di Loch Ness, in Scozia. Diciamo leggenda perché finora le apparizioni del mostro lacustre restano misteriose e non inequivocabilmente documentate. Ma risalgono al 590 e non si sono mai interrotte, fino all’ultima, del 2007. Russell (Vivere per sempre) si rifà al libro per ragazzi The Water Horse, di Dick King-Smith e utilizza per gli effetti speciali  una super squadra di tecnici (Il Signore degli anelli,  King Kong,  Le Conache di Narnia). Ne viene fuori una creatura meravigliosa e simpaticissima che altro non cerca che un po’ di sincera compagnia. Il “mostro” marino è rinchiuso in un strano uovo, che il piccolo Angus (Etel) trova in una delle sue solitarie escursioni in riva al lago. Il bambino si sente solo, soffre dell’assenza del padre richiamato in guerra. Nel piccolo paese dove vive con la mamma (Watson) e la sorella più grande (Priyanka  Xi)  arrivano i soldati, un po’ buffi e quasi comici, pronti a difendere la Scozia dall’aggressione tedesca (siamo nel 1942). Tra gli sconosciuti c’è anche un uomo (Chaplin) alquanto misterioso che presto diventerà amico di Angus e lo aiuterà nella difficile avventura di salvare il mostro dai colpi di artiglieria, liberandolo verso il mare aperto.  Il film, “meraviglioso” e di fantasia  non aggressiva, ci induce, progressivamente seguendo l’ingenua curiosità di Angus, a familiarizzare  col mostro, subito battezzato Crusoe  dal bambino che lo “ricovera” segretamente  nella vasca da bagno. Crusoe cresce  a vista  e sconvolge l’ordine della casa. Soltanto Angus ne conosce l’indole buona e lo considera un vero amico. Lo seguirà anche nel lago, cavalcandolo felicemente in una prima sequenza liberatoria, molto bella,  che trasmette gioia di vivere in libertà , e poi nel finale minaccioso e notturno, quando Crusoe, scambiato per un sottomarino tedesco, subisce l’attacco insensato dell’artiglieria scozzese. L’enorme amico resterà nel cuore di Angus per sempre. Ed è proprio Angus, ormai adulto e maturo, a raccontare di quell’avventura capitatagli da bambino. Nella locanda, due giovani turisti lo stanno ad ascoltare incantati. Onora il padre e la madreBefore the Devil Knows you’re Dead Dollari, odio, droga, impotenza, truffe, pistole, famiglia, solitudine. Classico e limpido Lumet non smette di osservare con sguardo crudele gli aspetti inquietanti della società e li  racconta con fermezza, impassibile, bloccando le inquadrature a costo di riprendere scene spiacevoli. E magari tornandoci su, con una serie di flash all’indietro e poi riandando avanti, al dopo, per puntualizzare, capire meglio. Vediamo due fratelli che hanno dimenticato di amarsi. La madre (Harris)  cura il negozio di gioielli, il padre (Finney)  è  seduto davanti alla vasca di pesci, li guarda e cerca invano nella memoria di marinaio.  Hank ( Hawke), il più giovane, separato dalla moglie, vuole bene alla figlia, trova a stento i soldi per gli alimenti ed ha una relazione con Gina (Tomei). Gina è la moglie di  Andy (Hoffman), il più grande. Dirigente d’azienda, attinge alle casse per il vizio della droga e sta per essere scoperto. Ma idea: perché non rapinare la gioielleria di famiglia, con un colpo di mattina presto quando la mamma ancora non è lì? Hank è riluttante, ma poi accetta. Da questo momento, la perversione morale esce definitivamente allo scoperto, nel senso che sembra farsi personaggio e ci sembra di vederla all’opera, nelle inquadrature spietate e nitide. I flash che a ritmo regolare segnano il progredire tragico del thriller, punteggiano di osservazioni sarcastiche la discesa nell’abisso, finché la famiglia, quel che ne resta, si “riunisce” in un finale non raccontabile ma che sugella il rapporto tra i due maggiori responsabili della vicenda.  C’è ancora posto in Paradiso? Sarà meglio muoversi, prima che il diavolo si accorga che siamo morti. Nelle tue maniNelle tue mani A  7 anni da Controvento, Del Monte torna con un film di alto  livello, in linea con la sua produzione più interessante (Irene Irene, Invito al viaggio, Compagna di viaggio). Fuori dalla marea dei macchiettismi italioti, Del Monte, ci regala un racconto profondamente contemporaneo. Non è “tratto da una storia vera”, ma indaga le possibili “verità ” di una storia tanto misteriosa quanto “semplice” nell’apparente consequenzialità ; non  intesse “scenette” per dare un senso del quotidiano, ma inventa inquadrature produttive di senso, tagli la cui relazione interna non ha bisogno di attingere a rassicurazioni prefilmiche. Ed è un senso non lineare, poetico appunto, che denuncia senza  didascalie la difficoltà del vivere consapevole, del cercare rapporti secondo un’istanza di umanesimo. Si produce una  sensibilità non teorica, perfino  imbarazzante. Non c’è specchio in cui specchiarsi, c’è di momento in momento l’ansia di una soluzione che non arriva,  che non si intravede. C’è la prigionia di un sorriso che non può essere liberatorio, c’è una parola che sfugge, un  gesto che non si compie, un evento che non spiega, una fine che non arriva. E  sempre si apre un altro film, sorpresa nel giallo continuo di un’esistenza che non dà risposte. La diversità di Mavi (Smutniak)  e Teo (Foschi) si riproduce inesorabilmente, negando ai due personaggi il piacere della “conoscenza”, la tranquillità della prospettiva. Impossibile restringere il découpage nel conformarsi di un incontro tra lo studente di astrofisica e l’immigrata di Spalato. I due attori nel ruolo di  protagonisti sono bravissimi, ma nessuna figura è di contorno, nessuno è deresponsabilizzato in un ruolo “minore”. Ciascun angolo è “pieno”, sia pur pieno di “vuoto”, o meglio di “ignoto”.  Ci sono anche  alcuni temi sociologici  attuali, la giovane coppia, il lavoro, i bambini, i genitori, le religioni, ma tutto è  riformulato nel rifiuto dell’ovvietà . Tanto che la “bella” fotografia di Marco Carosi è costretta a precisarsi dall’implacabile asciuttezza delle ellissi e a rinascere così ogni volta in funzione della limpida onestà dell’inquadratura. E in chiusura, la fine utopia del picnic della “famigliola”, ricomposta in una resa paradossale, di Teo che apparecchia per la figlia Caterina, per  Mavi e per il piccolo, nuovo arrivato e  non suo. In un cinema italiano spesso ansimante  nella  ricerca  del prodotto medio vendibile c’è ancora bisogno di autori. Letto 2543 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||