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Tre articoli

17 Giugno 2012

Il bluff del decreto sviluppo: altro che aiuti, son più tasse
di Franco Bechis
(da “Libero”, 17 giugno 2012)

Sembrano due testi talmente diversi da non appartenere alla stessa proposta di legge. La fregatura del decreto sviluppo è proprio lì: nella differenza abissale che c’è fra la relazione illustrativa compilata dagli uffici del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, e la relazione tecnica scritta dalla Ragioneria generale di Mario Canzio. La relazione illustrativa di Passera è tutta uno spot, scoppiettante, grandiosa, immaginifica. Quella di Canzio ridotta all’osso, con i piedi per terra, per riportare tutti ai fatti.

E i fatti raccontati da Canzio sono semplici: non ci sono euro per la crescita e lo sviluppo. Non sono usciti fuori dalla spending review, solo strombazzata ma non ancora in vigore. Per questo ciò che è stato messo in campo per aiutare le imprese e i cittadini a riprendersi è poco più di qualche spicciolo.

Canzio è freddo, ma preciso: 104,7 milioni nel 2012, 89,6 milioni nel 2013 e in tutto 435,2 milioni di euro nel triennio di bilancio in corso. La finanza pubblica si considera con un minimo di attendibilità su base triennale, poi alcune norme – anche in questo decreto – hanno impatto pluriennale perché diventano permanenti. In cinque anni il decreto sviluppo mette in campo un miliardo e 191 milioni di euro, in dieci anni si arriva a 3 miliardi e 163 milioni di euro, e siccome alla fine ci sarà una spesa permanente di 86,5 milioni di euro l’anno, come spiegato ieri su Libero per arrivare agli 80 miliardi di euro pomposamente annunciati da Monti e Passera venerdì bisognerà fare trascorrere 896 anni.

Per capire i linguaggi dei due, quello spot di Passera e quello della realtà parlato da Canzio, basta guardare l’articolo 18, che è poca cosa e c’entra nulla con il decreto. Si tratta della lodevole intenzione di rendere trasparenti tutte le spese della pubblica amministrazione al di sopra dei mille euro. C’entra nulla con lo sviluppo, anche se ieri il Sole 24 Ore che non osa criticare nemmeno un comma prodotto da palazzo Chigi e dintorni, è riuscito grottescamente a segnalare che la decisione ha un «basso impatto » sulla crescita. Anche un bimbo capisce che l’impatto non è basso, è zero. Proprio non c’entra nulla. Ma siccome Passera deve vendere la merce che ha nel sacco al meglio, e questo è quel che passa il convento, impiega ben quattro pagine scritte fitte fitte a lodarsi per la coraggiosa decisione. Aria strafritta, frasi di banalità sconcertante come «la più efficiente ed efficace razionalizzazione delle comunicazioni della P.A. consente di usare i dati e le informazioni raccolte per valutare e definire politiche pubbliche, economiche ed industriali mirate su una base di conoscenza oggettiva dei fenomeni ».

Risparmio altre amenità simili, ma traduco quel che significa questa frase: metto l’obbligo di legge di inserire sul sito Internet tutti i soldi che lo Stato distribuisce a pioggia con incentivi. Siccome io non sono riuscito a sapere quanti sono, se rispettano la norma io me li leggo sul sito e così mi faccio un’idea di quanti soldi ci sono e posso inventarmi altre acrobazie legislative. Le quattro pagine di filosofia di Passera diventano mezza riga nella relazione di Canzio: la gelida considerazione su «la norma non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica ».

