CINEMA: I film visti da Franco Pecori4 Aprile 2009 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Ballare per un sognoMake It Happen Operetta morale? Non esageriamo. La morale c’è, ma non ha grandi  ambizioni. Ciò non toglie che un giovane di provincia, anche italiana, possa ritrovarsi nella lezioncina buonista che viene da un piccolo centro dell’Indiana, Usa. È questione di proporzioni. Certo il prestigio della Scuola di Musica e Danza di Chicago è unico, eppure la passione, quando c’è, si sente anche in Italia. Può accadere.  Comunque in qualche modo lo spettatore dovrà cercare di non sentirsi troppo estraneo al film dove  Lauryn (Winstead), ragazza di provincia, affronta l’avventura nella metropoli per concretizzare il sogno di diventare ballerina. Combattuta tra la sua passione, che per anni ha coltivato esercitandosi in proprio, e il dovere morale di non abbandonare il fratello Joel (Reardon) nella conduzione dell’officina ereditata dal padre, Lauryn trova la forza di partire per un’audizione a Chicago, spinta anche dal ricordo della madre, morta giovane, che l’aveva iniziata alla danza. L’audizione va male, Lauryn deve arrangiarsi, trova lavoro in un  cabaret di genere burlesque (aggiornato all’oggi), il Club Ruby, e impara che  l’hip-hop e tutto il “moderno”  può servire a migliorare la fiducia nel proprio corpo. Arriva il successo, con l’aiuto morale delle amiche  del club e del deejay  Russ (Smith), che le fa la corte e del quale s’innamora. Così la ragazza si fa coraggio e decide di tentare una nuova audizione. Ma dovrà prima dare prova a Joel della propria fedeltà alla famiglia. Finirà bene, ovvio, soprattutto per la buona disposizione d’animo della ragazza. Evviva. Volendo si potrebbe fare anche un discorso serio, impiantato su una struttura del tipo “scelta/selezione”, ma ne vale la pena?  Il quasi  zero in imprevedibilità e quindi in informazione suggerisce cautela. Altra possibilità sarebbe il tema dell’universalità della musica (e della danza), senonché  la somiglianza delle ricorrenti scene di tipo “frequentativo”  le rende quasi indistinguibili  l’una dall’altra e non è precisamente questo  l’ “universale” di cui si dovrebbe parlare. Al dunque, resta la simpatia dei protagonisti. Brava in particolare la Winstead (Bobby, The Ring 2, Die Hard – Vivere o morire). La musica ha il merito di non essere inutilmente  aggressiva, la regìa non si stacca dallo stile “video”, di cui è pratico l’americano  Grant, premiato autore di Video Music. Louise-MichelLouise-Michel Chiude una fabbrica nella regione della  Picardie (Nord della Francia). Il padrone inganna le operaie, le quali si ritrovano disoccupate con una “liquidazione” di 2000 euro a testa.  Si riuniscono e, su idea di una di loro, Louise/Moreau (Senza tetto né legge, Varda 1985, Il favoloso mondo di Amélie, Jeunet 2000, Vendette di famiglia, Palluau 2002), decidono di utilizzare la somma (20 mila) per incaricare un killer affiché ammazzi il padrone. Ci pensa Louise a trovare l’uomo giusto, ma Louise è un tipo un po’ speciale e presto il racconto diventa commedia, una commedia per nulla normale. Michel/Lanners, il killer, ha l’aria piuttosto di uno squinternato, il suo fisico è lontanissimo dal ruolo, le sue capacità di concentrazione sono al minimo. Sul filo della satira,  in una prospettiva  ideale  anarchica, l’azione si sviluppa per scene brevi, girate con “noncuranza”. Gli attori, scelti tra gli amici dei registi e tra la gente comune, si muovono con una naturalezza che forse sarebbe stato difficile ottenere da professionisti. I francesi Delépine e Kerven (per 15 anni hanno scritto e interpretato sketch satirici in Tv, il loro primo film da registi, Aaltra, è del 2004, il secondo, Avida, è passato fuori concorso a Cannes nel 2006)  dicono di aver risentito dell’incontro con il finlandese  Aki Kaurismäki (L’uomo senza passato, Moro no Brasil, Le luci della sera). Il loro cinema premia la sostanza umana anche oltre il racconto, nelle riprese diventa importante ciò che succede agli attori e un certo spazio è lasciato all’improvvisazione. Sicché, i riferimenti alla “realtà ” sociale perdono il carattere netto della “copia” per assumere un valore simbolico eterodosso, che nasce dal set ancor più che dallo script. Giustamente al Festival di Roma 2008 Louise-Michel è passato nella sezione L’altro cinema/extra. Non che Delépine e Kerven facciano  cinema “sperimentale”, il risultato artistico è anzi ben definito nonostante le loro dichiarazioni d’intenti siano molto decise per uno «stile libero », «incentrato più sulla storia umana che non sull’estetica ». Detta così, l’estetica sembra una parolaccia. Invece, la ricerca dei due autori  è proprio volta a mantenere saldo il senso di una poetica riconoscibile. Lo dicono gli stessi registi mentre parlano di «esilarante e nerissima commedia », «western sociale », «onnipresenza del rumore », «dialogo al minimo », «colori un po’ slavati come quelli dei cieli del nord », «sonoro grezzo e diretto ». Parametri tra genere e stile. Gli amici del bar MargheritaGli amici del bar Margherita Anziché tuffarsi nella realtà , che non può esistere – nel cinema come in ogni forma espressiva -, restandone irrimediabilmente prigioniero, come accade ai registi che confondono la lezione del Neorealismo con i servizi giornalistici per la Tv, Avati attinge alla memoria, restituendoci poeticamente un “come eravamo” a metà degli anni Cinquanta. Lo sguardo è circoscritto ad una situazione ben delimitata e anche perciò perfino più indicativa di una visione della vita, del mondo, appartenuta alle generazioni di allora e che può insegnare molto a quelle attuali. Se poi il racconto sia autobiografico, non importa più di tanto. Specie a partire da La seconda notte di nozze (2003) fino a Il papà di Giovanna (2008), l’autore ha via via confermato un dominio estetico sulla propria materia risolto in esiti artistici progressivamente concentrati, rifiniti, compiuti. Lo stile è sommesso, copre uno spazio che va dalla commedia al dramma, traducendo una scrittura che sa di diario eppure non riduce lo spettatore a voyer. In particolare gli amici del bar Margherita sono raccontati in modo che resta impossibile allo spettatore distrarsi dalla voce narrante, cioè dalla scrittura che guida, suggerisce, sceglie le immagini e il loro montaggio. Ed è proprio la qualità letteraria del racconto a rendere impossibile la semplificazione in “episodi”. Gli amici di Avati non sono gli amici del bar ma gli amici di quel bar. E in quel bar vive una comunità di “disturbati”, che si nutrono di fissazioni e in questo modo “denunciano” la distanza dalla società , dalla comunità che  essi considerano altra e dalla quale si difendono con una serie di regole interne da rispettare alla lettera, pena l’espulsione. In questo senso, i “ricordi” di Avati (più I vitelloni che Amarcord) liberano una “cattiveria” che, estranea al conformismo della più recente commedia italiana, valorizza il film anche sul versante drammatico. Non ci dilunghiamo quindi  nella descrizione dei singoli personaggi (attori tutti bravi), rischieremmo di azzerare la funzione espressiva della componente letteraria. Letto 1639 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||