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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Gadda, Carlo Emilio

7 Novembre 2007

La cognizione del dolore    

“La cognizione del dolore”

Garzanti, pagg. 218. Euro 9,30

Due Stati immaginari collocati quasi fuori del mondo, ossia sulla “Cordillera” sudamericana, e della stessa etnia, si fanno guerra continuamente e i loro “plenipotenziari” sono sempre pronti, tuttavia, a stipulare accordi di pace. Maradagàl (“ventisettemilioni di bipedi”) e Parapagàl i loro nomi. E nel primo di questi (“così simile, per molti aspetti alla nostra perduta Brianza”), alle pendici della montagna c’è un paesino di nome Terepáttola, vicino al quale sta un altro paese, anche questo dal nome gagliardo: Pastrufazio. Ma non finisce qui: altri cittadini si fanno la guerra tra loro: i Serruchonesi (coltivatori di piselli pregiati) e i Lukonesi. L’obiettivo finalmente circoscrive il suo occhio e mette a fuoco questi ultimi, ossia il paese di Lukones, abitato da personaggi curiosi, a cominciare dalla lavandaia Peppa, dalla moglie nana del becchino di Lukones e dal vigile notturno Gaetano Palumbo, meglio conosciuto come Pedro Mahagones, cui una granata “penetrante e dilacerante” aveva stecchito, così lui lasciava falsamente credere, la gamba sinistra: “buona gente” tuttavia. E poi l’occhio si gira e di nuovo mette a fuoco qualcosa: Pastrufazio è un’accolta di stili architettonici, che paiono riassumere il mondo intero. Terepáttola vanta la presenza, ahimè per poco, ché morrà, del vate Carlos Caí§oncellos, autore di “dugento mila dodecasillabi, e ventitre mila tetrametri giambici”. Questa ripida discesa o salita o anche, se vogliamo, scorribanda tra i paesi fantastici della Cordillera, l’abbiamo fatta in pochissime iniziali pagine, e se non fosse per il compiaciuto vezzo stilistico (con passaggi toscani e, in particolare, fiorentini) di questo scrittore “arzigogolato e barocco” e il suo vocabolario leziosamente anticato, ci verrebbero in mente Gabriel Garcí­a Márquez e il suo “Cent’anni di solitudine”.

