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FUMETTI: Li’l Abner

27 Settembre 2010

[da: “Enciclopedia dei fumetti”, a cura di Gaetano Strazzulla, Sansoni, 1970]

L’AUTORE

AL CAPP (Alfred Gerald Caplin) – Figlio di emi ­grati lituani, non ha mai appartenuto alla middle class. Dalla nascita (28 settembre 1909) a New Haven (Connecticut) all’adolescenza, ha vissuto poveramente, tra gente simile a lui e come lui tagliata fuori dal benessere americano. A dieci anni ebbe un grave incidente che lo costrinse per due anni immobile in un letto. Fu durante questo periodo che iniziò a disegnare e che « stabilì » di diventare un cartoonist. Il suo esor ­dio professionale lo fece come assistente di Ham Fisher, dopo aver studiato alla Boston Museum School e alla Philadelphia Academy of Fine Arts. Lavorò duramente per anni prima di poter iniziare la storia di Li’l Abner (12 agosto 1935) sulle pagine del newyorkese The Mirror. Pochi mesi di rodaggio gli furono sufficienti perché i personaggi maggiori acquistassero i caratteri che ancor oggi li distinguono. Il suc ­cesso dei protagonisti esplose qualche anno più tardi, attorno all’ottobre 1939, quando, ri ­prendendo una tradizione legalizzata in Scozia nel 1288 e, nel quindicesimo secolo, anche in Francia e in Italia (a Genova e a Napoli), Al Capp inventò il Sadie Hawkins Day. Divenuto uno dei più popolari rappresentanti della upper class, Al Capp ne ha assunto tutte le caratteristiche, esteriori e mentali, sostenendo in più occasioni che il suo lavoro non aveva altro significato se non quello di portargli de ­naro, la ricchezza mai posseduta e sempre de ­siderata. A confermare la civetteria dell’afferma ­zione, l’artista si è più volte introdotto nelle sue strisce assumendo il ruolo â— non a caso â— dell’avido Bashby, il « bilionario » in lotta con il generale Bullmoose per il primato mon ­diale del capitale: un Paperon de’ Paperoni meno isterico e certo più dotato di fantasia, ma altrettanto convinto dell’esistenza di due sole classi: quella di chi detiene il potere e quella di coloro che non contano. Rammentando che Steinbeck, nel 1953, sollecitò il comitato del premio Nobel perché si ricordasse di Al Capp giacché « solo Cervantes e Rabelais erano riu ­sciti, prima di lui, a criticare ed a far accettare la critica e a divertire con essa », varrà sotto ­lineare che, pur non essendo « il migliore scrit ­tore del mondo » come ha affermato l’autore di Furore, Capp ha indubbiamente rappresentato un fenomeno tanto personale quanto valido nel panorama della cultura americana degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale.

IL PERSONAGGIO

LI’L ABNER – Fino a qualche anno fa le graf ­fianti « cronache » di Capp non godevano in Italia di larga circolazione e i loro protagonisti erano personaggi pressoché sconosciuti, sicu ­ramente lontani dalla popolarità di Gordon o di Mandrake. Gli editori scagionavano il loro disin ­teresse adducendo ragioni obiettive: la difficile traducibilità dei testi (impantanati in uno slang assurdo quanto primario) e, soprattutto, la par ­ticolarissima connessione di queste storie con la vita yankee e i suoi eroi, grandi o piccoli. Rico ­nosciuta la legittimità delle riserve, restava tut ­tavia l’ingiustizia di una grave lacuna, che Li’l Abner è tra le poche creazioni d’autore cui spetta il merito (nel bene e nel male) di aver reso adulta la comic art.

Personaggi e miti, tradizioni e ipocrisie, convin ­zioni e sfasamenti sono serviti a Capp per inven ­tare una rappresentazione (talora anche oltre le righe di solido impianto), della quale hanno fatto le spese, di volta in volta, il cannibalismo industriale, il maccartismo, la politica degli aiuti ai paesi sottosviluppati, le .alleanze militari, la società dei consumi, ogni forma di divismo, i tic passeggeri e le radicate prevenzioni. Anche se le quinte di questa raffigurazione sono quelle di un microcosmo contadino (l’imma ­ginario povero villaggio di Dogpatch, residenza di un superstite gruppo di hillbillies, cioè di montanari), collocato nel Sud degli States, è evidente che non si tratta di uno spaccato avul ­so dalle realtà contraddittorie della grande co ­munità americana. Dogpatch, con i suoi scer ­vellati abitanti, i suoi curiosi cerimoniali (l’or ­mai famosissimo Sadie Hawkins Day, annuale giornata in cui le zitelle possono conquistarsi un compagno partecipando a una sorta di cac ­cia al tesoro coniugale) e le apparentemente paradossali vicende che agitano la vita comu ­nitaria, è l’altra faccia dell’America. Deformati quanto si vuole dalla matita di Capp, i « casi » di Dogpatch traducono e raccontano (alla loro maniera, s’intende) l’esistenza di un sussultante macrocosmo e ne sottolineano i momenti cruciali. La ballata degli stracci di Dogpatch, al dì là di certi caratteristici aspetti, che appunto affondano le radici nell’essenza «contadina » della storia di Li’l Abner e dei suoi partners, chiede al lettore di essere letta in trasparenza, così da rappresentare un com ­mento, più o meno aggressivo, più o meno pun ­gente, dei quotidiani fatti americani. Precisato questo aspetto « cronachistico » e « politico » (in senso largo) della saga di Al Capp, sarà opportuno rilevare che il volgere delle stagioni ha tuttavia inciso sull’irriverenza dell’autore: da alcuni anni, pur sempre ripas ­sando feticci e protagonisti, la sua matita ha perso di incisività e di cattiveria. Gradatamente, s’è andato accentuando quel qualunquismo che già negli anni cinquanta gli era stato rimprove ­rato in quanto segno di una deviazione abba ­stanza consistente dalla linea controcorrente programmatica dell’esordio. Al Capp si è districato abilmente, e per parecchio tempo, sostenendo il principio del pieno diritto di un autore di ragionare sui fatti senza dover per questo avanzare alternative. Il suo gioco, alla lunga, ha però mostrato la corda del disim ­pegno: provocatorio e aspro negli anni tra il quaranta e il cinquanta, Capp si è progressiva ­mente ammorbidito o forse, e più propriamente, è stato nettamente sopravvanzato da rifiuti mag ­giormente radicati.

