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Tre articoli

20 Maggio 2012

L’Europa e la Germania alla svolta decisiva
di Eugenio Scalfari
(da “la Repubblica”, 20 maggio 2012

Tre bombole di gas collegate ad un timer e collocate in prossimità di un edificio scolastico (intitolato a Falcone e Morvillo) possono provocare la rottura dei vetri delle finestre e sbriciolare l’intonaco del palazzo; ma se l’esplosione avviene in mezzo a una folla di persone provoca una strage ed è quanto avvenuto a Brindisi.
Volevano la strage i terroristi che hanno architettato l’infame attentato? Oppure hanno sbagliato l’orario dell’esplosione e invece delle 7.40 del mattino volevano che lo scoppio avvenisse alle 19.40 della sera, quando la scuola e la piazza antistante sono deserte e mentre in lontananza doveva sfilare un corteo pacifista e legalista?
Polizia e magistrati sono al lavoro per identificare gli attentatori e stanno vagliando tutte le piste, ma l’ipotesi più convincente conduce alla strategia della tensione e ricorda alla lontana la bomba di piazza Fontana del 1969. La gente è scontenta e rabbiosa per tante ragioni; oggi e domani si vota anche in Puglia per i ballottaggi delle amministrative. La morte d’una ragazza di 16 anni, un’altra moribonda e una decina di feriti scuotono il Paese intero.
Strategia della tensione. Basta un fiammifero acceso buttato in un pagliaio per scatenare l’incendio.
Il cordoglio per quelle vittime innocenti è grande, il lutto è nazionale, ma i problemi sono altri.
La tensione nasce dalla loro mancata soluzione ed è su di essi che bisogna agire. Ogni giorno ed ogni ora perduti aggravano il contesto e possono essere fatali.

* * *

Non ci può essere un piano B che preveda l’uscita della Grecia dall’Unione europea e dalla moneta comune. Il solo pensarlo ed enunciarlo peggiora le aspettative e dà ali alla speculazione.
Se la Grecia abbandonasse l’Europa la vittoria di chi gioca allo sfascio risulterebbe certificata e il contagio diventerebbe galoppante epidemia. Il fuoco si sposterebbe al Portogallo e alla Spagna. Molte banche europee entrerebbero in crisi. Il panico si estenderebbe con incalcolabili ripercussioni. Ma la soluzione c’è ed è a portata di mano.
Il G8 è appena terminato ed ha indicato la strada: l’Europa deve decidere non soltanto le politiche necessarie per avviare la crescita e rilanciare la domanda con interventi concreti e immediati, ma deve soprattutto accordarsi sul futuro dell’Unione.
Che cosa sarà tra dieci anni il nostro Continente? Nascerà uno Stato federale o qualche cosa che gli somigli? Quali saranno i rapporti e le rappresentanze tra il governo Federale e i governi degli Stati nazionali?
Non servono generiche dichiarazioni di intenti e generiche enunciazioni di ideali; servono obiettivi precisi e datati e poteri fin d’ora conferiti a organi già esistenti o da creare per la bisogna.
La Germania ha fin qui dettato gli interventi necessari per attuare la politica del rigore. Non si tratta di smantellare quella politica, ma di affiancarla subito con quella dello sviluppo, dell’occupazione e del welfare. Un welfare moderno e dunque diverso ma non meno protettivo per i deboli bisognosi di tutele.
Il calendario è già stato redatto con le riunioni di organi europei dal 23 maggio alla fine di giugno. Per quella data le decisioni debbono esser state prese e rese pubbliche. Ma un principio va tenuto sempre presente: si tratta di costruire un’Europa democratica. Tentazioni autoritarie stanno emergendo in vari punti del Continente e di varia natura. Non possono essere ignorate, vanno affrontate e combattute.
L’indifferenza per prima. Il populismo che rafforza quelle tentazioni. Il nichilismo che le esalta. A queste pulsioni bisogna contrapporre la responsabilità democratica, il rinnovamento riformatore, il pragmatismo coerente.
Se questi passi saranno compiuti, le aspettative del popolo, degli imprenditori, dei banchieri, dei risparmiatori, dei consumatori, cambieranno in positivo e rapidamente.