Più che per la storia narrata, infatti, l’autore prova un interesse narcisistico per la parola (sarebbe lungo l’elenco di quelle desuete o create), intorno alla quale pare avvitarsi in una spirale che piacevolmente lo precipita in un gioco di cui in principio nemmeno lui può riconoscere il fine o il percorso, come se un’incantevole sirena, che vi si nasconda, subito si manifestasse al primo repentino segno di un nuovo vocabolo. Una tale sirena compare sempre per essere accarezzata e insidiata, e Gadda non si tira indietro, non tanto per la sua qualità di fascinoso seduttore, ma perché ne resta innamorato. Chiude gli occhi e si lascia incantare; e ciò che non riuscì alle sirene in quel mare tra Scilla e Cariddi, è riuscito alla semplice parola nei confronti di questo esigente autore lombardo, che subito impone (si pensi al racconto sul fulmine che colpisce Villa Maria Giuseppina, data in affitto dal bisognoso medico cav. Bertoloni al vate locale Carlos Caí§oncellos o, appena più avanti, alla descrizione della civetta e dello spettro, o del crapulone Gonzalo Pirobutirro o del peone Giuseppe, o del Poronga, o del cavalier Trabatta) un confronto chiaro e risoluto con il lettore, facendogli intendere che con lui al timone non ci saranno storie che non siano sottomesse al magistero esoterico della parola. La quale lo incanta e lo circuisce spesso all’improvviso, come quel suono di campane che nel capitolo III lo raggiunge mentre si trova in casa di Gonzalo, un esempio tra i tanti della seduzione che l’ornato della parola esercita su questo autore, chiamandolo ad un cimento che non si esita a paragonare ad una vera e propria prova d’amore, anzi, meglio, ad un’esaltazione d’amore. Per tacere del capitolo VI: una vera epifania della parola. Uno stile per cultori raffinati, dunque, e indubbiamente difficile da leggere oggi e da ripetere, ma che comunque ha fatto scuola, come si può verificare leggendo in qua e là, seppure con colori stinti. Si veda la strada che ha fatto – un esempio assai minimo, tuttavia significativo – l’espressione “A gratis”, da quando è stata intinta nel suo calamaio. E in ciò che l’autore pensa dell’ingegnere e marchese Gonzalo Pirobutirro – ma lo diventa un po’ tutto il personaggio, infine – non vi è dubbio che si debba leggere un divertito, ma anche consapevole, compiaciuto ed esplicito, cenno autobiografico: “forse lambiccava rabbioso dalla memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno capisce, di cui gli piace ingioiellare una sua prosa dura, incollata, che nessuno legge”. Come anche qui: “il romanzo, legato a dei personaggi veri e a un ambiente vero, era stupido quanto i personaggi e l’ambiente.” Si ha la sensazione, perciò, di muoversi in una realtà virtuale, che esiste ed ha la sua speciale forma grazie alla parola. Non si potrebbe materializzare nel mutismo del pensiero il mondo disegnato da Gadda. Esso vive, esiste e sopravvive in virtù della parola, e sono proprio le speciali e difficili parole scelte dall’autore e intrecciate tra loro in uno stile ancor più particolare, a consentire questo miracolo, che non trova riscontri altrove, a mio avviso, nemmeno nell’ostinato e pignolissimo Joyce. Così che tradurre Gadda, ad esempio, in un’altra lingua è operazione non solo impossibile ma da compatire nei confronti di quel vanitoso sprovveduto che vi si accingesse come un novello argonauta, giacché le parole non sue, non di Gadda cioè, sono come quelle carte che reggono un castello esposto e debole, ben lontano dalla solidità ed armonia dei castelli di pietra. Sono l’unica password che dà accesso al mondo di Gadda, il suo stile e le sue parole. Si dirà che questo vale anche per molti autori di forte personalità e valore: non credo fino a questo punto. Senza adoperare gli stessi ferri chirurgici, gli stessi strumenti, scelti da Gadda, ciò che ci rimane tra le mani è il vuoto e il nulla: nessun resto, nessun cimelio, né vestigia. Noi raccogliamo, nel tradurre Gadda in un’altra lingua, la delusione del nulla, che è poi la prova della specialissima singolarità della sua arte.

