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FAVOLE: La casa dei folletti

9 Novembre 2007

di Loreta Cerasi Mandrelli

[L’ultimo romanzo di Loreta Cerasi Mandrelli: “Arlette. Il romanzo di una donna dell’anno Mille concubina del duca di Normandia Roberto il Magnifico e madre di Guglielmo il Conquistatore”, Il Segno dei Gabrielli, 1999]

Era una di quelle domeniche d’inverno in cui si ama restare davanti al caminetto, sperando di non dover uscire per chiamate urgenti.

Il nonno Mario, medico condotto del paese, aveva programmato come sempre di trascorrere almeno due ore col giornale, il sigaro e la grappa; poi si sarebbe addormentato e nessuno lo avrebbe disturbato, perché il suo riposo era sacro.
Le mie quattro cugine approfittavano di quelle ore di forzato silenzio domenicale per andare in giro a spettegolare con le amiche, o per giocare a biliardino nell’unico bar della piazzetta in salita.
Non mi portavano mai con sé.
Io, unico maschietto, e ultimo, nella nidiata di cinque nipoti, estromesso dai giochi delle femmine sin da quando ero nato, mi ero abituato a gestire la mia solitudine rifugiandomi nella biblioteca del nonno che concedeva solo a me l’uso di quell’importante stanza. “Le tue cugine sono ancora piccole”, mi diceva. “Non sono in grado di apprezzare tutto il sapere racchiuso qua dentro.” In realtà, ero io il più piccolo di tutti, ma ero anche il solo discendente a portare il suo cognome perché mio padre era il suo unico figlio maschio.
Non che approfittassi del privilegio o ne abusassi! Avevo solo otto anni. Mi limitavo ad usare la scrivania per disegnare e il registratore per ascoltare le cassette di fiabe che tutti mi regalavano; ma almeno lì potevo stare in pace senza essere disturbato dalle chiacchiere di tutte quelle femminucce!
I nonni vivevano in paese da sempre. Il nonno, appena laureato, aveva vinto la condotta in quell’amena, minuscola cittadina, e non se n’era allontanato mai più perché ci si trovava bene. La nonna, che aveva frequentato l’università con lui e si era laureata in lettere, aveva accettato di buon grado quella specie di reclusione, sia perché era di indole tranquilla e gaia, sia perché, data la sua professione – scriveva fiabe – non aveva bisogno di grandi orizzonti metropolitani per esternare la ricca fantasia già tutta racchiusa nella sua mente. Lì erano nati i loro quattro figli, un maschio e tre femmine che, divenuti adulti, vi tornavano tutte le domeniche dell’anno, e per gran parte dell’estate, con le famiglie.
Io, molto più delle mie cugine, adoravo i nonni perché non avevo che quelli, mentre loro ne erano ampiamente provviste: Fabia, nientemeno, ne aveva cinque, perché chiamava ‘nonna’ anche una vecchia prozia che viveva con i suoi familiari.
La mia nonna si chiamava Lara ed io le facevo le rime con ‘cara’; lei sorrideva felice e mi raccontava le storie che poi inseriva nei suoi libri di fiabe.
Diceva di amarci tutti dello stesso amore.
“Ogni volta che è mi è nato un nuovo figlio o un nipotino, a me è cresciuto un altro cuore: così ognuno di voi ha il suo posto nel mio affetto e nessuno deve essere geloso dell’altro”.
In realtà, lei aveva un debole per mio padre, se ne accorgeva e si giustificava:
“Poverino, lui è maschio, non ha le risorse di noi donne!”
Le figlie, vale a dire le mie zie, e la nuora, mia madre, annuivano gravemente, convinte della superiorità delle donne che la nonna sosteneva in ogni discussione.
 A parte qualche battibecco politico fra gli unici maschi della famiglia, mio padre e mio nonno (perché io non contavo ancora e poco pesavano anche i generi), tutti si volevano un gran bene, persino mia madre e mia nonna che erano pur sempre nuora e suocera, anche se a guardarle non si capiva: la mamma, infatti, rassomigliava in modo incredibile alla nonna e tutti credevano che fosse sua figlia. Forse papà l’aveva sposata proprio per quella straordinaria somiglianza.
