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E ora nella Lista Monti scatta l’allarme. L’operazione civica non decolla

18 Gennaio 2013

Stallo nei sondaggi, il premier pronto a una maggiore equidistanza
di Fabio artini
(da “La Stampa”, 18 gennaio 2013)

ROMA. Allarmismi non ne trapelano, eppure un filo d’ansia comincia a serpeggiare nell’entourage di Mario Monti. A 25 giorni dalla «salita in politica », l’operazione «Scelta civica » fatica a decollare, come dimostra la sequenza dei sondaggi più credibili: dopo una iniziale lievitazione delle intenzioni di voto per la Lista Monti, l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli ha segnalato nell’ultima rilevazione (interviste svolte il 14 gennaio) una inversione di tendenza, con una significativa retrocessione, dal 12 per cento al 10,9, con una flessione dell’1,1%, che nell’arco di sette giorni è considerata poco incoraggiante dagli esperti del ramo. Per non parlare dell’ultimo sondaggio di Euromedia della signora Ghisleri, che lavora per Berlusconi e spesso «ci prende »: «Scelta civica » è inchiodata ad un poco gratificante 6,0%. Con una aggravante dall’angolo visuale di Udc e Fli: l’ingresso in scena di «Scelta civica » rischia di cannibalizzare gli alleati, fenomeno anche in questo caso confermato dai sondaggi, che da qualche giorno stanno arretrando l’Udc verso una quota (il 4%) mai sfiorata neanche nel periodo della massima «quaresima ». Per non parlare del Fli, la cui «nuova frontiera » sembra esser quella di restare sopra l’1 per cento.

E proprio il persistente stallo della Lista Monti rende infondate le illazioni più estensive circa il colloquio che si è svolto due giorni fa tra il presidente del Consiglio e Pier Luigi Bersani e riferito da due quotidiani. La voce secondo la quale tra i due sarebbe stato stipulato un «patto di non belligeranza » è stata smentita da diversi esponenti del Pd in una serie di dichiarazioni pubbliche, ma è soprattutto in privato che Monti e Bersani hanno chiosato senza equivoci il senso della chiacchierata: nulla di più che una messa a punto, nel tentativo di smussare alcune asperità. A Bersani stava a cuore capire se fosse nella disponibilità di Monti convincere Gabriele Albertini a ritirarsi in Lombardia, favorendo così il candidato alla Regione del Pd Ambrosoli. Operazione troppo complessa da realizzare in zona Cesarini. E dunque, tra Monti e Bersani l’intesa è quella di un confronto elettorale senza asprezze personali, ma tosto nella sostanza.

In altre parole nessuna «combine » e Mario Monti lo dimostrerà nel suo primo comizio, quello che domenica terrà a Dalmine, davanti a tutti i candidati della sua Lista. Si preannuncia una ritrovata equidistanza dai due poli, se possibile con una riscossa degli argomenti polemici anti-sinistra, visto che nell’ultima settimana Monti ha indirizzato il suo fuoco dialettico soprattutto verso Berlusconi. Un approccio considerato promettente da uno che l’elettorato di centrodestra nordista lo conosce bene, come il milanese Giorgio Stracquadanio, già deputato del Pdl: «Davanti ad un elettorato di centrodestra che oramai vorrebbe un leader credibile e fa quel che dice, guai se Monti appare come l’alleato minore di Bersani. Così non prende più un voto e invece per prenderli a destra deve essere alternativo a Bersani, magari prendendo a pretesto una posizione vessatoria del Pd e schiacciando a sinistra il segretario. E non c’è soltanto un problema di posizionamento: una campagna elettorale si affronta dando una prospettiva, certo non con slogan come “Per non tornare indietro”. Tradotto: al massimo stiamo fermi ».


