FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Vladek #4/8
19 Marzo 2008
di Bartolomeo Di Monaco Â
[Per le sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]
L’aria intanto si era raffreddata.
  Oro sentiva il gelo penetrargli nelle ossa: doveva aver volato molto e forse si trovava già sulle regioni polari, dove regnano i ghiacci e gli uomini sembrano di una specie diversa, avvezzi alle fatiche e ai silenzi. Â
  Infatti era proprio come pensava.
  Abbassando il volo, riconobbe l’oceano, e in mezzo a quelle acque gelide, sdraiati sugli icebergs, scorse foche e orsi bianchi, abitatori incontrastati di quelle solitudini. Â
  Più avanti, sulla costa, erano raccolte poche casupole di pescatori; spuntava fra i tetti la croce di una chiesetta.
  Calava la sera e la gente era radunata là . Oro sentiva salire al cielo il canto di una preghiera. Â
  Decise di scendere tra loro.
  Entrò in chiesa piano piano, senza far rumore, e nessuno si accorse di lui. Â
  Tutti stavano in piedi; il prete, davanti all’altare, teneva le braccia levate al cielo. Â
  Quell’incontro, quell’unione di anime diverse nella preghiera, diffondeva un calore straordinario, che anche Oro percepiva.
  Terminata la funzione, tutti uscirono.
  Sostarono sul piccolo sagrato, avvolti nelle lunghe pellicce; qualche parola per salutarsi, confidarsi, quindi alcuni tornarono a casa, altri si diressero alla piccola osteria del porto.
  Oro seguì quest’ultimi.
  Anche quella sera il luogo era avvolto da una nebbia densissima; appena si intravedevano le luci dell’insegna. Â
  Dentro, intorno a tavoli consumati, sedevano pescatori avvezzi al gioco e all’alcool.
  Oro si sedette vicino alla porta; e subito notò il tavolaccio lungo la parete più grande, dove si era accesa una violenta discussione; anche gli ultimi usciti dalla Messa si erano diretti là . Â
  Un omaccione dominava su tutti. Agitava le grosse braccia, batteva il pugno sul tavolo; il viso era sanguigno, gli occhi nerissimi, vivi.
  Discuteva con un ometto piccolo piccolo, che aveva soltanto la testa più alta della tavola. Â
  Quando Vladek batteva il pugno sul tavolo, l’ometto si scuoteva, chiudeva gli occhi.
  Però quasi tutti stavano dalla sua parte; da ciò il risentimento del gigante.
  «Siete dei rammolliti! » gridava.
  Tutto questo accadeva quasi ogni sera.
  L’intero paese, infatti, era molto religioso; la Messa e tutte le altre funzioni sacre vedevano una grande partecipazione e a Vladek, ateo da sempre, non andava giù che perfino i suoi amici più cari non fossero come lui.
  «Non capite » diceva «che credere in un Dio che ci ha creati e ci protegge è segno di debolezza, di viltà ? » Â
  Sosteneva, cioè, che la fede è un’à ncora a cui si affida chi non ha la forza interiore necessaria a superare ogni sorta di difficoltà nella vita; mentre è veramente forte chi sa di non poter contare che su se stesso.
  Ma le sue animate discussioni non approdavano a nulla, e all’osteria litigavano come al solito fintanto che Vladek non cominciava a battere i pugni sul tavolo, vinto dall’ira.
  Oro decise di restare per qualche tempo in quel villaggio.
  Accadde così che un giorno seguì Vladek in una delle sue battute di caccia all’orso.
  Partì prima dell’alba, Vladek, quando fuori tutto era ancora immerso in un tenue chiarore; il freddo sottile pungeva il viso come tanti spilli.
  Camminò per giorni e giorni su pianure di ghiaccio senza confini, smisurate.
  Quel gigante vi appariva come un puntolino sperduto.
  Ma laddove molti si sarebbero fatti vincere dalla paura di quei silenzi, di quegli spazi tutti eguali, Vladek rinvigoriva e si sentiva uomo.
  Infine vide l’orso.
  Scorse la sua andatura dondolante comparire da dietro alcune montagnole di ghiaccio. Si avvicinò cautamente. L’orso sembrò avvertirlo, annusarlo; si ritirò, sparì, ricomparve.
  Vladek lo ammirava soddisfatto.
  Quale meraviglia della natura quel bestione dalla forza straordinaria! eppure nato in quei luoghi solitari, senza nemici forti come lui.
  Gli fu vicino.
  L’animale lo sentì, si voltò verso di lui, lo fissò sorpreso.
  Vladek sparò.
  Con la zampa pelosa la bestia si toccò la ferita, osservò il sangue macchiargli il pelo, colare sul ventre, arrossare la neve.
  Poi stramazzò.
  Disteso parve ancora più grande.     Â
  Dagli icebergs altri orsi avevano visto.
  Dapprima osservatori immobili, curiosi, erano diventati inquieti, grugnivano.
  Caduto il compagno, un silenzio immediato, profondo, fu intorno a Vladek.
  I bestioni, da laggiù, lo fissavano, con i musi rivolti a lui.
  Poi, in un attimo, si udì il gran tonfo nell’acqua; ed eccoli tutti assieme nuotargli incontro. Â
  Vladek intuì il terribile disegno. Cercò riparo tra i ghiacci. Lo trovò. Si nascose sotto la neve.
  Gli orsi, prima, sostarono a guardare il compagno ucciso. Infine si misero a cercarlo.
  Vladek li sentiva intorno andare e venire, annusare, intuirlo.
  Poi, improvvisamente, avvertì lo scavo, e di lì a poco un orso comparve davanti a lui: enorme, con la bocca spalancata, i denti grandi, bianchi; guardò Vladek, e mentre l’uomo, atterrito, emetteva l’urlo della paura, della fine, scagliò su di lui la zampa unghiata, lacerandolo.
  Il fucile era ancora lì, posato a terra, inutile.
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