Il dottore Higuerí³a Bertoloni ha cinque figlie da marito, tra le quali Pina, una che alla guida di un’auto è una specie di diavolo, “nata al volante!”. Chiamato a fare una visita allo scapolone, misantropo, ricco, insofferente e collerico Gonzalo, lungo il tragitto, compiuto a piedi e frustandosi “col bastoncello il polpaccio destro” (che siano le frustate che così sovente Gadda dà alla società?), non fa altro che pensare, nel corso di una passeggiata del tipo di quelle che incontriamo in Proust, ad un possibile matrimonio tra costui e sua figlia. Gonzalo ha però addosso un sofferenza sottile, che non ha riscontro nella carne, sanissima, anche se obesa. La sua malattia deriva da una “crisi di sfiducia nella vita” e “tutto del tempo gli veniva stanchezza e stupidità.” E ancora: “un qualcosa di orrido stava ribollendo in quell’anima.” Eccola la cognizione del dolore che si apre la sua strada, cocciuta e perspicace, e come uno zefiro maligno, sebbene carezzevole, lambisce il sentimento di Gonzalo, come di Gadda, come pure il nostro, e con piccoli segni in principio poco appariscenti, già agisce e si sviluppa in profondità. Gadda ha anche lui percepito il dolore e non scherza più. Esso pare coinvolgerlo nel personaggio di Gonzalo e trascinarselo via come fa un cavallo impazzito e sofferente con il suo cavaliere, disarcionandolo perfino e traendolo seco per una caviglia imbrigliata. Delirio e dolore in quel punto si congiungono, come si congiunge e si riversa nella realtà il pozzo nero delle nostre angosce, delle nostre nevrosi, delle rabbie e delle sconfitte, dei sensi di colpa rintanati e oppressivi dentro di noi, finché l’urlo gridato dall’impotenza che ci attanaglia non esce fuori e buttera il nostro volto in una nuova sembianza mostruosa, in bilico tra la verità e il sogno, “ennesimo traghetto da delirio a ragione”. Dirà di Gonzalo: “Gli anni irripetibili li aveva dissolti il dolore. La demenza dei tutori aveva straziato il bimbo. Rimaneva la morte.” E più avanti: “Lo hidalgo, forse, era a negare se stesso” e ancora: “in fondo a tutto c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio.” Lo sguardo di Gadda, immalinconitosi, torna a volgersi, mettendole a fuoco, sulle povertà, meschinità, furberie che impastano gli uomini della loro dolorosa imperfezione, come lendini maculate, visibilissime, che han messo radici riottose e inestricabili. E questa sua malinconia si china ad avvolgere – quasi al modo di un mutamento repentino del sentimento e finanche della scrittura, che assume i toni decadenti e clamanti di una Scapigliatura che pare resuscitare e rinvigorirsi dell’autorità di questo lombardo – Elisabetta Franí§ois, la madre di quel figlio Gonzalo, ridotta dallo scorrere del tempo a una minuta cosa – non dissimile dal lucignolo della sua candela – che l’uragano, che fuori della sua casa deserta rimbomba, ancor più consuma e spaura. Si deve annotare qui la presenza, non neutra, che ogni tanto ha nel romanzo la forza smisurata e orrifica della natura, tale da rendere il senso tremebondo e marcato di caducità di ogni nostro gesto: “questa solitudine postrema a chiudere gli ultimi cieli dello spirito.” Non è del tutto estranea, nella seconda parte del libro, la memoria del Manzoni, e proprio nel disegnare questo episodio della madre sventurata e sola che ricorda il figlio – un canto dalla voce antica – non v’ha dubbio che sia affiorato in Gadda, come è accaduto a noi, quello mirabile della Cecilia de “I promessi sposi”. Esplicito invece è l’omaggio a “La quiete dopo la tempesta” del Leopardi. Cognizione del dolore, dunque, ancora una volta, e mai fine a se stessa: “La sua consumata fatica la riportava nel cammino delle anime.” E: “l’atrocità del suo dolore non sarebbe vana a Dio.” Si passa attraverso il dolore alla conoscenza, e attraverso la conoscenza del dolore, si arriva a valicare il limite delle certezze in un afflato che ci conduce per un passaggio incantato (la visione del figlio tornato dalla guerra, ad esempio: “dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là”) nella sfera del sogno e della poesia. Si leggano queste righe: “Per intervalli sospesi al di là di ogni clausola, due note venivano dai silenzî, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci e ombre.”, che valgono da sole tutto il libro. Come queste altre che descrivono un momento tragico tra madre e figlio: “Ma ella non osò risollevare le palpebre. La parte superiore della testa, la fronte, assai alta e le tempie, sopra le arcate degli occhî, chiusi, parve il volto di chi si raccolga nella ricchezza silente e profonda dell’essere, per non conoscere l’odio: di quelli che tanto ama!” Ma “La cognizione del dolore”, condotto com’è sul filo della memoria e della trepidazione-tragedia tra madre e figlio, resta soprattutto il romanzo incompiuto della parola, della sua avventura virtuosistica per mano di un autore singolare, che dipinge nel suo racconto situazioni, scenografie, ambienti che a malapena si contano e si esauriscono sulle dita forse di una mano, eppure noi ci rendiamo conto, in ogni momento, di procedere a cavaliere di una parola che ci fa avvertiti dei prodigi che essa contiene, un humus fertile ancora nascosto: i mondi, ossia, che è in grado di scoprire davanti ai nostri occhi soltanto al semplice schioccare delle dita.


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Bart