Tutte le domeniche che posso ricordare, fin dalla mia nascita (ma so che accadeva anche prima, fin dalla nascita di Marzia che è la mia cugina più grande), i quattro figli dei nonni, vale a dire mio padre e le sue tre sorelle con i rispettivi mariti e con mia madre, si riunivano in quell’immensa casa situata proprio al centro del paese.

‘La casa del dottore’, così abitualmente la indicavano, era una costruzione a tre piani di cui soltanto il terzo dava sulla piazza. Gli altri due erano situati al di sotto, lungo il fianco di una collinetta che digradava in un giardino ampio e folto di piante altissime che a me sembrava fossero lì da chissà quanti secoli.
Il nonno l’aveva scelta, quarant’anni prima, per molte ragioni. Era in vendita e costava poco, era grande e bella, c’era la possibilità di situare l’ambulatorio al piano terra, sulla piazza e, ultimo, ma importantissimo motivo: aveva un meraviglioso panorama sul retro. Infatti, da tutte le finestre e i balconi che davano sul giardino, l’occhio spaziava sui campi variegati dalle coltivazioni e sulle rocce dirupate, oltre le quali si stendeva il mare che, visto così, dall’alto, sembrava salire verso l’orizzonte. In linea d’aria la spiaggia distava poche centinaia di metri, ma, per arrivarci, dovevamo percorrere in auto le curve e i tornanti di una lunga strada bianca di breccia.
Il piano più alto della casa, quello che dava sulla piazza, era adibito in parte ad ambulatorio, con ingresso privato, targa di ottone sulla porta, sala d’aspetto e studio medico; da un altro portone più grande e bello, salendo due scalini, si entrava nell’abitazione vera e propria. C’erano, dopo l’ingresso, due salotti, un salone da pranzo (di rappresentanza, diceva la nonna), uno studio e la biblioteca, ricca di migliaia di volumi che il nonno aveva acquistato nel corso degli anni. Solo quando divenni più grande potei apprezzare la mole di volumi scientifici relativi alla nostra professione e la ricchezza di letture umanistiche, tuttora le mie predilette.
Al piano di sotto c’erano le camere della famiglia e la cucina, mentre gli ambienti a livello del giardino erano riservati agli ospiti. La cucina era grandissima; mia nonna la chiamava scherzosamente ‘la cucina di Fratta’, in ricordo d’Ippolito Nievo del quale aveva dissertato nella sua tesi di laurea.
In quella cucina si viveva.
C’era il tavolo da pranzo quadrato, immenso, che si poteva anche allungare portando i posti a sedere da sedici a venti; c’erano le due poltrone dei nonni davanti al caminetto, e c’erano sedie e poltroncine e scaffali e credenze e tavolini, uno scrittoio fratino con la macchina per scrivere della nonna e, in un angolo appartato, il tavolino con la scacchiera del nonno che non si poteva toccare perché gli scacchi di cristallo di Murano costavano un patrimonio. C’era la radio col giradischi e il televisore, acquisto recente, appollaiato su un alto tavolino a due piani. Alle pareti erano appesi i quadri dipinti dal nonno, che si dilettava di pittura nel tempo libero, e i diplomi dei premi ricevuti dalla nonna, tutti incorniciati in maniere diverse, secondo l’estro del momento: sembrava una casa di artisti. Dappertutto erano sparsi posacenere perché, sia i nonni, sia i loro figli, erano grandi fumatori e non avevano alcun riguardo per noi bambini. Il nonno medico non credeva alle storie di tumori all’apparato respiratorio di cui si cominciava a parlare in America: curava troppe persone malate che non avevano fumato mai.
“Tanto respiriamo aria di mare e ossigeno ventiquattr’ore su ventiquattro”, diceva a noi piccoli quando osavamo fare qualche rimostranza per il fumo che impregnava la cucina e si diffondeva, attraverso la tromba delle scale, in tutta la casa. Ma questo succedeva solo nella stagione fredda: per il resto dell’anno, l’aria degli ambienti era davvero pura e salmastra come quella esterna che entrava copiosa dalle grandi portefinestre.