La commedia dell’arte dei talk in tv
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 18 gennaio 2013)

Così come la commedia dell’arte, dapprima avversata e confinata dai classicisti al rango di fenomeno popolaresco, poi accolta e rielaborata dal teatro e dalla letteratura alta, perfino fran ­cese (Molière), anche la campagna eletto ­rale in corso, da molti considerata buffonesca, fuori dagli schemi tradizionali, con tratti cabarettistici, improntata a piccole e grandi bugie e generosa di battute salaci, farà scuola. Sarà difficile che i comizianti del futuro tornino all’etichetta delle educa ­te e noiose Tribune di qualche anno fa, quando i giornalisti, compostamente se ­duti ai loro banchi come scolaretti intimi ­diti, rivolgevano domande brevi all’ onore ­vole sul pulpito (affiancato daunmoderatore-pompiere), e questi rispondeva sen ­za essere interrotto, quindi mai contrad ­detto.

Erano tempi in cui deputati e senatori, o aspiranti tali, godevano di notevole presti ­gio (non sempre meritato); in televisione non tutti facevano un figurone, ma nessu ­no veniva trafitto da interrogativi al vele ­no. Gli appartenenti alla Casta polemizza ­vano fra loro in modo garbato, consapevo ­li che per farsi rispettare dovevano essere rispettosi. E i telespettatori sbadigliavano, il più delle volte.

Lo stile dei dibattiti è profondamente cambiato. I protagonisti delle di ­spute politiche sembrano ispirati dal Ruzante (Angelo Beolco). Recitano. Hanno in testa una traccia e improvvi ­sano. Più grosse ne dicono, meglio è: non sale soltanto l’audience, ma an ­che il consenso degli elettori. La tivù è popolare per definizione: sfruttar ­ne le potenzialità richiede dimesti ­chezza col popolo. Silvio Berlusconi in questo campo ci sa fare: non è un caso che la televisione (commercia ­le) l’abbia inventata lui, e non può stu ­pire che egli sia il più bravo a usarla per arricchirsi e per svettare negli in ­dici di ascolto, gemelli dei sondaggi. Non so se consapevolmente o no, il Cavaliere ha innovato la comunica ­zione politica; il fatto che la maggio ­ranza degli opinion leader siano suoi critici disgustati significa una cosa: la tecnica del Cavaliere davanti alle tele ­camere, se non funziona nei salotti bene, funziona benissimo nei tinelli, assai più numerosi.

Non è sufficiente parlare per farsi ascoltare dalla gente, bisogna farsi ca ­pire; esprimersi in un linguaggio sem ­plice che aiuti a sorridere e non a dor ­mire. Gli esteti inorridiscono alle gag del commediante di successo, ma so ­no un’esigua minoranza, mentre la massa dei cittadini comuni apprezza chi ha un lessico rasoterra. È lecito di ­scettare a lungo sui contenuti dei di ­scorsi e dei battibecchi, sulla simpa ­tia o l’antipatia dell’uomo, tuttavia contano i risultati. E quelli di Berlu ­sconi dimostrano un particolare da non trascurare: egli più dei suoi avver ­sari è in sintonia con la gente, anche quella che non ne condivide le idee.

A proposito dei suoi avversari, i let ­tori avranno constatato che essi cer ­cano maldestramente di imitare il Ca ­valiere: gli rubano il mestiere di guit ­to disinvolto sulla scena nella vana speranza di catturare, quanto lui, l’at ­tenzione degli elettori. Vuol dire che sotto sotto ne ammirano le doti an ­che se a parole non le riconoscono co ­me tali. Perché Berlusconi buca il vi ­deo? Mi scuso per la forzatura, ma il presidente del Pdl è paragonabile a Pantalone (per rimanere nella com ­media dell’arte), nel quale il pubbli ­co vede riflessi i propri vizi e le pro ­prie virtù.

Pantalone è un archetipo, una per ­sonalità che in sé riassume i vizi e le virtù dell’ umanità intera, e nella qua ­le chiunque si identifica o trova un modello da seguire. Pantalone è ric ­co, galante, discusso, ammirato, de ­plorato. Ha qualità che o rendono in ­vidiabile e difetti che lo umanizzano suscitando simpatia, addirittura sen ­timenti di solidarietà. In pratica, pia ­ce perché ci somiglia e stuzzica la vo ­glia di somigliargli. Ama esibirsi, ostentare la borsa, sottolineare la pro ­pria superiorità. È un impasto di for ­za e di debolezza. È uno di noi che ce l’ha fatta, e osservandolo ci illudia ­mo di potercela fare come lui.