Ecco, teniamo la linea Canzio, così si capisce il bluff del decreto. Cominciamo con i project bond: soldi nuovi messi in campo, zero. Andiamo all’articolo 2, sulla strombazzata defiscalizzazione per investire nelle infrastrutture: «La disposizione determina nuove entrate fiscali e la destinazione di parte di esse al soggetto privato non influisce sui tendenziali già scontati a legislazione vigente nel bilancio dello Stato ». Traduzione: non è un aiuto dello Stato alle imprese, ma è l’esatto contrario, più tasse da incassare. Articolo 10, sulla esenzione dell’Imu per le case dei costruttori invendute nei primi tre anni: vale 35,1 milioni di euro. Articolo 11, sulle ristrutturazioni edilizie e per efficientamento energetico. Qui c’è un tranello: aumentano le detrazioni, ma aumentano gli incassi Iva, Irpef, Ires e Irap. Nel 2012 vince lo Stato: incassa 13,7 milioni di euro in più. Nel 2013 è quasi parità: lo Stato ci perde un nulla: 3,1 milioni di euro: È solo dal 2015 in poi che l’intervento diventa consistente per i cittadini e le imprese.

L’articolo 14 stanzia 70 milioni di euro per i porti italiani. Canzio rivela però che analoga cifra- 70 milioni di euro – è tolta alle ferrovie in concessione governativa. Il costo quindi è zero. Per altro l’articolo successivo, il 15, definanzia le infrastrutture portuali e secondo Canzio recupera alle finanze dello Stato 115 milioni di euro. Degli altri 61 articoli 25 non comportano nessuna spesa dello Stato, 22 recuperano addirittura risorse al bilancio dello Stato, due addirittura inaspriscono il carico fiscale sulle imprese (come nell’estrazione di gas e olii, che garantiscono subito almeno 39 milioni di euro di maggiori tasse), 13 spostano risorse da un capitolo all’altro del bilancio dello Stato senza mettere un centesimo in più di prima. Solo uno assegna risorse in più: quello che ricapitalizza imprese dissestate come quelle della navigazione sul lago di Como, dove la famiglia Passera esercita la sua attività. Senza quello, nel 2012 e nel 2013 il decreto sviluppo è più quel che incassa con nuove tasse di quel che regala a imprese e cittadini.


Il nocchiero e i pirati
di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 17 giugno 2012)

Su Monti e il suo governo le opinioni – ma anche i sentimenti – divergono. C’è chi vede il professore come colui che ci ha finalmente liberato dal teatrino della politica (e da Berlusconi), e chi lo vede come il tecnocrate che sta imponendo un’inutile austerità a un Paese già stremato. C’è chi lo vorrebbe più socialdemocratico e chi lo vorrebbe più liberale. C’è chi plaude ad ogni atto del suo governo, e chi trova da ridire su quasi tutto.

Personalmente sono passato da un sostegno colmo di speranza (primi mesi), a un dissenso colmo di delusione (ultimi mesi). Ma qui vorrei lasciar perdere quel che rende diverso l’atteggiamento di ognuno di noi, cittadini, studiosi, osservatori, e vorrei concentrarmi sui sentimenti e i pensieri più condivisi, quelli che vanno al di là degli schieramenti e delle manie personali. C’è qualcosa che in molti, forse la maggioranza, pensiamo del governo Monti?

Sì, credo di sì, ci sono parecchie cose che pensiamo e parecchie cose che vorremmo. Una prima cosa è che al momento – non ci sono alternative migliori, più credibili, più affidabili. Specie a livello europeo, Monti è la persona che più autorevolmente può difendere, ed effettivamente difende, gli interessi dell’Italia.

Certo questo non lo pensano tutti, ma credo sia piuttosto difficile per chiunque immaginare che uno qualsiasi dei leader o degli aspiranti leader politici di questo Paese possa fare meglio e di più di Monti nel complesso negoziato in corso fra i maggiori paesi europei.

Ma oltre alle cose che in molti pensiamo, ci sono le cose che in molti vorremmo, al di là delle differenze di opinione sulla politica economica del governo. E queste sono cose per lo più critiche verso il governo, ma di un tipo di critica che va al di là delle differenze fra schieramenti e fra concezioni generali del bene pubblico. Che cosa non ci è piaciuto di questo governo? Che cosa non vorremmo più vedere nei prossimi mesi? Credo che queste cose si possano sintetizzare in due punti fondamentali.