La cucina e tutte le camere del piano di mezzo si aprivano su un grandissimo terrazzo dove si poteva andare in bicicletta, pattinare, desinare nelle giornate più tiepide e ballare nelle calde notti d’estate. Noi bambini entravamo e uscivamo da qualunque stanza passando per quel terrazzone, ebbri d’aria e di libertà, correndo come pazzi in un continuo girotondo che ci portava a rincorrerci, nasconderci ed azzuffarci, scorrazzando con in mano le merende smozzicate che riempivano di briciole e di formiche tutti i vani: per noi, rinchiusi gran parte dell’anno in case cittadine, era la felicità!
In cucina c’era, ovviamente, il settore adibito alla preparazione e cottura dei cibi. Era separato dalla zona soggiorno con un muro a ‘elle’ e prendeva luce ed aria supplementare da un’altana chiusa da vetrate in cui si radunavano le donne, soprattutto mia madre e le mie zie, a raccontarsi le vicende della loro vita professionale, i bisticci con i mariti, le malattie dei figli.
Spesso le avevo sorprese a sparlare affettuosamente della nonna Lara che, secondo loro, con gli anni, cominciava ad avere qualche fissa. L’argomento era sempre lo stesso: la nonna sosteneva che quella casa era abitata da folletti dispettosi e zuzzurelloni che le nascondevano le cose. Se iniziava un lavoro a maglia, le spariva la lana, se preparava il caffelatte, scompariva la zuccheriera, oppure non trovava quei tali sandaletti dorati che le stavano tanto bene, e così via. Ma, quel che era peggio, la nonna discuteva con loro.
“Se li prego a voce alta di ridarmi il maltolto, dopo un po’ me lo fanno ritrovare; in un altro posto, naturalmente, ma mi ridanno tutto”, spiegava per convincere le figlie e la nuora a crederle. “Sono come bambini bizzosi, ma non cattivi”.
Le quattro giovani donne scuotevano la testa dubitando persino che la nonna si prendesse gioco di loro, ma concludevano sempre benignamente: “Forse è la sua professione che la porta ad estraniarsi dalla vita di tutti i giorni, e le fa sognare come vere le fiabe che racconta”.
Il nonno, invece, accusava il passar del tempo solo perché era diventato freddoloso e temeva le correnti d’aria.  
“La porta!”, era il suo intercalare più consueto.
“Vedi, – e si rivolgeva al genero letterato, – Benedetto Croce, nonostante i limiti culturali, era un uomo straordinariamente intelligente… La porta! Chiudete la porta! Ma che avete la coda? O lo strascico?”
C’era sempre qualcuno pronto a chiudere la porta d’accesso al terrazzo che noi bambini lasciavamo aperta anche d’inverno per rincorrerci.

Le mie quattro cugine viperette mi consentivano soltanto di giocare a nascondino: guai se chiedevo di partecipare alle loro sfilate di moda o alle recite che imbastivano nei lunghi pomeriggi delle feste natalizie.
“Queste sono cose da femmine”, mi dicevano con aria saccente e voce petulante. “Tu sei maschio e devi fare giochi da maschio”.
 La mia vita era un inferno. Sommerso da orecchini, collane, pettinini, ventagli, bambole da lavare e pettinare, vestire e svestire, io non capivo più niente. Non mi restava che andare dalla nonna e chiederle:
“Questo è un gioco da maschio o da femmina?”
Lei non mi rispondeva: avrebbe voluto che crescessimo tutti uguali, ma si rendeva conto che le mie cugine avevano un eccesso di femminilità ingovernabile; perciò, mi stringeva forte tra le sue braccia e mi consolava con una fiaba.
Quali fossero i giochi per me, quelli da maschio, lo appresi crescendo, nelle belle giornate d’estate in cui si andava quotidianamente al mare; lì, altri maschietti m’insegnarono a giocare al pallone, a fare la lotta e a dire parolacce da caserma che mia cugina Giulia imparò ben presto ad usare contro di me.
Ignorato dalle cugine a causa del mio insolito sesso maschile, avevo imparato a seguire la nonna nelle varie stanze, quando lei era in vena di riordinare la confusione che noi le facevamo in casa.