Silvio Pantalone è l’esatto contra ­rio di Mario Monti. Monti ricorda il dottor Balanzone, dispensatore di scienza, un po’ trombone, non pro ­prio un azzeccagarbugli, ma quasi. Non si degna di conversare: parla ex cathedra. Dalla sua bocca escono sen ­tenze inappellabili. Ipse dixit: ho sal ­vato l’Italia. Non è un’opinione, ma un dogma. Quelle del docente non so ­no chiacchiere, ma orazioni. L’effet ­to che producono è rassicurante, tal ­mente rassicurante da conciliare il sonno. Monti è un potente anesteti ­co, efficace anche quale analgesico, in piccole dosi; se hai il mal di denti, basta udire la sua voce monocorde per cinque minuti: passa.

Quelli come lui un tempo si espri ­mevano in latino, ora optano per l’in ­glese: perché dire revisione della spe ­sa se si può complicare tutto dicendo spending review? Il Novello Balanzo ­ne spacca il capello: afferma di non essere sceso in politica, ma salito. È una contraddizione. Per raggiunge ­re Pier Ferdinando Casini e Gianfran ­co Fini non bisogna volare in solaio, ma precipitare in cantina, sede dei partitini. Non lo dico io, bensì i son ­daggi. Il premier dimissionario ce la mette tutta, ma non basta. Nel ruolo di professore prestato alla politica è riuscito per un anno a ipnotizzare gli italiani, convincendoli che, rabbo ­nendo mamma Europa, ogni problema si sarebbe risolto, comprese le biz ­ze di quel monellaccio dello spread. Tolto il loden d’ordinanza e indossa ­ti i panni del comiziante, l’asino è ca ­scato.

Il bocconiano si aspettava un’accoglienza festosa dagli elettori: eccitato dai troppi inchini dei media, aveva la certezza di mietere voti a destra e a si ­nistra. Ma la realtà dell’arena è dura. Un conto sono le conferenze stampa, un altro le battaglie elettorali che im ­pongono di menare le mani e di spor ­carsele; un conto è fare il docente, un altro è fare il tribuno. Questo non è pa ­ne per i denti di Balanzone. Lui si im ­pegna, ma non mastica la materia. Pur di strappare qualche suffragio ha rinnegato se stesso: dopo aver au ­mentato tutte le tasse e averne inven ­tate di nuove, ultimamente predica che occorre diminuirle, che è neces ­sario congelare l’iva e sbarazzarsi del redditometro.

Monti che si improvvisa anti Monti è ridicolo, non credibile. Il suo hu ­mour del piffero è pastina glutinata. I suoi monologhi sono terapie antiipertensive e provocano svenimenti anche ai cameramen. Le sue lezioni di europeismo sono pesanti quanto un piatto di Wurstel e crauti, roba di ­geribile soltanto per Angela Merkel. Noantri gente volgare preferiamo il ri ­sotto di Berlusconi,  anche se riscalda ­to.


L’arcano d’ancien regime
di Franco Cordero
(da “la Repubblica”, 18 gennaio 2013)