Primo punto. Meno annunci, meno approssimazioni, meno personalismi dei ministri, meno marce indietro, in una parola: più fatti, meno parole. Fa una gran brutta impressione la promessa di fare una riforma incisiva entro pochi mesi, e poi il solito temporeggiare, indietreggiare, rimodulare, demandare, delegare. Certe riforme si possono anche non fare, ma se dici di farle entro 3 mesi poi le devi fare, devi stare nei tempi, e devi farle sul serio. Se non sei in grado, meglio non fare niente. Dice nulla il fatto che lo spread sia migliorato nei primi mesi dell’anno, quando l’immagine riformatrice del governo era ancora intatta, e sia sistematicamente peggiorato quando si è capito – l’abbiamo capito tutti, e quindi anche i mercati che il governo, come avrebbe detto il buon Berlinguer, aveva perso la sua «spinta propulsiva »?

Secondo punto. Più autonomia dai partiti che lo sostengono. Sulle nomine, sul disegno di legge anti-corruzione, sui costi della politica, sulla riforma della pubblica amministrazione, il governo ha subito costantemente il condizionamento dei partiti. Come cittadino, io mi sento profondamente offeso e preso in giro da un governo che, presumibilmente per volere del ceto politico, non trova il coraggio di varare una norma che proibisce ai condannati definitivi di candidarsi alle elezioni del 2013. E come studioso di cose elettorali mi stupisco che i sondaggi assegnino a Beppe Grillo solo il 21% dei consensi. Siamo davvero un popolo paziente se alla politica consentiamo tutto, forse distratti dal campionato europeo di calcio.

Ma personalmente non credo che Grillo sia la soluzione. Grillo è un termometro, che ancora imperfettamente ma inesorabilmente registra l’aumento della febbre anti-partitica dell’elettorato. Per questo trovo incredibile che i partiti non se ne accorgano, e continuino a regalargli consensi che difficilmente saranno in grado di risolvere i problemi dell’Italia. E ancora più incredibile trovo il fatto che questo governo, che non è composto da politici in carriera (salvo qualche ministro che ci sta facendo un pensierino), non separi chiaramente le sue responsabilità da quelle dei partiti. Non solo sulle nomine, sui costi della politica, sui privilegi della casta, ma sulle cose che davvero possono cambiare la vita degli italiani, ossia su quelle riforme radicali di cui da vent’anni si parla e di cui lo stesso Monti era un convinto sostenitore finché parlava dalle colonne del “Corriere della Sera”.

Ci dica, signor presidente del Consiglio, che cosa farebbe lei, e in quali tempi lo farebbe, se i partiti che la sostengono le dessero il permesso di farlo. Separi le sue responsabilità da quelle dei partiti, se non altro per un dovere di chiarezza e di trasparenza nei confronti dei cittadini. Usi la sua forza – la forza di essere difficile da sostituire con un’alternativa migliore – per fare quel che ritiene debba essere fatto per il bene dell’Italia. Come elettori, vogliamo sapere se quel che non si fa è perché lei non lo ritiene utile al Paese, o perché il ceto politico le lega le mani, o perché a remarle contro sono la burocrazia, le banche, la Confindustria, i sindacati.

Anziché lamentarsi più o meno cripticamente dei poteri forti che l’avrebbero abbandonata, ci dica che cosa lei farebbe e chi glielo impedisce. A partire dal problema della eleggibilità dei condannati definitivi ma anche su tutto il resto (le riforme strutturali), che conta di meno sul piano morale ma conta di più sul piano pratico. Perché siamo in un periodo di grande confusione, di grande disorientamento, e proprio per questo abbiamo bisogno di sapere, di capire. La stampa può essere più o meno tenera con lei. Dentro il medesimo giornale lei troverà osservatori che la difendono ed osservatori che la criticano. Ma credo che tutti, senza distinzione, almeno un desiderio in comune ce l’abbiamo: più chiarezza. Chiarezza sulla rotta del nocchiero, notizie sui pirati che ne minacciano la navigazione.