Quella domenica d’inverno, il nonno si era addormentato davanti al fuoco, gli adulti erano andati anch’essi a riposare e le cuginastre stavano in giro per il paese: tutta la casa taceva. Io salii in biblioteca per sfogliare qualche giornalino a fumetti di cui il nonno possedeva intere collezioni: speravo anche di trovarci la nonna che, di solito, non andava a dormire, nel pomeriggio. C’era, infatti; stava inginocchiata per terra, sotto una finestra, con una lente d’ingrandimento davanti agli occhi. Ristetti un attimo in silenzio ad osservare la scena e fui sfiorato dal dubbio che l’adorata nonnina fosse in verità un po’ svanita; capii subito, però, che mi sbagliavo: lei stava cercando qualcosa.
“Che cosa cerchi, nonna?”
“Oh, sei tu, caro! Mi è caduto il brillante dall’anello, credo di averlo perso qui perché la mano mi si è impigliata nel cordone della tenda.”
La nonna da qualche anno era diventata presbite ed ora si stava aiutando con la lente per non scendere a cercare gli occhiali lasciati in cucina. Tutti avevano tentato di convincerla a portarli appesi al collo con una catena; il nonno gliene aveva regalata una bellissima tutta d’oro, ma era stato inutile.
 “Se porto gli occhiali penzoloni sul petto, come faccio ad abbracciare i miei nipoti tutte le volte che ne ho voglia? Si romperebbero mille volte al giorno”, aveva protestato, convinta. Aveva sempre ragione lei!
“Vado a prenderti gli occhiali”, le dissi in un moto di generosità e d’affetto.
“No, non occorre, va bene anche la lente.”
Mentre esitavo, se obbedirle o andare lo stesso di sotto, la sentii esclamare:
“No! Non è possibile!”
“Cosa c’è, nonna?”
“Non è possibile”, ripeté con aria perplessa.
“Cosa, non è possibile?”
“Vieni! Vieni qua subito, guarda anche tu! Dimmi se li vedi”, e mi porse la lente d’ingrandimento.
Ricordo ancora il manico di quella lente: una piccola scimitarra con la caratteristica impugnatura dell’elsa a rami cruciformi; l’avevano portata in regalo al nonno alcuni amici andati nello Yemen.
Mi accostai con curiosità, mi chinai e guardai il punto che lei m’indicava: non vidi nulla. Feci correre lo sguardo intorno sul pavimento di parquet a quadrotti chiaroscuri che forse confondevano la vista imperfetta della nonna, non certo la mia che era ed è tuttora eccellente: niente.
“Nonna, non vedo nulla. Che cosa dovrei vedere?”
“Ma… i folletti! Io ho sempre saputo che in questa casa c’erano i folletti, e stavolta li ho visti! Sono piccolissimi, microscopici.”
“Vuoi dire più piccoli di Campanellino Trilli?”
“Sicuro, molto più piccoli”. E poi tra sé e sé: “Ma come riescono a farmi sparire la zuccheriera? E le scarpe? Forse si mettono tutti insieme come le formiche quando spingono una crosta di pane…”
Io non avevo visto nulla, però, ora che sapevo cosa cercare, mi sdraiai bocconi sul pavimento e cominciai un’indagine sistematica, mentre la nonna Lara si sedeva pensierosa su una poltrona. Dopo un minuto d’accurata esplorazione avevo ritrovato il brillante ma… dei folletti, nessuna traccia. Che avessero ragione mia madre e le zie a considerare la nonna un po’ svanita? Non sapevo che cosa pensare.
La nonna si volse verso di me e mi fece un cenno con la mano per invitarmi a sedere fra le sue braccia. Corsi da lei e mi strinsi al suo petto: che buon odore aveva! Il nonno le regalava una grande bottiglia di profumo ad ogni compleanno ed altre gliene comprava ogni volta che andavano in città.
“Mariolino”, mi disse sottovoce. “Ho capito che i folletti si mostrano soltanto a chi crede nella loro esistenza. Perciò ti dico che se penserai fermamente alla loro realtà, un giorno o l’altro li vedrai anche tu.”