Ciò non di meno, il suo « cittadino » Yokum, ossia Li’l Abner, rappresenta nell’universo dei comics un personaggio di preminente risalto. Il comportamento, le convinzioni, le azioni e lo stesso modo di vestire di questo ragazzone â— meno tonto alla fin fine di quanto possa appa ­rire al primo impatto â— individuano e defini ­scono con puntuale acutezza un modello so ­ciale cui è giusto rifarsi per stabilire dei punti fermi circa l’evoluzione (o l’involuzione) della società yankee. Il suo « essere » americano non è una forma stereotipa, un modo di dire o uno stato ambivalente: Li’l Abner è una struttura solidamente piantata e ramificata nell’humus della sua terra. E lo dimostra ogni volta che abbandona il misero cantone di Dogpatch per affrontare la grande città, tra gente smaliziata, « bulli e pupe » che non gli capitano per caso tra i piedi e che non lo avversano solo per for ­nire l’indispensabile meccanismo alle sue av ­venture. Li’l Abner, e con lui il suo autore, crede nella salvaguardia del sistema attraverso le ri ­forme: è onesto, disinteressato, altruista, eufo ­rico e vitalistico. Con tutti i suoi errori e le sue storture, l’America migliore è ancora quella che può trovare sottomano un tipo come lui, anche se è sincero nel volerne modificare convinzioni e propositi: un’America contestata, non rifiutata. Le troppe « favole » fino ad oggi raccontate da Capp e i troppi personaggi che le hanno ani ­mate con la loro stravolta presenza non con ­sentono di sicuro un giudizio particolareggiato, né si offrono per poter sinteticamente puntua-lizzare alcune apparizioni o certi risvolti psico ­logici. Tuttavia, nello sbrigliato e geniale con ­testo cappiano, così generoso di spunti avvin ­centi e di sollecitazioni satiriche, due invenzioni non possono essere taciute, anche perché se ­gnano le punte più violente della sua dissacra ­zione: quelle degli Shmoo e dei Kigmi. Creature immaginarie ma assolventi a una pre ­cisa funzione di parabola all’interno della so ­cietà industriale (e non soltanto americana), gli Shmoo, fatti di nulla e capaci di tutto, sono esseri straordinari, di colore bianco, a forma di palla, « che sorridono sempre a tutti in qual-siasi circostanza e che si fanno in quattro per accontentare tutti e soddisfare anche le esi ­genze più strane ». Con la loro disponibile pre ­senza annullano all’istante le leggi del profitto, si sacrificano per rendere felice la gente, ne ­gano1^ la necessità del lavoro e realizzando il ritorno a un Eden precluso agli egoismi, alle miserie, ai problemi. Essi forniscono, entusiasti e riconoscenti, al cittadino tutto ciò che egli chiede e sogna: cibo, comfort, evasione, ric ­chezza e superfluo. Famelici dispensatori di felicità, non ressero tuttavia più di un anno (dal 1948 al 1949) agli attacchi dell’establishment, che li vide come i più feroci evasori delle sue leggi e dei suoi principi. Gli Shmoo torna ­rono alla ribalta dieci anni più tardi, e nuova ­mente si scatenarono le polemiche attorno ai polposi animaleschi emblemi di una « felicità » a portata di mano.

A loro differenza, i Kigmi hanno un aspetto maggiormente antropomorfo. Dotati di gambe e di braccia, con una testa rasata e un naso pa ­recchio pronunciato, essi si dispongono beata ­mente a essere presi a calci dagli uomini. Val ­vola di scarico per la violenza repressa e toc ­casana per tutte le frustrazioni della nostra so ­cietà â— come è stato scritto â— il sedere dei Kigmi, liscio e ampio, si offre alla furia degli umani senza alcun sottinteso. Vittime felici di essere tali, sono di piccole dimensioni, « mezzi pesci, mezzi piccioni, mezzi segugi, mezzi pal ­loni da football, mangiano aria e godono smi ­suratamente solo quando sono battuti ». Anche in questo caso la satira sociologica è scoperta.


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Bart