Giacomo Agostini. Dalle gincane ai quindici titoli 70 volte Ago: «Che anni… »
di Massimo Solani
(da “l’Unità”, 14 giugno 2012)

«Sono un po’ triste, mi guardo e penso “Madonna quanto tempo è passato e quanto poco ne ho ancora davanti a me”. Però sono un uomo fortunato: ho avuto tanto dalla vita, più di quanto potessi immaginare ».

Giacomo Agostini dopodomani compirà 70 anni. I primi settanta anni di una leggenda vivente, il più grande pilota di motociclismo della storia con i suoi quindici titoli mondiali vinti a cavallo fra gli anni 60 e 70. Una carriera iniziata nella provincia di Brescia, un Dna “vergine” di motori, benzina e asfalto.

«La mia era una famiglia normale – racconta – Mio padre Aurelio era laureato in economia e commercio e aveva una azienda di falegnameria che andò in fiamme durante la guerra. Poi lavorò come segretario comunale a Lovere, in provincia di Brescia. Vallo a capire da dove mi è venuta la passione, è nata con me. Ho dovuto lottare molto per seguirla, a partire dai litigi con i miei genitori che non volevano che corressi ».

Hanno dovuto arrendersi però…
«A 9 anni mio padre mi regalò un “Aquilotto” Bianchi, 48 di cilindrata a rullo. Quando pioveva il rullo slittava sulla gomma e non andava neanche a spingerlo: faceva forse i 30 orari, non è che fosse così pericoloso. Poi venne il “Paperino” con cui iniziai a fare le prime gincane. Io neanche volevo, la prima volta mi hanno proprio dovuto spingere: c’era una persona che gareggiava senza una gamba, mi sono detto che se poteva farcela lui allora potevo riuscirci anch’io. Avevo 11 anni ».

Che cos’erano le gincane?
«Gare organizzate negli oratori o nei campi da calcio in terra battuta. C’era un percorso con birilli, salti, prove di equilibrismo sugli assi, passaggi ad ostacoli. Ho iniziato a vincere da lì ».

Leggenda vuole che il permesso di gareggiare suo padre lo firmò su consiglio di un notaio sordo.
«Più che sordo direi che non aveva capito bene. Pensava si trattasse di corse in bicicletta e non in motocicletta, così disse a mio padre di lasciarmi provare che fare sport fa bene e tiene i ragazzi lontani dalla strada. Lo convinse lui a firmare il documento necessario ».

Nel suo caso non la tolse affatto dalle strade…
«Direi proprio di no. La prima gara fu una competizione in salita, la Trento-Bondone nel 1961, corsa con un Morini 175. Arrivai secondo »

Da lì non si fermò più…
«Avevo una Morini che avevo comperato io stesso e con quella vinsi una Bologna-San Luca. Alfonso Morini si accorse di me e mi affidò una moto ufficiale per il campionato italiano. Fin ad allora me ne andavo in giro con la mia macchina assieme a un amico che faceva il panettiere. Da pilota ufficiale mi godevo il lusso di avere il trasporto organizzato dall’azienda, non mi pareva vero ».

Poi l’esordio fuori dall’Italia. Quando?
«Luglio 1964 a Solitude, nella Germania dell’Ovest. Partii come un razzo, guidavo un monocilindrico 250 in mezzo a mostri sacri come Jim Redman, Luigi Taveri o Phil Read. Ma andavano troppo forte e chiusi quarto. Comunque un esordio non male ».