“Anche le mie cugine?”, chiesi temendo che il privilegio potesse estendersi alle quattro streghette. Ma la nonna era sempre giusta nei confronti di noi nipoti perciò mi rispose con serietà:
“Sì, anche le tue cugine dispettose. Se avranno fede, li vedranno.”
Da quel giorno cominciò per me un periodo fantastico. Quasi per incanto lo spirito d’osservazione mi si era acuito e intensificato al punto che i miei genitori dubitarono che volessi, da grande, fare il detective. Andavo in giro con una lente d’ingrandimento trovata nell’astuccio scolastico e tentavo di scovare i folletti burloni della nonna. Più passava il tempo e più m’incaponivo nella ricerca. Mi bastava un battito di ciglia, o un riflesso colto negli specchi per scorgere un’ombra che attraversava fulminea il mio campo visivo: erano loro?
 

Non ne avevo parlato con nessuno, men che meno con le mie cugine che già pensavano ai corteggiatori e non avrebbero capito. La domenica, però, mi appartavo a discuterne con la nonna, orgoglioso di condividere quel segreto con lei che scriveva libri di favole e conosceva di persona i folletti: mi sentivo importante.
Passarono sereni gli anni e non cessò mai la consuetudine di trascorrere le domeniche e l’estate nella casa dei nonni. Il nonno Mario era andato in pensione e si dedicava alla lettura dei suoi amati classici; la nonna scriveva e pubblicava, con la testa sempre tra le nuvole, sempre bella e di buon umore come quando era giovane. Il nonno ci assicurava che, sposandola, aveva vinto la lotteria della vita. Lei sorrideva compiaciuta. Le mie cugine andavano all’università, anche Elena che aveva appena un anno più di me; qualcuna stava per laurearsi. Ora non erano più le streghe della mia infanzia, ma si abbigliavano, si acconciavano i capelli e si comportavano come splendide fate. Io ero molto orgoglioso di loro perché erano anche straordinariamente intelligenti e ricche di talento: me le invidiavano tutti, ma a nessuna di loro avevo mai confidato nulla dei folletti visti dalla nonna. Il segreto mi suscitava ancora un moto interiore di superiorità nei loro confronti, anche se, finalmente, era cessato il mio stato di sudditanza psicologica che aveva caratterizzato i nostri rapporti durante la fanciullezza.
Ero diventato un ragazzone atletico, disinvolto e sicuro con l’altro sesso di cui conoscevo pregi e difetti in virtù delle angherie sopportate nell’infanzia. Ora le cugine mi cercavano. Andavamo in barca a vela, suonavamo e cantavamo, come un tempo i nostri genitori, e insieme, con grande affiatamento, si discuteva di politica e di sport, di filosofia e d’amore. Ci sentivamo uniti e affini, sebbene io fossi sempre il più giovane del gruppo: ero appena giunto alla maturità.
Fu appunto nell’estate che precedette la mia iscrizione all’università che accadde il fatto nuovo.
Ero di passaggio a casa dei nonni, prima di partire per un viaggio all’estero, il primo della mia vita. A un tratto, del tutto casualmente, la nonna se ne uscì con un:
“Sai, Mariolino, che non li ho più visti… Sono anni che non li vedo. E tu, li hai visti mai?”
“No”, risposi distratto. “Ho avuto troppo da fare per ricordarmi di loro.”
“Forse si sono offesi per qualcosa e credo anche di sapere cosa…”
“Dai, nonna, raccontami, che non vedi l’ora.”
“E’ vero. Voglio parlarne un po’ con te e desidero anche la tua opinione. Non posso sfogarmi con gli altri perché mi considerano una vecchia pazza.”
“Vecchia! Ma come puoi dire una cosa simile? Non hai neppure settant’anni! Vecchia sarai a novant’anni, quando io sarò un padre di famiglia carico d’impegni e di responsabilità. Ora sei la mia adorata nonnina, forse un po’ pazzerella, ma sempre bella come quando ero bambino. Su, parlami dei nostri folletti!”