La Consulta spiega per ­ché abbia accolto il ri ­corso con cui il Quirina ­le chiedeva la distruzio ­ne occulta dei nastri d’un dialo ­go in quattro puntate: l’ex mini ­stro, ora imputato quale falso te ­stimone sui torbidi rapporti Stato-mafia, invocava soccorsi sotto banco; e in un contesto si ­mile il Presidente (d’ora in poi P.) agisce extrafunzioni. L’intercet ­tato non era lui ma l’interlocutore, quindi ascolto legittimo (nes ­suno se l’aspettava nella rete acustica) : e ritenendo inutili i nastri, gl’indaganti contavano d’obliterarli; il quale epilogo richie ­de un provvedimento del giudi ­ce in contraddittorio. Motivare la conclusione affermativa era exploit proibitivo. Se sia riuscito, lo  vede ogni lettore esperto. Nel ­l’ordinamento italiano le norme preesistono alla decisione, enucleabili dalle fonti. Qui sono due i testi. Secondo l’art. 90 Cost. il Presidente non risponde degli atti d’ufficio, esclusi tradimento e attentato alla Costituzione: nemmeno una sillaba sul segre ­to vocale; che «la persona del Re » fosse «sacra e inviolabile », era l’art. 4 dello Statuto albertino. L’art. 7, cc. 2 e 3, l.5 giugno 1989 n. 219, poi, ammette intercetta ­zioni dirette e misure coercitive nei confronti del sospeso dalla carica. Tutto lì. Mancano previ ­sioni esplicite. Vero, ammette la Corte. Ma l’esegesi letterale è «metodo primitivo ». Sentiamo quale sia l’evoluto. Aristotele lo chiamava petitio principii: dare per vero quel che va provato. Vie ­ne così comoda. í€ntoine Arnauld e Pierre Nicole (Logique ou l’art de penser, Paris 1662, III, XIX, 2) ne citano una che Galileo im ­puta allo stesso Aristotele: è na ­tura delle cose pesanti tendere al centro dell’universo; e consta sperimentalmente che tendano al centro della terra; dunque, la terra è centro del cosmo. Stordi ­ti dall’onda verbale, spesso i di ­sattenti cadono nell’imbroglio.

I motivanti s’alzano a volo: P. modera, stimola, avvia, consi ­glia, influisce, discreto persua ­sore (memorabili gl’insistenti inviti alle «larghe intese », quan ­do Re Lanterna tosava l’Italia); impersona l’unità nazionale, non solo nel senso geografico ma in quello d’una armoniosa coe ­sione; intesse equilibri e raccor ­di (vedi l’apporto tra le quinte in due leggi che B. s’affatturava cer ­cando l’immunità, dichiarate invalide).

Qualcosa d’analogo avviene nelle fantasmagorie raccolte da James Frazer, Il ramo d’oro: se il re starnuta, trema la terra del re ­gno; il benessere collettivo gli costa fatiche erculee. Questo nesso implica carismi indefinibili, esperiti nell’ombra perché tra ­pelando l’atto nuocerebbe al corpus mysticum; ad esempio, è fisiologico che P. intervenga sub rosa in singoli casi processuali, senza interferire, beninteso: di ­scorso nient’affatto plausibile, anzi vistosamente falso; inter ­venti simili sanno d’abuso.

Formulata la petitio, il resto se ­gue facile: un conto è essere sot ­toposti a controllo telefonico, al ­tro incapparvi su linee sospette; la differenza spiega i diversi regi ­mi ma i quirinalisti se ne disfano in due battute, avendo postulato una «protezione assoluta », data la quale i due casi s’equivalgono; senonché lì stava il punto in cui scavare. Effusioni esclamative non sono argomenti. Delineata l’augusta figura umbratile-aracnoide, un ragno nella tela, salta fuori l’idea che tale poliforme la ­vorio implichi spazi assoluta mente riservati: gl’interna corporis non ammettono occhi né orecchie profani; perciò sarebbe distrutto anche il reperto fonico da cui risultino atti delittuosi non inquadrabili nelle funzioni (am ­missibili, invece, testimoni e documenti, come mai?: l’attuale Capo dello Stato pretende addirittu ­ra d’essere immune, finché dura la carica). La Corte canta una mi ­stica dei carismi presidenziali vo ­lando sopra i testi; e una fiorente retorica maschera male i sentori regressivi; s’era persino detto che dopo questa decisio ­ne ognuno sia più li ­bero di quanto fosse, e simili giaculatorie.

