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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Gide, André

7 Novembre 2007

Isabelle    

“Isabelle”

Lerici Editore, 1960, pagg. 150. (Trad. Marco Forti)

È, questo, un romanzo di Gide forse poco conosciuto, composto tra il 1910 e il 1911, che fa da spartiacque tra il periodo in cui scrisse “L’immoralista” e “La porta stretta” e il periodo successivo de “I sotterranei del Vaticano”; “I falsari”; “Diario”.

La storia viene riferita da Gide come raccontata da Gérard Lacase, un amico che conduce Gide e Francis Jammes a visitare il castello di Quartfourche. Poiché si accorgono che l’amico Gérard prova della commozione a rivisitare quelle stanze ora in rovina, lo pregano di rivelare loro la storia del castello.

Scrittura bellissima, a mio modo di vedere, questa di Gide, che riesce immediatamente a creare l’atmosfera seducente di un Ottocento che ci ricorda altri grandi autori francesi; si fa il nome di Mérimée, ma vi intravedo pure un incontro tra Hugo e Stendhal. L’arrivo al castello dello studente Gérard, che vi deve completare alcune ricerche per la sua tesi di laurea, e i primi personaggi che si apprestano a riceverlo, il cocchiere Gratien, la domestica Mademoiselle Verdure, l’abate Santal, e i coniugi Floche, sono descritti magistralmente con tratti nitidi ed essenziali.

Il castello appartiene ai baroni de Saint-Auréol, che sono imparentati coi Floche (le due mogli sono sorelle), i quali sono andati a stare con loro per aiutarli economicamente, essendo i Saint-Auréol ridotti quasi in miseria. Sono due coppie anziane e un po’ bizzarre, che passano le loro giornate chiuse nel castello. Gérard presto si annoia e vorrebbe andarsene, così trova una scusa per congedarsi, con sommo dispiacere dei suoi ospiti. Ma al castello vive un bambino storpio, Casimir, di cui i baroni sono i nonni. Della sua educazione si occupa l’abate Santal, che in realtà approfitta di lui per fargli copiare suoi lavori su Averroè. Tra Gérard e Casimir nasce una amicizia, e il ragazzo appare tra i più rattristati per l’improvvisa partenza dell’amico. Gli mostra alcune cose che sono nascoste in un cassetto della camera della zia, e tra queste il ritratto di una donna molto bella. Gérard interroga il ragazzo e apprende che quella donna è sua madre, Isabelle, la quale misteriosamente non vive al castello, ma ogni tanto, di notte, viene a trovare il figlio in camera sua. La bellezza della donna e il mistero che aleggia sulla sua vita, indurranno Gérard a tornare sui suoi propositi e troverà una scusa per rimanere.

Tutto questo viene raccontato con una leggerezza di stile e un candore di sentimenti che sorprendono in un autore complesso come Gide, e la storia riesce assai gradevole. Si ha la sensazione di uno svago, di un momento di sosta e di quiete che l’autore si è voluto concedere, e anche di una specie di esperimento volto a sondare tutti i percorsi possibili della sua sensibilità.

Quando Gérard scopre una lettera di Isabelle, rimasta nascosta per anni e indirizzata al suo amante, morto prima di poterla ritirare, noi siamo introdotti in una atmosfera di attesa che richiama alla mente le contorte e tremebonde oscurità di quell’Edgard Allan Poe che va indubitabilmente riconosciuto il padre di storie sottili e inquietanti come questa. Qui è Gérard che parla: “No non era il sonno, ma la morte che intorpidiva e ghiacciava di già i miei ospiti; e un’angoscia, una specie di orrore opprimevano anche me.” E ancora “E pensavo a voi, Isabelle. Da quale tomba eravate riuscita ad evadere! Verso quale vita?” Questo, invece, è il sogno di Gérard: “Non era Isabelle in carne e ossa, ma una bambola somigliante, che si metteva al suo posto durante l’assenza della vera Isabelle. Ora quella bambola mi sembrava orrenda;” in cui si avvertono anche echi di Hoffmann.

È notte e, annunciata da un biglietto, si sa che Isabelle giungerà al castello. Gérard è trepidante, vuole vederla. Finalmente la vede, mentre è a colloquio con la zia e la burbera madre. Ma è questione di un attimo. Isabelle frettolosamente lascia il castello. Gérard non fa in tempo a raggiungerla e sente la carrozza allontanarsi. In realtà, non sa che quella che sta vivendo è la fine di un sogno, poiché avrà modo di rivedere ancora Isabelle, qualche tempo dopo, ma scoprirà di lei cose molto tristi.

Come spesso succede ai grandi narratori (mi sovviene Thomas Mann con “La morte a Venezia”, che, guarda caso, è del 1912), alcune loro opere, ritenute minori, si rivelano poi, col passare degli anni, dei piccoli cammei, minuscoli gioielli che riescono a durare e a vivere di luce propria. Così m’è parso “Isabelle”.


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Bart