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CINEMA: I MAESTRI: Totò. Ammesso e non concesso

28 Settembre 2012

di Oreste del Buono
[da “La Fiera Letteraria”, numero 17, giovedì 27 aprile 1967]

« Prima di tutto sono servitore… ». S.A.R. An ­tonio de Curtis Gagliardi Ducas Comneno di Bisanzio, eccetera, era pronto a inten ­tare e ad affrontare processi e spese per difendere e legittimare il possesso dei suoi titoli contro ogni insinuazione, era fiero di essere nobile, ma lo era altrettanto di essere servitore. Servitore del pubblico. « L’attore prima di tutto è servitore. Il pubblico bisogna servirlo… ». E’ forse la cosa mi ­gliore tra le tante bellissime che ci lascia Totò que ­sta dichiarazione, questa convinzione, questo atto di fede. Qualcosa che aggrava la tristezza per la sua scomparsa, rende questa scomparsa irreparabile. Perché questo atto di fede suona ormai anacronisti ­co, testimonia di un rapporto con il proprio mestie ­re e con i propri simili che non è assolutamente più di oggi. «Chi dice di essere un comico moder ­no è uno che non fa ridere… ».

Totò nacque a Napoli alla fine dell’Ottocento. Ci sono in circolazione varie date, 1899, 1898, 1897, for ­nite da lui stesso agli intervistatori indiscreti. Non amava confessare la data di nascita, lo faceva solo controvoglia, e su questa riluttanza era pronto a scherzare a suo modo. Raccontava di avere avuto il piacere di conoscere il grande Zacconi, al tem ­po del loro incontro ottantaquattrenne. Ebbene, Zacconi provava gusto a togliersi due anni. Mica tanti. Due appena, ed era già un sollievo. Gli piace ­va confessarne ottantadue. Anche a lui, Totò, pia ­ceva togliersene qualcuno. O almeno non parlarne troppo, non stare a contarli e a ricontarli, a perce ­pirne la durata e l’usura, lo sciupio e l’inclemenza, lungo l’insanabile tangente teneva alla vita, anche se non si faceva illusioni. « Non è triste, ma nep ­pure allegra, è quello che è, tristezza e allegria in ­sieme, un grottesco… ». Il grottesco della vita, lui lo riconobbe subito. Per questo cominciò così pre ­sto a recitare da comico. Ne aveva l’istinto. « Il co ­mico vero nasce, non diventa. Lavorando si impara il mestiere, è un’altra faccenda… ». E Totò, che era capace di descrivere agli intervistatori creduli la propria pigrizia, ha lavorato per circa cinquant’an ­ni. All’istinto sbalorditivo ha aggiunto un mestie ­re prodigioso, una fittissima carriera.

Teatro dell’arte, in piccole compagnie napoleta ­ne, dapprima. Non faceva Pulcinella, quella era una parte per il capocomico. A lui erano concesse solo poche battute. Il capocomico anticipava il canovac ­cio, la rozza successione delle azioni principali. Presso a poco doveva andare così e così. Ognuno doveva provvedere con mezzi propri a giustificare la presenza in palcoscenico. Uno imparava per for ­za a parlare, altrimenti smetteva. Il pubblico sta ­va lì, occorreva catturarne l’attenzione, se una bat ­tuta non andava era un disastro, non c’era quasi il tempo di rimediare. Poche battute, più esattamen ­te pochi minuti da riempire di battute, prima che Pulcinella intervenisse a rivendicare la parte del leone. Non era facile per l’esordiente meritarsi qual ­che minuto di più. Ma, quando lo strappava, era un trionfo, la trionfante consapevolezza d’essere riu ­scito a stabilire il contatto.

Poi, al varietà, le macchiette. Il pubblico si era ormai accorto di lui. Nel 1922 Totò si presentava già nell’abbigliamento della sua maschera: la fru ­sta bombetta, il tight ampio e scivoloso, i calzoni inconciliabili con la decenza, i calzini sfacciati, le scarpacce provocatorie. Un abbigliamento allora più o meno comune ad altri comici del tempo, e persi ­no, ai giorni nostri, a Vladimiro ed Estragone di Beckett, ma che su di lui diventava singolare, per ­sonalissimo, impastandosi con quella faccia così malinconica eppure così capace di esprimere tra fronte circonflessa e bocca smaniosa, tra naso lun ­go e mascella allentata un’arroganza burattinesca, un’ineffabile carogneria, un disprezzo quasi diabo ­lico e con quel corpo così dimesso, ma così pronto a scatenarsi secondo un ritmo irresistibile e insop ­portabile, astratto nelle pose ripetute sino all’os ­sessione e sempre ossessivamente sorprendenti. Un personaggio, la maschera Totò, in grado di riscuo ­tere dalle platee del varietà tutto il successo voluto; ora remissivo, sin troppo remissivo, umiliato e offeso per vocazione, e poi, d’improvviso, aggressi ­vo, prepotente, prevaricatore. L’umiliato e offeso che umilia e offende, il vendicatore di ogni ven ­detta.

Compagnia per proprio conto, allora. Continuatore di Petrolini, successi su successi. Ma Totò, che certi compagni d’arte accusano di aver sempre cer ­cato di campeggiare da solo in palcoscenico, di aver sempre rubato battute e parti agli altri, per confi ­narli nell’ombra, non era abbastanza duro come ca ­pocomico. E pagava più di quanto fosse economi ­camente giusto le comparse sprovvedute, i guitti sfiduciati, così i conti non tornavano e lui dovette tornare al varietà. E poi nel 1940, il grande incon ­tro con l’autore di riviste Michele Galdieri. I gran ­di spettacoli di dieci anni, da Quando meno te l’aspetti a Buda che ti mangio, Totò mattatore as ­soluto. « Delle mie riviste, ciò che mi è più caro, non rimane nulla, il ricordo al massimo, in chi ne è stato spettatore: non ho ragione di dire che è stato un fallimento?… ». 11 ricordo di qualche gene ­razione d’italiani non è poco. Non è stata un falli ­mento la lunga esperienza teatrale di Totò, e non è stata un fallimento neppure la sua lunga espe ­rienza cinematografica.