L’arcano quirinalesco è tutto fuorché connaturato alla dia ­lettica democratica, sa d’ancien régime. In una visione moderna e laica (conforme al testo, letto senza contorcimenti) al Presi ­dente non servono scudi immunitari ol ­tre quanto dispone l’art. 90; mai se n’era sentito il bisogno nei sessantacinque anni della Carta; né la que ­stione sarebbe esplo ­sa senza la gaffe coperta da un rimedio ancora meno felice.
Veniamo al quid agendum. I reperti vanno distrutti sen ­za che le parti vi mettano becco, in ermetico segre ­to, stabilisce la Corte ma, inteso così, l’art. 271 risulta invalido. Erompono i paradossi: la nor ­ma evocata è fantasma, man ­cando ogni previsione ad hoc; tre esplicite impongono il con ­traddittorio. Vediamole: art. 24 Cost.: la difesa, «diritto inviola ­bile », va in fumo dove siano ri ­dotte in cenere le prove da cui risulta innocente l’imputato o addirittura l’irrevocabilmente condannato; prima del rogo deve potervi interloquire. Art. 111: il  processo penale esige un pie ­no contraddittorio (c. 2); e c. 4, sul come sia formata la prova. Art. 112: l’azione obbligatoria perde tale connotato quando sparisca il materiale fonico re ­lativo a fatti perseguibili svelati da P. Esiste una sola via d’usci ­ta, che il giudice sollevi la que ­stione investendo la Corte: dica se e come l’art. 271, amputato del contraddittorio, sia compa ­tibile con i predetti. Tre norme positive, incontrovertibili, smentiscono un fantasma nor ­mativo. Sbaglia chi dica: ri ­spondono già i motivi della sen ­tenza; lì non se ne parla. L’og ­getto deciso era un conflitto Quirinale-Procura: la Corte l’ha risolto a favore del Colle, indi ­cando la norma applicabile nell’art. 271; ma letto a quel modo, viola la Carta; è res iudicanda nuova. A proposito d’effetti pa ­radossali, cos’avverrebbe se conversando con l’intercetta ­to, P. parlasse del colpo di Stato al quale lavora?


L’inciucio Monti-Bersani: Il segretario Pd premier, Casini al Senato, Draghi al Colle
di Luca Romano
(da “il Giornale”, 18 gennaio 2013)

Stando a quanto rivelato dal sito Dagospia, dal famigerato incontro segreto tra Mario Monti e Pier Luigi Bersani sarebbe venuto fuori una sorta di manuale Cencelli rivisitato.
“Il Pd non molla, se vinciamo io farò il premier anche se al Senato dovesse mancare qualcosa, colpa di questa assurda legge elettorale che si chiama porcellum, tu avrai la prima scelta sul ministero dell’Economia o sul ministero degli Esteri per stare dentro la partita ai vertici dello Stato, in attesa che maturino le scadenze della presidenza della Commissione europea e di presidente del Consiglio d’Europa, presidenze che ti stanno particolarmente a cuore”.

Nel summit tra i due, a parlare e a dettare le condizioni sarebbe stato il segretario democratico. Il bocconiano si sarebbe limitato a prendere appunti e ad annotare le richieste del Pd. Richieste che parlano poi di una convergenza sul nome di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica. “Dobbiamo accordarci sul fatto che esprimiamo noi il presidente della Repubblica, che non potrà che essere Mario Draghi perché se non libera il posto alla Bce tu in Europa non ci vai. È il candidato lanciato per prima da Berlusconi? Chi se ne frega, da oggi è il nostro candidato, così anche Angela Merkel è contenta”.

Per quanto riguarda il futuro di Casini, Bersani avrebbe detto che il leader dell’Udc, grazie al suo rapporto personale con Massimo D’Alema, potrà “anche aspirare alla presidenza del Senato ma sappi che D’Alema non è più D’Alema e non esprime più una influenza decisiva”. Alla fine un’unica raccomandazione: “Caro Mario, mi raccomando, il nemico è Berlusconi (anche se tu lo votasti nel ‘94). Questo ha sette vite, diamogli addosso”.
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Anche qui (Dagospia) e qui.


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Bart