Della Mea, Ivan7 Novembre 2007 “Un amore di luna”Granata Press, pagg. 168. Euro 12,39. Ivan Della Mea, lucchese di nascita, 16 ottobre 1940, morì a Milano il 14 giugno 2009. Vi si era trasferito all’età di dieci anni, e trascorse la sua vita in questa grande città così differente da Lucca: “La tramontana spazza le scorie metropolitane. Milano è bella oggi. Milano è triste.”. Autodidatta, lo scrivere era la sua passione, ma nell’epigrafe di questa raccolta di quindici racconti, così si esprime argutamente: “Quando penso a me stesso/penso a un uomo di lettere/Quando penso a un uomo di lettere/penso a un postino.”. “Bepi” è il primo racconto che s’incontra ed è già tinto del sangue che scorre nelle vene di questo narratore, sangue tenero, e tuttavia pugnace, schietto, accarezzato dall’ideale, e a mano a mano che si procede nei racconti si fa largo una dolcezza malinconica per le cose semplici, per i sentimenti che sgorgano spontanei, come in “Bolle di sapone” (“Allora ho deciso di fare bolle di sapone perché è un gioco silenzioso.”); “Una vita d’ombra” (“Poi l’ultima ombra, la più bella, quella che sua madre gli aveva insegnato poco prima che il male la uccidesse, una figura di donna, lunga e assorta, che dalla parete pareva chinarsi verso il suo letto, accompagnata dalla voce piana di lei che recitava una strana poesia.”). Ogni racconto, diviso in brevi paragrafi, rastrema, unisce tra loro parti lontane, come se il tempo fosse un guscio dentro il quale si sviluppa, nell’unica matassa della vita, il miracolo dei sentimenti. Non a caso, talvolta sono bambini i protagonisti di queste storie: lo stesso Bepi, per qualche tempo, poi Pietro, Martino. Con il racconto che fornisce il titolo alla raccolta: “Un amore di luna”, si cambia marcia, come se le storie precedenti fossero state la messa a punto degli ingredienti narrativi di questo autore, e si dà vita ad una straordinaria licantropica storia, dove la bestia che sta chiusa in noi a poco a poco stampa la sua immagine tra le parole e disvela l’agguato e la violenza che ci portiamo dentro. Come se si fosse alzato un sipario, si entra nel mondo dell’indicibile, e Della Mea si compiace di condurvici per mano lungo le tracce disseminate nei suoi racconti, quali “Il calice” e “L’ultima occasione”, ad esempio, dove i gesti degli uomini somigliano a riti antichi, il cui significato si perde nei recessi dell’anima, ossia laddove tutto è possibile, avvolto nel mistero e nell’ombra. A sbrogliarli, a scioglierli, a rivelarli spesso sono comportamenti insoliti, annunciatori di una forza diversa, nuova, contraria, amica o temibile nemica ancora non si sa, e restiamo in apprensione, consapevoli del segreto che sta per svelarsi, dei “tanti perché a cui non so rispondere.” Ciò che accade ha sempre, in qualche modo, a che fare intimamente con noi, come un alter ego delle nostre ossessioni e delle nostre paure. Della Mea non fa distinzione tra uomini e cose, tra uomini e animali, tra uomini e piante, e li accomuna nello stesso mistero e nello stesso fascino dell’esistenza. Si veda il racconto breve: “Amor che nella mente mi ragiona”, in cui un gatto nero pare un essere umano. O “Rosso e verde”, che è la storia d’amore tra una pianta, Beniamina, e un pesce rosso di nome Pippo. Del resto, nel racconto: “Ma che freddo fa” (uno dei migliori e più significativi) scrive: “L’uomo è cosa che lascia segno di cosa.” Ci sono “presenze assenti” nelle sue storie, un mondo di relazioni vive e silenziose, stupefacenti, alle quali, quando per un contatto improvviso le avvertiamo, nessun vuol credere, ma noi non siamo più come prima e ci avvolge il misterioso silenzio della vita che invisibile si muove intorno a noi. La scrittura di Della Mea, brillante, scorrevolissima, moderna, non disdegna neppure il paradosso, l’ironia, la presa in giro, il divertimento dissacratorio (si vedano i racconti: “Spia doppia a senso alternato”, “Gesù 2000”, “1.1.1 d.M. & d.P.”), per suggerirci a mezza voce che, se il mistero c’è, basta prenderlo per il verso giusto, e tutto, infine, si ricompone.
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