* * *

Chi debba essere lo sceneggiatore incaricato di scrivere il copione del programma europeo è abbastanza chiaro: è un compito da affidare ad un’Autorità europea la cui sovra-nazionalità e la cui indipendenza siano assolute. Ce n’è una sola in possesso di questi requisiti ed è la Banca centrale. Il compito di scrivere il copione degli interventi necessari spetta a lei. Lo deve fare subito, entro la fine di maggio se si vuole rispettare il calendario.
Il dibattito ovviamente coinvolgerà il Parlamento europeo, la Commissione e i governi nazionali. Ma quale sarà il motore politico dell’intero processo? Quel motore che mette in moto le ruote del treno europeo?
È molto difficile che le ruote di quel treno si muovano se la Germania farà mancare il suo impulso propulsivo, la sua volontà politica e insomma la sua egemonia. Accettandone le responsabilità. Fino a quando la Germania continuerà a pensare soltanto a se stessa non potrà che combinare guai. I governi non solo dell’Europa ma dell’Occidente debbono metterla dinanzi alle sue responsabilità riconoscendo a loro volta che la Germania possiede la forza per innescare la costruzione dello Stato federale europeo. Non si può far finta di non vedere che il vero problema da risolvere è questo. Non si tratta di un’opzione ma di una necessità.

* * *

Federare Stati nazionali che hanno storie diverse, lingue e costumi diversi, richiede molta saggezza. È possibile che gli Stati nazionali debbano esser chiamati a cedere una parte cospicua della loro sovranità alla Federazione, ma è realistico pensare che questa cessione non sia integrale.
Da questo punto di vista la struttura degli Stati Uniti d’America merita d’essere osservata con attenzione. Il potere federale si è esteso molto gradualmente; la sovranità dei singoli Stati è ancora largamente presente per quanto riguarda la legislazione, la magistratura, l’ordine pubblico, l’organizzazione della rappresentanza politica ed elettorale. Ed anche l’economia.
Ma non c’è dubbio – la storia americana lo dimostra – che col passar del tempo il potere federale si è esteso, le agenzie e le Corti federali hanno acquistato una competenza sempre più ampia e incisiva.
Il “melting” etnico degli Stati Uniti è stato reso possibile dall’elasticità della struttura costituzionale e politica e un analogo processo dovrebbe avvenire per quanto riguarda l’Europa.
Le classi dirigenti e i popoli sovrani europei saranno in grado di darsi carico del futuro? Noi ce lo auguriamo.

* * *

Oggi e domani alcuni milioni di italiani sono chiamati alle urne per i ballottaggi amministrativi. Sembra ed è un assai piccolo problema di fronte a quelli che abbiamo fin qui evocato. Ed è vero, è soltanto il dente d’una piccola ruota che a sua volta fa parte di ben più complessi ingranaggi. Ma basta a volte un granello di polvere per bloccare quella rotella rallentando o addirittura mettendo in crisi l’ingranaggio complessivo.
Io risiedo a Roma dove non si è votato. Sento tuttavia il dovere di esprimere la mia opinione sul voto di oggi e di domani ed è la seguente: andate a votare. Magari scheda bianca, ma votate. Ed abbiate ben chiara la responsabilità che incombe su ciascuno, quella di non bloccare l’ingranaggio e di non essere il granello di polvere che ferma la ruota.
Ciascuno decide quale sia il voto giusto per non bloccare l’ingranaggio o per sbloccarlo e rimetterlo in moto. Di solito si dice: gli elettori sono saggi, ma non sempre è vero. Nel recente passato hanno commesso molti errori che tutti stiamo ora duramente pagando. La memoria aiuti dunque ciascuno a non commetterne altri che oggi, dopo l’esperienza fatta, non avrebbero più alcuna giustificazione.


Finalmente i medici si occupano del malato grave
di Enzo Bettiza
(da “La Stampa”, 20 maggio 2012)

Se i mali non vengono solo per nuocere, si potrebbe ben dire che il disastro greco, giunto al suo atto finale, si manifesta proprio per questo come il momento della verità che finora tutti in Europa e in parte in America cercavano di evitare.

Offuscava il quadro della crisi, che era e resta soprattutto una crisi epocale dell’Occidente, una caterva di questioni economiche e finanziarie indubbiamente reali e credibili; ma spesso anche astruse, esagerate, teleguidate dalla mano invisibile dei mercati, dai giochi speculativi delle agenzie di rating, dalla disinformazione calcolatamente mirata alla diffusione del caos e del panico nelle Borse, nelle banche, nelle aziende, perfino nei governi e nelle masse e di nazioni periferiche più colpite dal grande dissesto.

L’unico fatto che in maniera incombente è apparso sospeso, come una spada di Damocle, sopra le teste dei partecipanti al G8 di Camp David, è stato il default ormai senza scampo della Grecia con tutto ciò che potrà conseguirne in tempi strettissimi: subito dopo, o anche prima, della prossime e reiterate elezioni del 17 giugno. La fuga di Atene dal tempio sconsacrato dell’Euro, il ritorno degli ateniesi alla mitica dracma d’argento che per primo protettore ebbe Apollo, insomma l’uscita non priva di paradosso storico e d’incubo dei greci da un’Unione che deriva l’appellativo di «europea » da una bellissima figlia del fenicio Agenore rapita dall’onnipotente Zeus.