Il primo film di Totò è del 1937, al cinema, co ­munque, lui si dedicò definitivamente dal 1950. Il teatro zoppicava, ma, Totò, dominava, e il cinema gli offriva il modo di far soldi, evitando le sfatica ­te del teatro, i viaggi, le battaglie con le più diver ­se platee, gli inconvenienti di una vita randagia. Ha fatto tanti, tantissimi film, cento, centodieci. Non tutti belli, molti anzi mediocri. Pellicolette gi ­rate in fretta e furia da produttori in vena di pure e semplici speculazioni: pagato bene solo Totò, per il resto poche lire. Anche i film che incassavano di meno, rappresentavano sempre un discreto guada ­gno, Totò chiamava pubblico. « Avrei potuto fare qualcosa di meglio di quello che ho fatto. Ho fatto male. Un poco per pigrizia, un poco per i produt ­tori italiani che volevano andare a colpo sicuro… ». Totò rimpiangeva l’epoca del muto, era sicuro che con la sua faccia avrebbe potuto esprimere tutto. Si riteneva danneggiato dal sonoro, dall’avvento della parola, dalla qualità scadente della parola. Soggetti di scarsa importanza, sceneggiature sciape, e quella mancanza di mezzi spettacolari che accentrava la tensione del film comico quasi esclusivamente sulle battute.

A Totò non andava giù una sua esperienza di spet ­tatore. Una volta, a Nizza aveva assistito alla ver ­sione francese di Totò sceicco. A un certo punto lui si rivolgeva a un personaggio di nome Omar, e gli diceva: « Omàr, Omàr, vide Omàr quanto è bel ­lo… ». Una risata sicura. La battuta, tradotta lette ­ralmente in francese, non faceva, e non poteva far ridere nessuno. Quella volta, Totò aveva credu ­to di capire, e se ne era amareggiato, perché la sua fama di comico fosse meramente italiana, perché la sua vena eccezionale non riuscisse a varcare i confini. Una spiegazione convincente sino a un cer ­to punto. Un discreto attore drammatico può aver successo in qualsiasi nazione venga presentato il film di cui è interprete. Più difficile che possa aver successo un comico, soprattutto quando la sua co ­micità sia radicata nel costume nazionale. La comi ­cità di Totò è sempre stata così radicata nel costu ­me italiano, non inferiore a quella di Chaplin e Buster Keaton, ma diversa, molto diversa.

Tra i suoi tantissimi film, ne salvava una decina, da Guardie e ladri a I soliti ignoti, da Napoli milio ­naria a L’oro di Napoli. Era troppo severo: anche nei peggiori, anche negli infimi le sue interpreta ­zioni sono sempre da salvare. Lui vi si riconferma servitore del pubblico. E’ in questo senso che si può non accettare il luogo comune secondo il qua ­le con il cinema non avrebbe avuto fortuna né giu ­stizia. Diciamo che non l’ha avuta con la critica, che è un discorso diverso. Quando all’ultima conse ­gna dei nastri d’argento, a Firenze, Totò, patetico vecchio semicieco, mite di esulcerato orgoglio, è stato chiamato a ricevere il premio come migliore attore protagonista del 1966, la designazione voleva essere una riparazione da parte della critica. Ma era anche la conferma di un equivoco. Totò, infat ­ti, è stato premiato per la sua interpretazione di Uccellacci e uccellini, la parabola cinematografica di Pier Paolo Pasolini. La critica, insomma, ha avu ­to bisogno dell’avallo della firma del regista per credere in Totò. E così per qualsiasi altro ricono ­scimento di stima decretato parsimoniosamente in passato è sempre stata stabilita una dipendenza tra il regista e il comico. Un vero e proprio equivoco, perché Totò è stato bravo, bravissimo nei suoi film peggiori come in quelli migliori, e la sua bravura, a dispetto della mediocrità di certe pellicolette far ­raginose, questa sì avrebbe meritato d’esser premia ­ta e ripremiata. La sua bravura, ovvero la sua fe ­deltà di servitore del pubblico.

Un istinto sbalorditivo, un mestiere prodigioso. Un’esplosione d’irrazionalità affidata alla più can ­dida razionalità. « La comicità è aritmetica, c’è po ­co da fare… », è una delle dichiarazioni di Totò, nel ­la lunga e appassionante intervista di Giacomo Gam ­betti, acclusa al volume su Uccellacci e uccellini, come le spoglie di un prigioniero, di un vinto al carro di un vincitore. Improvvisare a tempo, in ­ventare secondo leggi precise; il segreto di un’au ­tentica arte, un’arte che utilizza tutto per ricom ­pensare il pubblico del prezzo del biglietto, la snodabilità delle ossa come la pernacchia, un capo di vestiario come la malinconia, l’oscenità come la marcia dei bersaglieri, il sentimentalismo come il luogo comune. Totò si è fatto torto, pensando che il sonoro lo abbia danneggiato al cinema, ha fatto torto alla sua voce, alla carica di comicità e di di ­sperazione, di grottesco, insomma, di cui era capa ­ce la sua voce. Lo sapeva perfettamente anche lui, del resto. « Io ho fatto ridere per anni dicendo “a prescindere”: ora che cosa c’è in “a prescindere”?… ». C’è che lo diceva lui, Totò.


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Bart