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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Corti, Maria

7 Novembre 2007

L’ora di tutti

“L’ora di tutti”

Feltrinelli, novembre 1962, pagg. 340.Una introduzione partecipata e tenera crea intorno a noi l’invisibile presenza, duratura nel tempo, degli ottocento eroi – conosciuti come “i martiri di Otranto” – i cui resti sono conservati nella cattedrale della città salentina “in fondo all’abside, a destra”.

Era il mattino di venerdì 28 luglio del 1480; il mare grosso e una leggera foschia imperversavano davanti alla Torre del Serpe. Nei paraggi si muovevano i pescatori con i visi bruciati dalla fatica e dal sole. I lori nomi erano anche tutta la loro storia: Procomio da Malcantone, Cola Mazzapinta, Nachira, Alfio da Faggiano, Antonello d’Alessandro, Antonio De Raho, e così altri: “fermi con gli occhi fissi al canale” e “Diventammo venti, trenta sugli scogli, nessuno parlava, uno stare tanto zitti insieme non c’era mai stato.” C’è la sua ragione. A largo hanno visto “la cosa”, ossia le galee turche che, dirette a Brindisi, sono state spinte dalle condizioni del mare e dal vento di tramontana sulle coste di Otranto. Ed ecco la consapevolezza e la paura prenderli al cuore. Uno di essi, Procomio, alzò le braccia e gridò: “Oohí­, i turchi!” Le comanda il terribile Akmed Pascià, “un uomo furioso, ignorante e crudele”. L’autrice usa l’artifizio di far narrare ad alcuni protagonisti, i cui nomi dànno il titolo ai vari capitoli, i fatti che direttamente li coinvolgono, permettendoci così di entrare anche nei loro pensieri, e qui, nel primo capitolo, è Colangelo, un pescatore, che racconta, e già siamo conquistati dallo stile, cesellato di quiete e di garbo, di questa narratrice che, prima di scrivere questo romanzo di esordio, era già famosa per i suoi molti studi filologici, e che si mostra avvezza a passar per le mani frasi belle quali: “dava a vedere che ci contava per mosche” oppure: “come sentono battere i timpani” o “abbiamo ciascuno tanto corpo quanto un turco” e “i ragionamenti adesso sono tutte frasche”. Ho aspettato quarantuno anni per estrarre dalla mia libreria, e rileggerlo, questo romanzo, uscito nel 1962. L’occasione me l’ha data la celebrazione, il 18 marzo 2003, di un seminario dedicato a lei dal Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze, a poco più di un anno dalla sua morte, avvenuta il 22 febbraio del 2002. Felice incontro per me, dunque, una lettura bella che ho ritrovato.

L’inizio, con quei colloqui sui bastioni delle mura della città, intrattenuti di notte dai pescatori messi di guardia, e mentre si leva la nebbia e appaiono e scompaiono ombre e visioni, mi ha ricordato le prime pagine dell’ “Amleto”, nel rimescolio di silenzi e di paure che qui e là s’incontrano.

Si avverte sin dal principio, senza alcun inutile preambolo, che si sta approssimando “L’ora di tutti”, e che stiamo vivendo quel tempo indefinito – breve o lungo, chi può misurarlo? – che è l’attesa della morte, in cui tutto può succedere e si può diventare – superato perfino il nostro stupore – eroi o vili (“a ciascun uomo nella vita capita almeno una volta un’ora in cui dare prova di sé; viene sempre per tutti.”), e quello di Vincenzo, messo così all’avvio del romanzo, è il grido di una disperata ribellione alla morte in difesa della vita: “Io fossi un re, ecco, abolirei tutte le guerre.” e “Qua molti di noi hanno da morire.” Colangelo dirà più avanti: “Noi non abbiamo mai ammazzato un uomo.”

Il raccontare della Corti è “dolce e tranquillo”, e lo sguardo è sempre pronto a cogliere con tenerezza i pensieri che si muovono dentro i protagonisti, mai abbandonati a se stessi, e amorosamente accompagnati verso quel destino già presentito e ineluttabile. Il soccorso atteso dai pescatori, infatti, non arriverà mai, il re don Ferrante d’Aragona non ha i denari necessari per inviare subito una spedizione al comando del figlio don Alfonso. I pescatori lo intuiscono, lo sanno. Le loro conversazioni si vestono a poco a poco della rassegnazione propria della fatalità e i loro sono sospiri che risaltano come tarsie.

La bella Idrusa (“non mi lasciava mai la volontà di essere bella”), desiderata da tutti perché la donna più attraente che sia mai nata ad Otranto, fa la sua comparsa una notte con la dolcezza di un raggio di luna, ma il profumo della sua seduzione pare anch’esso vinto, lei che è stata capace di ispirare a Colangelo “l’idea che volesse appropriarsi di tutto, appropriarsi del dolore e della felicità del mondo.”

La morte, sebbene ancora lontana, appena intuita, è compagna della memoria. La difende e la trae dai nostri recessi e, paradossalmente, per il tramite proprio della memoria, la morte ricompone la vita. Una specie di sortilegio e di fiaba si riannoda dai primordi dell’esistenza, con il fascino di una rivelazione, anzi di una resurrezione che pareva impossibile e dimenticata: “gli spiriti del bosco, che si fanno beffe degli uomini e, al loro passaggio, dice che si cambiano in raggi di sole.” e “da un lato c’erano le cose della vita […]; dall’altro c’erano quelle poche che stanno celate dentro le prime […], sicché alla fine uniche sopravvivevano e in piccolo corteo accompagnavano l’uomo alla morte”. Assunta e Idrusa nascono, così, avvolte dalla poesia, nelle morbide vesti della memoria.