Non sottovaluterei il senso simbolico, o se vogliamo il contraccolpo psicologico che non possiamo non avvertire all’idea di un’Europa già da anni travagliata, sempre più divisa, che ora sta per separarsi, in maniera caotica e forse definitiva, da una delle matrici più antiche e germinali della propria storia e cultura. Senza la lingua greca con tutti i suoi etimi sparpagliati fra le radici dei nostri idiomi indoeuropei, senza la Grecia classica, ellenica o ellenistica, o anche quella bizantina che durò dieci secoli cristianizzando slavi e asiatici, noi non saremmo ciò che siamo stati e che siamo ancora oggi.

Negli Anni 70, quando la Comunità europea d’allora inglobò nelle sue istituzioni la Grecia, fummo in molti a pensare, a sentire che il nuovo socio, accolto nell’impresa volta all’unità del continente, rappresentava per noi qualcosa di ben più significativo dell’acquisto di una semplice nazione balcanica. Avevamo la sensazione non solo di portare a termine un ineluttabile trattato politico ed economico; avevamo bensì la certezza di concludere, nel medesimo istante, con una tessera d’insostituibile rilievo ancestrale, il disegno di un mosaico culturale di cui noi stessi con la nostra attitudine all’arte, alla scienza, alla letteratura, alla filosofia, facevamo e facciamo geneticamente parte.

Tutto questo non va ovviamente confuso con una distorta visione parastorica basata su ricordi scolastici approssimativi, su facili stereotipi cinematografici e luoghi comuni da bassa letteratura. Non erano tutte rose quelle che fiorivano nella polis di Atene che «democraticamente » condannava Socrate alla cicuta, che avaramente conferiva il rango di legittimi «cittadini » a una minoranza oligarchica, periclea, riservando alle donne e agli schiavi un’esistenza umiliante di seconda mano. Non vanno poi dimenticate le guerre spesso inutili e suicide tra le varie polis, che faciliteranno la discesa imperialistica delle legioni macedoni, né gli intrighi levantini e le crudeltà spesso mostruose che molto più tardi perpetreranno i teocrati bizantini.

Ricorderemo certo con ammirazione lo scatto risorgimentale, che avverrà ancora più tardi, nel primo Ottocento, e avrà per protagonisti i combattivi patrioti greci cantati da Byron: greci autentici, non più «greculi », come si compiacevano di considerarli con sprezzo i diplomatici occidentali e i pascià ottomani.
Ma torniamo al presente. O, meglio, al passato prossimo e triste, segnato dagli Anni 90 in poi dall’avvento dell’euro, in cui tanti cittadini grandi e piccoli, ministri e uscieri, socialisti e conservatori dinastici, sono tornati a comportarsi da «greculi ». Hanno cominciato a guardare alle casse di Bruxelles, troppo indulgenti o distratte, come a forzieri in libertà cui era possibile attingere presentando conti sfalsati; hanno preso a vivere al disopra delle loro possibilità e a giustificare la loro condotta con argomenti spesso indecenti.

Il caso della Olimpiadi ateniesi del 2004 ha fatto scuola come la più scandalosa esibizione di scialo collettivo: «Una perfetta lezione » – è stato scritto – «su come si possa tracciare e percorrere a gambe levate una via nazionale alla miseria ». Il titolo di un recente bestseller di Stavros Lygeros, editorialista di punta del quotidiano Kathimerini, la dice tutta in quattro parole: «Dalla cleptocrazia alla bancarotta ». Ma sarebbe eccessivo e subdolo sostenere, come si sostiene oggi a Berlino, che i greci indistintamente sono tutti cleptocrati o cleptomani.

La cura di rigore imposta dalla cancelliere Merkel ai debitori ha un aspetto, più che terapeutico, gelidamente punitivo: una sorta di ordalia gotica che impone ai falliti di Atene il suicidio e ai mezzi falliti della Spagna la lenta narcosi prima della morte. Incalza il censore Lygeros: «Ci si chiede di ridurre il settore pubblico, licenziare 150 mila statali, mentre il problema è di riorganizzarlo. Abbiamo una preoccupante ondata di criminalità e un’invasione di clandestini, eppure ci chiedono di diminuire i poliziotti. Quello che invece chiediamo noi all’Europa non è solo questione di danaro; le chiediamo di darci una mano anche per liberarci dal giogo dei truffatori e delle clientele. Purtroppo la troika (Bruxelles, Francoforte, Fondo monetario) si è impuntata a imporre l’abolizione delle professioni chiuse che in Grecia non esistono. Un delirio. Ora siamo nella fase del saccheggio pubblico ». Nonostante tutto Lygeros, europeista convinto, sostiene che l’Europa non sarà in grado di reggere l’impatto dell’espulsione di Atene dall’Eurozona.