In verità io li avevo dimenticati, tutto preso dagli studi, dallo sport, dalle ragazze; ora, però, all’avvicinarsi della partenza, all’idea del mio primo viaggio da solo, sentivo la nostalgia di quelle domeniche invernali, di quei giorni d’estate, di tutti gli anni trascorsi con lei in compagnia dei nostri fantasmi. Invece era passato il tempo, la nonna s’era invecchiata, pareva stanca. Il nonno, al confronto, era ancora una robusta quercia. La osservai bene: s’era come rimpicciolita, aveva perso peso, sembrava un passerotto stinto e smarrito sotto il peso della chioma d’oro e d’argento che, troppo folta, le pesava attorcigliata sul collo. Anche gli occhi erano cambiati, e mi fissavano da una lontananza senza fine. Solo il sorriso, ancora bianco e splendente nella bocca un po’ increspata, la ringiovaniva di colpo e mi ricordava quella che era stata.  
Con tanta tenerezza ed anche con un’ombra fastidiosa di presagio, mi sedetti accanto a lei e la pregai di raccontarmi tutto. Con un sospiro lei cominciò:
“Ti ricordi di tutte le volte che il nonno urlava ‘la porta!’ perché voi la lasciavate sempre aperta per giocare in terrazza? Ebbene, una di quelle volte li ho visti, così, ad occhio nudo. Ti dirò com’è andata. Stavo per chiudere la portafinestra, quando li ho scorti tutti in fila, variopinti come l’arcobaleno, con certi cappellini buffi di lanugine bianca, ridenti e saltellanti uno dietro l’altro, uno sopra l’altro, un momento aggrovigliati e un attimo dopo sparpagliati nel volo. Erano lì, sulla soglia, come incerti se entrare o uscire. E’ stato un attimo, il saettare di un lampo; li ho visti mentre già chiudevo e la sorpresa non mi ha fermato il gesto: sono riusciti ad entrare tutti con un salto velocissimo, ma uno è rimasto fuori. L’ho percepito un istante dopo che avevo chiuso l’uscio. Gli altri sono scomparsi alla mia vista, mogi mogi. Ho riaperto subito la porta, ma non ho trovato l’ultimo della fila. Da allora non li ho più veduti; credo si siano offesi. Sono tanto permalosi, sai? Ora, tutte le volte che esco di casa o rientro, lascio aperta la porta dietro di me e aspetto il tempo necessario perché passino tutti. So che mi seguono dovunque, ma non si mostrano più. Mariolino, promettimi che anche tu entrando o uscendo da casa, darai a tutti loro il tempo di oltrepassare la soglia… Basterà qualche attimo e, anche i più birichini, con un salto, ti raggiungeranno. Promettilo!”
Naturalmente promisi, in cuor mio sorridendo di lei.

Cara, cara nonna Lara!
Al mio ritorno non c’era più: s’era spenta, senza un fremito né un sussurro, in un’afosa notte d’agosto, lasciando inebetito il nonno che le dormiva accanto tenendole la mano, come sempre.
La casa non fu più la stessa.
Il nonno venne a vivere in città con me che avevo scelto di studiare medicina. Andavamo molto d’accordo e spesso uscivamo insieme. Io non mancavo mai di ricordare la promessa fatta alla nonna e, sempre, nel varcare la soglia, mi attardavo sull’uscio chiudendo la porta con circospezione, quasi avessi un abito con lo strascico dietro. Mio nonno, alla fine, se n’era accorto, eppure non mi chiese mai spiegazioni.
Sono passati altri anni. Il nonno se n’è andato che era vecchissimo. Io sono psichiatra in un ospedale di provincia. Mi sono sposato, ho due figli: la bambina si chiama Lara e, come la bisnonna, parla con i folletti. Io non li ho mai visti, ma continuo a cedere loro il passo quando attraverso una porta. Spesso faccio anche un gesto di premura ai più distratti, perché si affrettino a seguirmi.
Una delle mie collaboratrici mi ha scorto un giorno mentre con la mano invitavo ad entrare nello studio degli ospiti invisibili a livello del pavimento. Sorridendo mi ha chiesto:
“Professor Guidotti, che fa? Raccoglie lo strascico?”
“Dottoressa Belli, mi meraviglio di lei! Non vede che faccio passare i folletti? Si offendono se rimangono fuori.”
La dottoressa Belli mi ha guardato perplessa e, dopo qualche giorno, ha fatto domanda per cambiare reparto.        


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart