CINEMA: I film visti da Franco Pecori8 Novembre 2008 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] The Burning PlainThe Burning Plain Acrobazie di sceneggiatore, non nuove per il messicano Arriaga (Babel, 21 grammi, Alejandro Inarritu, 2003 e 2006) ora passato alla regia. I personaggi sono fatti a pezzi, smontati e rimontati in funzione di una storia dolorosa e drammatica, che li coinvolge in una composizione “voluta dal destino” e lasciata consumarsi nelle fiamme di un incendio fatale, prezzo e segno di un  male di vivere. O dell’amore nascosto. O della sfida alla libertà . O della irresponsabilità dei sentimenti. O forse soltanto del moralismo di una ragazza che non sopporta di vedere la madre accoppiarsi segretamente con un  uomo che non è il marito. L’incendio brucia e fonde i due amanti in una roulotte in mezzo al deserto del New Mexico.  Il fuoco assassino  non è casuale e però nemmeno  del tutto  voluto.  Vedremo perché, ma non subito. Theron è Sylvia, porta con sé un turbamento che non la lascia in pace, c’è in lei la ragazza che un giorno scelse la fuga. Ia è Maria, una bambina che forse ritroverà la mamma. Basinger è Gina, casalinga infelice. Corre spesso in quella roulotte e la figlia Mariana (Lawrence)  se ne accorge. Pardo è Santiago, orfano dell’uomo della roulotte.  Con Mariana nasce l’amore. Mariana, Sylvia… tempi e luoghi  sono nelle mani del montatore. Il gioco dei flash è talmente fitto che diviene “totale”, non lascia spazio che alla logica dell’incastro. In ciascun segmento le attrici hanno modo di mostrare la propria bravura, ma se per  ipotesi il montaggio le lasciasse –  diciamo così  – al loro destino, tutta la bravura  non avrebbe senso, si perderebbe in un mucchio di esercizi espressivi bruciati in una fiammata. Il tessuto della sceneggiatura finisce per essere l’unica giustificazione valida delle loro vicende. Il senso oppressivo di un burattinaio che tiene i fili del racconto  prevale sulla sostanza stessa dei sentimenti da cui i personaggi traggono impulso. Quello di Arriaga è una sorta di  romanticismo ristrutturato e occultato con l’intelligenza del “regista”, che la vuol fare decisamente da padrone sui destini (misteriosi per modo di dire) del mondo. Celebrato sceneggiatore, Arriaga è regista nato.  Di ferro. Un gioco da ragazzeUn gioco da ragazze Ancora i giovani adolescenti. Ma questa volta la nuova generazione è raccontata al femminile e sul registro drammatico. Per il cinema italiano degli ultimi anni, una novità . E nella novità , la bravura dell’esordiente Chiara Chiti, che interpreta con sicurezza e quasi con sfrontatezza la diciassettenne “cattiva” e disperata. La prima  parte del film è già esauriente rispetto al senso di una società provinciale, ricca e insensata, che sforna figli “vuoti”, disorientati. Elena (Chiti), Michela (Noferini) e Alice (Caselli) formano un terzetto “terribile”, organizzato in un sistema “autosufficiente” di trasgressioni autopunitive prima ancora che deflagranti. L’ambito operativo è costituito principalmente dalle serate in discoteca, pasticche, alcol e sesso. Il resto, la famiglia e la scuola, non sono che momenti di noiosa attesa e di amaro scietticismo verso un mondo “assurdo” col quale non vale la pena di comunicare. Tutto è cifrato, parole e gesti: le tre ragazzine si muovono come automi programmati da una mente non tanto “perversa” quanto estranea, esterna. E urlano, le ragazzine. Urlano e sbraitano tra di loro, quasi “contaminate” da un virus sconosciuto in un horror fantascientifico. Mancano i morsi, ma sono sufficienti gli sguardi. Il ritmo binario delle pulsazioni musicali ad alto volume fa il resto. Cioè mette noi, poveri essere pensanti, nell’incubo di una domanda: quale pensiero per queste ragazzine? Quale linguaggio? L’interrogativo viene in un certo senso esplicitato dalla seconda parte del film. Rovere, che proviene da un brillante inizio nei corti, si lascia coinvolgere dal romanzo di Andrea Cotti e dà spazio al giovane professore di italiano (Nigro), il quale prova a entrare in comunicazione con le allieve, specialmente con la leader  Elena. Convinto di poter incidere sulla loro educazione, è destinato a finire vittima del “gioco da ragazze”. Il pericolo è che il tema scuola e scuola-famiglia si impossessi del film e ne faccia un prodotto da dibattito, buono per la televisione. C’è infatti il rischio di dimenticare la prima parte, in cui l’occhio della cinepresa rappresenta in modo spietato il senso di una realtà che appare “non recuperabile” secondo parametri usuali. Il regista ha detto di aver pensato, oltre che a certi fatti di cronaca, al cinema di Gus Van Sant (Elephant). Il livello estetico è diverso, ma il riferimento può essere pertinente. Ed è sempre meglio sprovincializzarsi che continuare a celebrare i maestri della commedia italiana. Quantum of SolaceQuantum of Solace Lasciamo stare  lo spunto, alquanto misterioso, del titolo da un racconto di Ian Fleming. Ma comunque  glielo vogliamo concedere un “tot di sollazzo”? In fondo, anche se non dice mai di esserlo, anche se non pronuncia mai  il fatidico «Bond, sono James Bond », l’agente che vediamo all’opera per la  ventiduesima volta è ancora lui, proprio 007!  Certo che M (Dench) si prende un grosso spavento, ad un certo punto crede  di aver perso il suo agente preferito, il quale s’è lanciato in un vortice di inseguimenti alla ricerca di una vendetta – per la verità  motivata un po’ sbrigativamente  – dopo la morte di Vesper Lind. Ma sul finire, Bond rassicura M. A lei che lo supplica: «Ho bisogno che torni, Bond », risponde tranquillo: «Non sono mai andato via ». Qualche dubbio, siamo sinceri, lo avevamo avuto anche noi: vuoi vedere che l’Agente 007, stufo dei mille intrighi e delle mille “ingiustizie”, perde la tramontana e si mette in proprio? Sembrava essere andato “fuori controllo”. Da Siena (sfizioso il  contrappunto tra lo start del Palio e gli spari che danno il via ad altri  scontri, molto  meno “sportivi”) ad Haiti e alla Bolivia, la faccia di Bond è quasi sempre ammaccata, tumefatta e tutt’altro che ironica. Meno male che già dalla prima sequenza il regista ci ha avvertiti dell’imbattibilità assoluta del protagonista. E anzi, con uno stile digitale oltremodo surriscaldato (sembra una contraddizione in termini, digitale-caldo,  ma la componente “letteraria” conserva alla coppia una sua coerenza interna), ci aveva fatto capire, senza mezzi termini, che la storia di Bond è ormai cambiata, siamo in un’altra dimensione, meno romantica, più fumettistica e più meccanica. Già , proprio ora che, a partire da Casino Royale,  si era riandati all’inizio, come al-di-qua di Bond/Connery. Craig è bravo, ma è soprattutto obbediente a trasformarsi in un quasi-robot. L’accelerazione del montaggio non ci dà la possibilità di attribuire un qualche senso che non sia strettamente legato alla dinamica nemmeno dei “fatti” ma dei meri accadimenti. Eppure, per paradosso, ne nasce un’astrazione che, fortunatamente, attenua le non-necessarie giustificazioni contenutistiche (le schematiche e, nel contesto,  fastidiose uscite della sceneggiatura sul nuovo quadro politico mondiale), per cui il “cattivo” Greene (Amalric) punta al possesso dell’acqua, noncurante dell’avvento dell’ennesima dittatura in Sudamerica. Un ringraziamento anche alla presenza di Mathis. Giannini è insuperabile nell’interpretare un “vissuto” che miracolosamente ridona alla vicenda un “quantum” di umanità . Prima di morire e di essere gettato in un cassonetto (gesto che non è nelle corde di Bond), riassume con un filo di voce: «Invecchiando diventa difficile, i cattivi e gli eroi si confondono tra loro ». Non la dovete certo tenere a memoria, restate pure immersi nella  martellante “azione”. E prenotatevi per il prossimo Bondfilm. Letto 2159 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||