La stessa cosa l’ha sostenuta con fermezza l’ospite di Camp David, il presidente Obama, il quale domanda agli europei, anche tedeschi, meno austerità e più investimenti per la crescita. L’ultimo atto del dramma greco ha visto da una parte uniti l’americano Obama, l’italiano Monti, il francese Holland. Più che mai isolata e imbarazzata una Merkel, oltretutto segnata dai recenti lividi elettorali, con i socialdemocratici e gli stessi alleati liberali che ne contestano la durezza antiellenica. La brezza di svolta, di novità fra le sponde dell’Atlantico, è nell’aria. Forse ci voleva una malato grave nello sfondo. Non si sa quello che potranno fare i medici che si sono mossi: si sono comunque mobilitati e non è da escludere che, con un farmaco dolce, riescano a rimetterlo in piedi. Vedremo più chiaro dopo il 17 giugno.


Se Berlusconi è prosciolto la notizia viene nascosta
di Anna Maria Greco
(dal “Giornale”, 20 maggio 2012)

Titoloni per l’avviso di garanzia, mesi di paginate e paginate sulla vicenda giudiziaria, solo poche righe per l’assoluzione. Soprattutto, se l’accusato si chiama Silvio Berlusconi.

Per molti giornali c’è Notizia e notizia. Quella da esaltare e quella da nascondere, alla faccia del dovere di cronaca.
Succede, così, che la rassegna stampa di ieri sulla fine per l’ex premier del caso Mediatrade, riservi molte sorprese.

Non merita grande risalto, soprattutto sui quotidiani che abitualmente cavalcano con furia le campagne giudiziarie anti Cav, che la Cassazione abbia prosciolto l’ex premier dalle accuse di frode fiscale e appropriazione indebita, semplicemente perché «non ha commesso il fatto ». E cioè l’acquisto, a prezzi ritenuti gonfiati, dei diritti tv dalle major americane da parte del gruppo Mediaset.

Ecco, la conferma del proscioglimento di Berlusconi già deciso dal gup, Maria Vicidomini, ma impugnato con un durissimo ricorso dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro che hanno attaccato pesantemente la collega, merita poche righe e titoletti quasi invisibili su giornali che hanno versato fiumi d’inchiostro in passato su questa storia. Come La Repubblica, come Il Fatto, come L’Unità. Ma anche come Il Corriere della Sera.

Ora che la conclusione della vicenda giudiziaria non va per il verso forse sperato e che Berlusconi non finisce crocifisso, basta proprio il minimo per assolvere all’obbligo di passare ai lettori la notizia scomoda. Magari, facendo di tutto perché non la vedano, affogata com’è da tanto altro più importante.

Diamo un’occhiata ai quotidiani di ieri. La Repubblica dedica alla faccenda un mezzo colonnino, seminascosto a pagina 12; L’Unità le ritaglia un box grigiastro, in fondo a pagina 8; Il Fatto, malvolentieri, concede un riquadro ancor più piccolo a pagina 4. E Il Corriere della Sera riserva all’atto finale per l’ex premier del caso Mediatrade solo una spalletta a pagina 25, dando ampio spazio in tutta la prima parte del pezzo alle tesi (sconfessate dalla Cassazione) dei pm milanesi, che hanno ferocemente accusato la collega gup di aver prosciolto il Cavaliere peccando di «illogicità », «arbitrarietà », «svalutazione » delle prove, «travisamento » delle testimonianze, «errori e «illazioni opinabili ».

Poche righe, piccoli titoli, caratteri poco visibili, posizione defilata. Tanta delusione, ora che Berlusconi esce pulito dalla battaglia giudiziaria e la giudice Vicidomini ottiene la benedizione della Suprema Corte e prima ancora la difesa di chi al Palazzaccio rappresenta l’accusa, cioè il sostituto Procuratore generale Gabriele Mazzotta.

Si dirà che era una giornata densa di pesanti notizie di rilievo internazionale e non, dal G8 di Camp David alle ultime sulla crisi della Grecia, dall’Imu ai ballottaggi, dal caso Orlandi alla Fiat Mirafiori.

Ma che quotidiani «neutri », come La Stampa e Il Messaggero, abbiano deciso comunque di dedicare un grande titolo e una mezza pagina di cinque colonne alla decisione della Cassazione sull’assoluzione di Berlusconi per il caso Mediatrade, taglia la testa al toro.


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Bart