Il romanzo si arricchisce via via dei lenti processi dell’attesa, della “nostalgia della partenza”. Quando Colangelo, che nella notte sta ritornando alle mura, si accorge che la porta della cattedrale, dove sono stati radunati le donne, i bambini, i vecchi, è rimasta socchiusa, si affaccia e chiede al frate di poter parlare con Assunta e Alfio, suo figlio. C’è tutta l’atmosfera incombente e densa di ciò che noi sappiamo accadrà, e tuttavia siamo colpiti da quella consapevolezza rarefatta di una speranza dovuta e possibile. Tutto si muove con la finalità della tragedia storica, che resta sempre, anche quando ci se ne allontani, il punto focale della narrazione. Ogni sentimento, ogni gesto, ogni combinazione dei fatti, sussistono per condurre là. L’autrice ci fa assistere all’assalto dei turchi alle mura di Otranto, ci mette a contatto con le morti dei personaggi ai quali ci eravamo affezionati, poi se ne allontana per percorrere ricordi e memorie, tutti segnandoli col marchio della fatalità, al modo che noi tocchiamo con mano una specie di congiura che spesso segna, senza che ce ne avvediamo, la nostra esistenza. E emergono le tristezze, la ferocia, l’ironia di un disegno che si è formato sopra di noi a nostra insaputa, e che ci ha destinati ad essere eroi, martiri, temerari o vili (come accade ai soldati spagnoli che fuggono appena scorgono le galee dei turchi), al di là della nostra libera scelta: “Chissà se qualche sventura sovrasta questa terra.” e “Così possono comportarsi uomini umili, caduti nella rete di un grande destino”. Sarà così anche per Idrusa, figura magnifica ed emblematica in questa storia, in cui convergono e si disegnano, in un capitolo che ha, specialmente nella prima e nell’ultima parte, tratti di scrittura maiuscola, i labili confini tra sogno, felicità e tragedia. Finché anche la morte, nonostante sia ancora vigoroso e desiderato il legame con la vita (“è tanto lungo il tempo che deve venire dopo, lasciatecene ancora un po’”) non farà più paura: “Ecco com’è fatta la morte, ma non è una cosa tanto difficile. Mi pare che si possa proprio andare.” E a smitizzare la morte, e forse addirittura a sconfiggerla (o a rivelarla, chissà?), sarà proprio l’autrice che, attraverso la particolare struttura del romanzo, non fa morire mai definitivamente i suoi personaggi, che riprendono a vivere allorché sarà, in un nuovo capitolo, un altro personaggio a ricordarli. Quasi che la morte, finalmente giunta, lasciasse scoprire che dentro di sé v’è come un nido di vita, una resurrezione. Che è la risposta che l’autrice dà a quella domanda disperata di Idrusa: “ma bastava prendere un capo del filo, tirarlo ed ecco che scivolavamo ciascuno per conto suo in un grande mare; era così dunque? A uno non restava niente?”

Il libro è anche un affettuoso, partecipato omaggio alla Puglia e agli otrantini: “Che uomini questi popolani. Come farà la storia a non perderne di vista nessuno?” e anche: “Chi lo direbbe che questa razza, se càpita, fa quello che ha fatto contro i turchi. Che sia una forza del sangue?” Si vedano, inoltre, nel capitolo dedicato a Idrusa, le pagine che raffigurano le donne di Otranto (“Si riposavano ed avevano umore buono e tranquillo le donne senza i mariti”) intente, all’ora del vespro, ciascuna davanti al proprio uscio di casa, alle loro abitudini secolari. E altrettanto belle sono le parole messe in bocca ad un altro dei protagonisti, don Felice Ayerbo d’Aragona, splendida figura che troverà il suo maggior risalto nel capitolo dedicato a Idrusa, e l’unico spagnolo rimasto a combattere i turchi: “Io qui a Otranto ho trovato la felicità.”


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2 Comments

  1. Commento by M@zz — 30 Dicembre 2008 @ 12:55

    HO letto il tuo post sul romanzo di MAria Corti “L’ora di tutti”…
    Mi farebbe piacere che tu leggessi quello che ho scritto io dopo aver letto il libro ed averci trovato alcune imprecisioni.
    http://polpievolpi.blogspot.com/2008/12/la-maledizione-letteraria-di-casole.html

    Ciao e grazie
    Massimo ALbanese

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 4 Gennaio 2009 @ 01:16

    Grazie per l’attenzione, Massimo. Sono andato a leggerti e ho notato che tra i tuoi visitatori assidui hai Livio Romano, di cui ho commentato un paio di libri qui:
    https://www.bartolomeodimonaco.it/?p=700

    Quelli accaduti alla Corti sono incidenti che accadono, sono accaduti e accadranno, ahimè.

    Autori del passato, e anche di oggi, sono riusciti ad evitarli grazie a buoni editor, giacché gli autori quasi sempre si lasciano trascinare dalle suggestioni della propria scrittura.

    Questi incidenti vanno a finire nel catalogo delle curiosità, numerose nel campo dell’arte, ma non scalfiscono mai il valore dell’opera. Il romanzo della Corti resta un gran romanzo, pur con le incongruenze acutamente da te sottolineate.

    Come ha già commentato qualcuno sul tuo blog, hai tutti i numeri per essere un buon editor.

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