Da lì l’epopea di “Ago”, il passaggio alla Mv Agusta, i quindici mondiali vinti in pista e quelli conquistati dal box come manager. Fra i tanti avversari incrociati in pista c’è qualcuno che ricorda con particolare piacere?
«Come pilota Mike Hailwood, era davvero un grande e pochi come lui mi hanno fatto davvero sudare in pista. Mentre invece, dal lato umano, conservo un grande ricordo dello sfortunato Renzo Pasolini, era un ragazzo davvero affettuoso. Però nel nostro mestiere è difficile diventare amici, c’è troppa concorrenza e voglia di battersi. C’è rispetto, certo, ma di amicizie vere non molte ».

Lei è stato uno dei primi piloti a battersi davvero per la sicurezza in gara. Storico il suo rifiuto di correre il Tourist Trophy sull’isola di Man dopo la morte del suo amico Gilberto Parlotti.
«Era il giugno 1972, la sera prima della gara eravamo usciti insieme a fare un sopralluogo sulla pista. Ero più esperto di lui e mi aveva chiesto di accompagnarlo per spiegargli alcuni dettagli del circuito. Correva con la 125, mentre io avrei partecipato al Senior TT più tardi, ma al secondo giro ebbe un incidente e morì. A quel punto presi altri piloti e dissi “adesso basta, non è possibile che ogni anno muoia qualcuno di noi. È arrivato il momento di fermarci”. Non corsi più il TT dopo quel giorno ».

Morire in pista era una tragica costante.
«Purtroppo le piste erano quello che erano e i circuiti erano per lo più strade aperte al pubblico che venivano chiuse in occasione delle gare. Non c’erano vie di fuga, non c’erano o quasi protezioni e cadere significava quasi sempre farsi molto, molto male ».

Negli anni 70, all’apice della carriera, Agostini diventa una delle prime star globali. Successo, soldi, pubblicità, film. Come ricorda quella stagione?
«Anni meravigliosi, e forse nemmeno io mi rendevo ben conto di dove ero arrivato. Anni bellissimi fra le moto e un mondo spettacolare da cui ho imparato davvero molto ».

A Natale 1977 l’annuncio del ritiro. Poi l’esperienza con le auto da corsa e infine il passaggio dietro al muretto. Come è stato mollare tutto?
«Fu davvero duro. Quando decisi di smettere piansi per tre giorni. Ma era arrivato il momento giusto, in pista c’erano ragazzi più giovani che ragionavano con la testa dei ventenni, io avevo 35 anni e il mio modo di pensare ormai era troppo diverso. Non è che all’improvviso non sei più capace di andare in moto, ma ci sono quei piccoli segnali che ti fanno capire che è arrivata l’ora di fermarsi. Però lasciare il mio grande amore è stata dura, anche se poi fare il team manager è stata una esperienza fantastica ».

Tre mondiali vinti con Eddie Lawson e tanti campioni “svezzati”.
«Kenny Roberts, che era un grandissimo. Poi John Kocinski che era una bestia con un caratteraccio insopportabile. E ancora Luca Cadalora, una persona squisita e un pilota formidabile. E tanti altri ancora… ».

Diceva che quando si decide di smettere ti scatta qualcosa in testa. Ha visto la stessa cosa negli occhi di Casey Stoner? «Probabilmente Casey si è semplicemente disamorato delle due ruote. Se è così ha ragione lui a dire basta. Complimenti per il coraggio: io a 35 anni ho pianto per tre giorni, lui ha 27 anni ed è ancora un bambino, ma se ha deciso così fa bene a chiudere qui ».

In molti hanno visto in Valentino Rossi il suo erede naturale. Le due stagioni in Ducati sin qua sono state avare di successi. Crede che tornerà a vincere?
«Io non credo affatto, come dicono molti, che Rossi sia finito. Ci sono tanti grandi piloti e pochi grandi talenti. Valentino è uno di questi ultimi. Ora le cose non vanno benissimo ma sono sicuro che quando tornerà a sentirsi a suo agio su una grande moto tornerà a lottare per la vittoria ».


Letto 1962 volte.


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Bart